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Suicidio assistito/ La Corte Costituzionale torna sulla fragile definizione di sostegno vitale

di Paola Ferrari *

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24 Esclusivo per Sanità24

Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia, i requisiti per l’accesso al suicidio assistito, previsto e punito dall’art. 580 del codice penale, restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza.
Tutti questi i requisiti:
(a) irreversibilità della patologia,
(b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili,
(c) dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale,
(d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli.
Sempre che – a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano state verificate, nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Questa è la massima della sentenza della Corte Costituzionale che ha respinto le questioni sollevate dal Gip di Firenze, contenuta nella sentenza n. 135 del 18 Luglio, nella quale vengono richiamate numerose pronunce di giudizi sul medesimo tema rese in ambito europeo ed internazionale.
Al riguardo, occorre qui sottolineare come compito di questa Corte, prosegue la sentenza in altro punto, “non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa. Rispetto a tale nozione, non possono non valere le considerazioni già svolte, circa la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento”.
Parimente, deve essere confermato lo stringente appello, proseguono i giudici costituzionali, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010.
Come sottolineato da questa Corte sin dall’ordinanza n. 207 del 2018, occorre infatti in ogni caso assicurare, anche attraverso la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari, che “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza”.
Nel rigetto si è, però, a lungo soffermata a lungo sulla definizione di sostegno vitale in una situazione giuridica che, ad avviso di chi scrive, ricorda molto il caso paradigmatico di Eluana Englaro.
I fatti
Il Giudizio di Firenze vede protagonista, ancora una volta, Marco Cappato noto attivista dell’Associazione Coscioni, che accompagnò una paziente in Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito.
Al malato fu diagnosticata nel 2017 la sclerosi multipla, patologia del sistema nervoso centrale che provoca una progressiva invalidità del paziente. Dopo l’esordio dei primi sintomi lievi, il quadro clinico era rimasto stazionario per alcuni anni, sino a che, sul finire del 2021, si era avuto un significativo e rapido peggioramento delle condizioni di vita.
Il paziente aveva dapprima manifestato difficoltà nella deambulazione, poi aveva avuto bisogno della sedia a rotelle e già ad aprile 2022 era rimasto definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salva una residua capacità di utilizzazione del braccio destro.
La sclerosi multipla era non suscettibile di guarigione e pativa sofferenze psicologiche che lui stesso reputava insostenibili, non tollerando più di trovarsi “ingabbiato con la mente sana in un corpo che non funziona”, in quella che, nel suo apprezzamento, “non era più una vita dignitosa”.
Secondo quanto dichiarato dal padre, nel 2021 il paziente aveva iniziato a maturare il proposito di porre fine alla sua vita, per ragioni legate alla patologia di cui soffriva. Tramite ricerche svolte in autonomia su internet, era venuto a conoscenza dell’esistenza di associazioni che offrivano supporto ai pazienti interessati ad accedere alla procedura di suicidio assistito all’estero, e in questo modo era entrato in contatto con l’associazione sopra indicata.
Nel 2022, il paziente fu accompagnato da Marco Cappato e due volontari in Svizzera presso una struttura dove si svolsero “colloqui e visite con diversi medici, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’accesso alla procedura in termini compatibili con la legge elvetica”. Il paziente aveva avuto la possibilità di confrontarsi anche con i familiari giunti fin lì, resistendo ai loro tentativi di dissuaderlo dal proposito di darsi la morte.
La procedura si era conclusa l’8 dicembre 2022 quando il paziente, assistito dal padre, dalla sorella e degli indagati aveva confermato definitivamente la sua volontà e, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare, aveva assunto per via orale un farmaco letale, spirando dopo pochi minuti.
La fragile definizione di sostegno vitale
Nella fattispecie oggetto della sentenza, non si è di fronte a un paziente sostenuto da dispositivi medici che gli permettono la vita ma di una malattia degenerativa che gli ha tolto l’autosufficienza e lo obbligano ad essere dipendente da terze persone.
Il paziente con sclerosi multipla può vivere molti anni anche in assenza di sostegni vitali ma non può decidere di porre fine alla sofferenza in quanto il supporto assistenziale continuo non è, attualmente, definito come sostegno vitale.
Tutte le parti del giudizio concordano sul fatto che nel nostro ordinamento manchi una definizione normativa o medico-sanitaria della nozione di «trattamento di sostegno vitale».
L’unico riferimento normativo si rileva nella legge n. 219 del 2017, che, nell’individuare i trattamenti, anche di sostegno vitale, cui il malato può rinunciare o che può rifiutare, vi include – con indicazione chiaramente non tassativa – la nutrizione e l’idratazione artificiale.
In sintesi, si è soliti definire il sostegno vitale come qualsiasi terapia o macchinario medico che supporti o sostituisca una funzione corporea necessaria.
Alcuni sono facilmente definibili (es. ventilazione meccanica , rianimazione cardiopolmonare , dialisi), per altre ci sono voluti anni di battaglie giudiziarie come, per esempio, la somministrazione di nutrizione tramite sondino o via endovenosa che ebbe la consacrazione come tale ad opera della Cass., sez. I, 16.10.2007, n. 21478 resa nel caso di Eluana Englaro. È questa la domanda ai quali i giudici penali dovranno rispondere. Esito tutt’altro che scontato dal momento che questa vicenda si svolge dopo la sentenza n. 242 del 2019 e non risulta che fosse stato seguito l’iter proposto dalla Corte Costituzionale.
