Lavoro e professione

Quei contratti fermi al palo e la proposta di “age management”

di Stefano Simonetti

S
24 Esclusivo per Sanità24

Siamo giunti ormai a meno di due mesi dalla scadenza di un triennio contrattuale che, di fatto, non è nemmeno cominciato. In pratica una intera stagione contrattuale slitterà e i 680.000 lavoratori della Sanità pubblica salteranno un giro “senza passare dal via”, come avveniva in un noto gioco da tavolo. Le ragioni di questo ritardo sono molteplici e non tutte addebitabili alla parte pubblica, quantomeno direttamente. Le controparti sindacali, infatti, non hanno alcuna intenzione di chiudere un contratto con le risorse messe a disposizione e, come sempre è avvenuto, confidano in eventi extracontrattuali (la legge di bilancio) o giocano partite tattiche in funzione delle elezioni delle Rsu. Ma anche quando il legislatore stanzia risorse extracontrattuali l’iter è defatigante, come nel caso dell’annunciato incremento della indennità di specificità per via di quella precisazione “nell’ambito della contrattazione …..”, laddove il tecnicismo comporta che i medici vedranno l’aumento concreto in busta paga, nella migliore delle ipotesi, a metà del prossimo anno. Tuttavia, per obiettività di esposizione, va detto che se i contratti fossero rinnovati in tempo reale – cioè per essere chiari prima della loro scadenza per scongiurare qualsiasi proroga - il meccanismo che regola la contrattazione collettiva da 30 anni esatti forse sarebbe tuttora valido e funzionale alla tutela del potere di acquisto dei salari. Un rinnovo contrattuale al 5,78% che arriva a contratto scaduto e di riferisce a un triennio lontano nel tempo diventa per forza di cose inaccettabile.
La percentuale di aumenti retributivi citata è data dall’Ipca relativo agli anni 2019 - 2021 nei quali si è avuta una inflazione reale ben maggiore. Se però le trattative si trascinano stancamente per tutto il 2024 - e per la dirigenza non sono nemmeno iniziate - allora il fragile castello di sabbia della contrattazione collettiva crolla miseramente e con essa il patto tra lo Stato e i suoi dipendenti. Basterebbe pensare a una distopica situazione in cui medici e infermieri - citati per sineddoche - avessero già avuto dalla busta paga di febbraio 2022 aumenti del 5,78%, perchè molte tensioni e polemiche fossero evitate e le regole del gioco pienamente rispettate. Ma se tali regole vengono di continuo violate o alterate la tensione sociale sale alle stelle e i disagi che ne derivano non fanno bene, ovviamente, ai lavoratori ma neanche al Governo.
Per fare un esempio, l’ultimo contratto dei 534.000 lavoratori del comparto è stato firmato il 2.11.2022, con rinnovi pari al 3,48% del monte salari e si riferiva al triennio 2019-2021. In questo scenario piuttosto surreale, la parte pubblica tanto per non stare con le mani in mano avanza proposte innovative come quella di alcune settimane fa presentata sul tavolo negoziale delle Funzioni centrali e relativa all’“age management”. Con questa proposta si ritiene che la valorizzazione dell’esperienza costituisca uno dei capisaldi del nuovo contratto e sarà finalizzata alla formazione dei giovani da realizzare attraverso programmi di mentoring e reverse mentoring per favorire lo scambio di competenze tra generazioni diverse, riconoscendo il valore del patrimonio di conoscenze dei lavoratori più anziani.Quando le aziende hanno applicato il contratto inserendo in busta paga gli aumenti e gli arretrati, l’inflazione era all’ 11,8%: quindi il rinnovo, non solo è arrivato con anni di ritardo, ma non ha garantito affatto il potere di acquisto.

