Medicina e ricerca

Coronavirus/ Università di Milano, nessun rischio da farmaci antipertensivi

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"Non vi sono prove del fatto che ACE-inibitori e sartani, farmaci comunemente utilizzati per l'ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco e il post-infarto favoriscano o aggravino l'infezione da COVID-19 come invece era stato affermato nella prima fase di diffusione dell'epidemia". E' quanto emerge dallo studio condotto dall'Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l'Istituto nazionale dei tumori di Milano (INT) e Agenzia Regionale ARIA. Lo studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine, è stato condotto sulla popolazione della Regione Lombardia e mostra, sottolinea Giuseppe Mancia, professore emerito all'Università degli Studi Milano-Bicocca che "l'uso di farmaci antipertensivi è più frequente tra i pazienti con Covid-19 a causa di una maggiore prevalenza di malattie cardiovascolari ma che questi farmaci non ne favoriscono l'insorgenza e non peggiorano la prognosi".

"La pandemia in corso che ha così drammaticamente colpito il nostro Paese e la nostra regione, non solo ha causato in Italia molti contagi e un numero elevato di decessi dovuti al virus, ma sicuramente è responsabile di morti associate e di morti indirette, soprattutto in pazienti con patologie frequenti che rendono gli individui fragili e quindi suscettibili a complicazioni" – spiega Giovanni Apolone, direttore scientifico dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. – "Fra questi ci sono certamente i pazienti con cancro e quelli con patologie cardiovascolari che ammontano a molti milioni in Italia. Sono quindi in corso parecchi studi per verificare se determinate patologie o determinate terapie aumentano il rischio di contagio e influenzano la prognosi. La possibilità di poter utilizzare i dati provenienti dai flussi e dai data base della Regione Lombardia e il registro COVID regionale ci ha permesso di risalire alla storia clinica e diagnostico-terapeutica dei pazienti fino a 5 anni precedenti lo studio, inclusi tutti gli episodi di ospedalizzazione per diverse malattie, comprese le patologie tumorali, e di poter escludere, con una certa ragionevolezza nonostante il disegno osservazionale dello studio, che la somministrazione di questi farmaci non aumenta il rischio di incorrere nella infezione e di avere una prognosi sfavorevole. Nello stesso numero del New England Journal of Medicine sono infatti stati pubblicati altri 2 articoli sullo stesso tema basati su dati simili provenienti da altri Paesi che hanno mostrato gli stessi risultati".


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