È opportuno segnalare, inoltre, che in data 20 giugno 2024 il Comitato Nazionale per la Bioetica ha adottato un parere, pubblicato il 1 luglio (https://bioetica.governo.it/media/titp0sf3/risposta-tsv-rev-2-luglio-2024-finale.pdf ) in risposta al quesito del Cet Umbria sui trattamenti di sostegno vitale secondo il quale, dopo avere dato atto che sulla definizione con c’è consenso, devono definirsi tali quelli:
a) Finalità: sono indirizzati alla risposta a condizioni che mettono a rischio la vita, in un arco di tempo breve o addirittura brevissimo (quando si tratta non di un semplice “sostegno”, ma di una vera e propria “sostituzione” di una funzione vitale che l’organismo è ormai del tutto incapace di assicurare autonomamente).
b) Intensità: i trattamenti di sostegno vitale impiegano spesso tecnologie avanzate e procedure specialistiche, e possono implicare una forte invasività e continuità nel tempo. Non vanno confusi con un trattamento o un farmaco salvavita (per esempio l’adrenalina per lo shock anafilattico).
c) Sospensione: la sospensione di un trattamento provoca conseguenze fatali immediate o comunque rapide, in relazione al tipo di trattamento e alle condizioni cliniche del paziente.
Alcuni componenti del Cnb (diciannove) hanno ritenuto che i trattamenti di sostegno vitale debbano costituire una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali, e che la loro sospensione debba comportare la morte del paziente in tempi molto brevi. Altri (cinque) pensano che il “sostegno” possa avvenire anche tramite piani di assistenza complessi, e che l’impatto sull’individuo e la sua percezione personale siano rilevanti.
L’assistenza è cura? Il concetto di autodeterminazione terapeutica
La questione formulata muove, da una nozione diversa, e più ampia, di “autodeterminazione terapeutica”, afferma la Corte, ed è “pienamente consapevole della intensa sofferenza e prostrazione sperimentata da chi, affetto da anni da patologie degenerative del sistema nervoso, e giunto ormai a uno stato avanzato della malattia, associato alla quasi totale immobilità e conseguente dipendenza dall’assistenza di terze persone per le necessità più basilari della vita quotidiana, viva questa situazione come intollerabile”.
In effetti, afferma la Corte Costituzionale: “Il diritto a rifiutare il trattamento medico è nato e si è consolidato nella giurisprudenza italiana – costituzionale, civile e penale – da un lato come diritto al consenso informato del paziente rispetto alle proposte terapeutiche del medico; dall’altro, specularmente, come diritto a rifiutare le terapie medesime. Sotto quest’ultimo profilo, il diritto in questione è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita, e dunque – in definitiva – alla tutela dell’integrità fisica della persona.
Esso si caratterizza, dunque, primariamente come libertà ’negativa’ del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita”.
Il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., insegna la sentenza, “di fronte al quale questa Corte ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi. Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi”.
Non c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Prosegue: “sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito”.
Ora, questa Corte non è affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità, si legge in un altro punto, “tuttavia, non può non rilevarsi che questa nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte”.
Come si è più volte rammentato il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività.
Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente.
Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019.
Tutte queste procedure – proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare.
Di cruciale rilievo appare, in questo contesto, non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica –, ma anche la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative.
Il caso porta alla memoria un passaggio incluso nella Sentenza del Consilio di Stato sezione III, 2 settembre 2014, n. 4460 che pose fine al Caso Englaro, che definì il concetto di cura: “cura non è ciò che l’Amministrazione ritiene di proporre o imporre al paziente, in una visione autoritativa di salute che coincida solo con il principio di beneficialità - poiché è la cura a doversi adattare, nei limiti in cui ciò sia scientificamente possibile, ai bisogni del singolo malato e non il singolo malato a un astratto e monolitico concetto di cura - ma il contenuto, concreto e dinamico, dell’itinerario umano, prima ancor che curativo, che il malato ha deciso di costruire, nell’alleanza terapeutica con il medico e secondo scienza e coscienza di questo, per il proprio benessere psico-fisico, anche se tale benessere, finale e transeunte, dovesse preludere alla morte.
Opzione curativa, strategia terapeutica e cura sono anche, in questo senso, il diritto e la possibilità di interrompere il trattamento sanitario, già intrapreso e non più voluto o tollerato; la decisione di vivere sul proprio corpo la propria malattia al di là o al di fuori di un pregresso o anche di un qualsivoglia percorso terapeutico; la scelta consapevole e informata, per quanto tragica, di accettare serenamente, anche sol lenendo l’acuirsi della sofferenza, la progressione inarrestabile del male fisico sino alla morte; l’applicazione delle fondamentali cure palliative, ora disciplinate dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, e non a caso collocate dall’articolo 1 di tale legge, con una previsione che ha un indubbio valore sistematico, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza, e la cosiddetta terapia del dolore, l’accompagnamento del paziente nella fase terminale della malattia”.
Insomma, il paziente non ha diritto al suicidio assistito ma a quello di essere liberato da una vita dolorosa e sospesa.

* Avvocato


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