I presupposti di questa innovazione sono, con tutta evidenza, la prospettiva del trattenimento in servizio degli statali fino a 70 anni e dell’innalzamento dell’età di collocamento a riposo a 67. Insomma, una risposta concreta al fenomeno del progressivo invecchiamento che si cerca di governare attraverso politiche innovative improntate a flessibilità lavorativa, maggiore ricorso al part-time, lavoro a distanza, formazione continua e benessere lavorativo.
Avevamo già avuto il mentoring nel Ccnl dell’Area delle Funzioni locali sul quale avevo espresso un commento nell’articolo pubblicato su questo sito il 12 dicembre 2023 . Negli ultimi contratti venivano ricordati il coworking e l’empowerment. Si parla oggi di assesment, si pensa addirittura a un massiccio ingresso dell’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione, magari con il ricorso alla chatGpt per la redazione di decreti e deliberazioni. Lo stesso welfare integrativo per come è regolamentato e, soprattutto, non finanziato, rientra nelle tematiche che definirei di depistaggio rispetto ai veri problemi che sono quelli legati al rapporto tra lo Stato e i suoi lavoratori che è incrinato in modo evidente. Oltretutto questi strumenti o metodologie organizzative - in disparte dalla assenza di finanziamenti dedicati - non hanno carattere precettivo e non sono obbligatori ed è sempre presente la parolina magica “possono”, termine che in una norma giuridica non dovrebbe nemmeno leggersi. In questa ottica si apre uno scenario particolarmente complesso e irrisolto. I contratti collettivi della Sanità in alcune parti appaiono ridondanti, basti leggere decine di passaggi dove non c’è traccia di diritti o obblighi contrattuali rispettivi ma solo generici comportamenti organizzativi, per poter affermare che un buon 20% di clausole in meno non avrebbe leso la portata obbligatoria del Ccnl ma avrebbe conferito maggiore leggibilità.
Un contratto collettivo costituisce un negozio giuridico che civilisticamente prelude a obbligazioni individuali di natura sinallagmatica: in estrema sintesi, un contratto collettivo deve fissare gli obblighi in termini quali-quantitativi dei lavoratori e i corrispondenti (nel senso del sinallagma, appunto) obblighi del datore di lavoro e tutto ciò che è discrezionale, incerto, non definito con chiarezza costituisce un vulnus alla trasparenza ed esigibilità concreta dei contenuti contrattuali. Il frequente ricorso alle locuzioni “le aziende possono” o “di norma”, “è consentito”, se non addirittura “le parti auspicano” non conferisce ai lavoratori alcuna certezza riguardo ai propri diritti e consente alle aziende di adottare comportamenti molto difformi anche all’interno della stessa Regione, cosa imbarazzante per una pubblica amministrazione che deve ispirarsi ai principi sanciti dall’art. 97 della Costituzione. Senza contare che una clausola contrattuale è a tutti gli effetti una norma giuridica che deve possedere le caratteristiche di astrattezza, generalità e coattività che se non si riscontrano – con particolare riguardo a quest’ultima – fanno dubitare della stessa utilità della presenza di tali clausole in un contratto collettivo. Lo sanno bene i sindacati medici che nell’ultimo Ccnl sono riusciti a eliminare almeno quattro “di norma”.
In ogni caso, per la Sanità questi nuovi strumenti organizzativi non avrebbero un impatto particolare perché, come per tante altre tematiche, la Sanità si distingue per la sua specificità e, per fare un esempio, la presenza stessa di specializzandi e tirocinanti delle lauree infermieristiche e tecnico-sanitarie implica il ricorso da anni a strumenti quali il tutoraggio o l’affiancamento. Il lavoro di équipe, le collaborazioni interprofessionali, il riconoscimento di fattori anagrafici (esonero da guardie e PD sopra una certa età) sono da tempo elementi portanti della cultura e della organizzazione del S.s.n.
Pur nella consapevolezza che il mio commento è fondato su sensazioni istintive e, naturalmente, personali, non riesco a non pensare che le innovazioni introdotte o proposte siano elementi di distrazione e mascherino le evidenti e ormai croniche criticità della contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Nondimeno, per conferire un fondamento più giuridico e meno passionale alle osservazioni fatte, provo a contestualizzare nel vigente quadro legislativo le tematiche di cui si sta parlando, al fine di verificare la loro coerenza con l’autonomia collettiva e con la stessa natura pattizia degli accordi sindacali. Nel TUPI l’intero Titolo III è dedicato alla “Contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale”. Le norme di cui agli artt. 40-50-bis risalgono al 1993, sono state integrate profondamente nel 2009 e decine di altre volte. Tra i principi fondanti della contrattazione collettiva, si può rilevare un punto fermo: l’art 40, il cui primo comma indica le materie sottratte alla contrattazione collettiva, sia nazionale che integrativa, e tra di esse rientrano “le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, ….. , quelle afferenti alle prerogative dirigenziali”. Ora, se si legge la norma in modo coordinato quella dell’art. 45 sul trattamento economico, si deve necessariamente concludere che tutti gli istituti o processi organizzativi in discussione non dovrebbero nemmeno trovare posto in un contratto collettivo, come si è cercato di dimostrare. Tra l’altro, se prosegue la tendenza a innalzare l’età per il collocamento a riposo o a consentire il trattenimento, gli uffici pubblici dovranno allestire sezioni di Rsa, altro che age management. Non vorrei passare per antimoderno o fare una sorta di luddismo contrattuale ma, in termini semplicemente pragmatici, credo davvero che i grandi problemi della PA siano altri. Al netto della Sanità pubblica - che se continua così ha i giorni contati -, sei mesi per avere un passaporto, 3 anni per ottenere il Tfr la latenza totale nella prevenzione e tutela del territorio, la scuola strutturalmente e ideologicamente allo sbando, le gare d’appalto e i concorsi pubblici di durata biblica non sembra siano patologie da curare mediante le metodologie richiamate, affette da anglicismi e spesso citate per mera “tendenza”.
Forse, con un po’ di sano realismo, basterebbe investire maggiori risorse nella PA, a cominciare naturalmente dal numero e dalle retribuzioni dei suoi addetti che dovrebbero essere dei veri civil servant ma che, allo stato attuale, sono solo servant demotivati e quasi disprezzati. Come si può dimenticare, infine, che per i più di tre milioni di dipendenti pubblici la contrattazione collettiva è stata bloccata, senza alcun recupero, per nove anni con una perdita di potere di acquisto di circa il 30% del salario ?


© RIPRODUZIONE RISERVATA