Sentenze
Cassazione: la rassegna delle sentenze della sezione lavoro sugli infermieri
di Paola Ferrari
24 Esclusivo per Sanità24
Una estate calda per gli infermieri che sono passati sotto la lente della sezione lavoro della Cassazione che ha toccato interessanti aspetti del loro difficile lavoro in corsia.
Non avvisare l’azienda che il collega dorme non merita il licenziamento dell’infermiera sindacalista
La sentenza Cass. Lav. n. 22614 ha confermato quella della Corte d’Appello dell’Aquila che annullò il licenziamento e reintegrò l’infermiera ritenendo la sua espulsione ritorsiva, ai sensi dell’art. 18, commi 1 e 2, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
L’infermiera, dipendente di una Casa di Cura privata fu accusata di avere tenuto una condotta non conforme alla diligenza professionale per avere omesso di segnalare al datore di lavoro che un suo collega, nel corso del turno notturno programmato, fosse andato a dormire nella stanza di “deposito del pulito”, lasciando la stessa a gestire il turno da sola, sia nel corso della notte e sia durante le cure dei pazienti alle 5 del mattino.
Secondo la società, la condotta omissiva e connivente della lavoratrice, che nulla aveva obiettato al collega e nulla aveva segnalato ai superiori, l’aveva resa complice del grave inadempimento del collega e aveva compromesso la regolare assistenza ai pazienti. All’infermiera era stata, inoltre, contestata la recidiva in relazione a due precedenti procedimenti disciplinari.
Nell’escludere la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, i giudici di appello esclusero ogni violazione del dovere di diligenza osservando che la lavoratrice non solo aveva reso regolarmente la sua prestazione ma anche evitato ogni disservizio, svolgendo anche il lavoro del collega, inoltre, aveva riferito l’accaduto alla caposala. Secondo la Cassazione, bene ha fatto la Corte d’Appello a considerare ritorsivo il licenziamento la cui unica e vera motivazione era provvedere all’espulsione di una sindacalista.
L’infermiera, infatti, era iscritta al sindacato Nursind, che aveva promosso una precedente vertenza, vinta dai lavoratori nei confronti della società, per il riconoscimento di alcuni adeguamenti retributivi previsti dal contratto collettivo. Tutti i lavoratori che avevano partecipato alla vertenza furono licenziati mentre coloro che si erano ritirati erano rimasti in servizio.
La Corte, peraltro, rilevava che l’infermiera non aveva alcun obbligo di controllo sulla regolarità delle prestazioni degli altri dipendenti in turno e che nessuna allegazione e prova in tal senso era stato fornito dalla società ed i precedenti disciplinari, richiamati nella lettera di contestazione, erano assai risalenti nel tempo e, come tali, inidonei a supportare la contestazione di recidiva.
La ricorsività, affermano i giudici, si caratterizza, infatti, per la assenza di qualsiasi ragione in grado di giustificare il licenziamento secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo e per il ricorrere di prove anche indiziare, pure basate su semplici dati statistici (v. Cass. n. 1 del 2020 in tema di discriminazione per affiliazione al sindacato), atte a disvelare il motivo illecito quale motore esclusivo dell’agire datoriale, di ingiusta reazione al comportamento legittimo del dipendente.
Se il turno supera le sei ore scatta il ticket mensa
Con una serie di sentenze gemelle (tra le altre; n. 20602 del 24/07; n. 20593 e n. 20959 del 26/07; n. 21305; n. 21307 ; n. 21499 del 30/07 e n. 24262, 24267; 24271, depositate tutte il 10/09 ), la sezione lavoro è entrata nel merito del diritto dell’infermiere all’indennità di mensa durante i turni notturni e di quelli che superano le normali ore lavorative La questione controversa riguarda l’interpretazione della frase “particolare articolazione dell’orario” contenuta nell’art. 29, comma 2 del CCNL integrativo Comparto Sanità 2001 (”Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario).
In particolare, le sentenze ribadiscono il seguente principio: “in tema di pubblico impiego privatizzato l’attribuzione del buono pasto, in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, e diretta conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane dei dipendenti, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio, è condizionata all’effettuazione di una pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato”; che, pertanto, deve ritenersi aver la Corte territoriale erroneamente interpretato la disposizione contrattuale di cui all’art. 29 del contratto integrativo del 20.9.2001 disconoscendo il collegamento del diritto alla mensa alla fruizione di un intervallo di lavoro, risultando tale collegamento operato anche in sede legislativa ove l’intervallo è previsto per la consumazione del pasto ed è collocato oltre il limite delle sei ore di lavoro.,
Diritto al ricalcolo del TFS con l’inclusione del servizio prestato dal 1° agosto 1978 al 12 giugno 1985, non in ruolo
La Cass. lav. del 31/07, n. 21476 è intervenuta sul diritto al ricalcolo del TFS per i periodi lavorati senza stabilizzazione.
La Corte d’Appello di Napoli rigettò l’appello proposto dall’INPS, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale della stessa sede, che aveva riconosciuto il diritto ad un dipendente del Comparto Enti locali e sanità, il diritto al ricalcolo del TFS con l’inclusione del servizio prestato dal 1 agosto 1978 al 12 giugno 1985, non in ruolo, quale infermiere in convenzione presso il Primo Policlinico Universitario dell’Università di Napoli Federico II.Contro la sentenza di appello ricorre l’INPS, prospettando un motivo di diritto. Secondo l’INPS gli effetti della legge della Regione Campania n. 10 del 1978, oggetto dell’equiparazione a fini economici tra il personale in regime di convenzione e il personale paramedico in servizio presso i Policlinici Universitari sarebbe stato il solo trattamento strettamente retributivo e non anche gli istituti di natura previdenziale, tra cui rientra il trattamento di fine servizio (legge n. 207 del 1985).
I soli ratei di trattamento di fine servizio al quale, secondo l’ente previdenziale, avrebbe avuto diritto sarebbero stati quelli maturati dall’infermiere a far data dalla sua immissione in ruolo presso l’ASL Napoli 1, e non anche quelli maturati durante il periodo di servizio non in ruolo prestato in base ad una convenzione con il Primo Policlinico dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (le cui competenze erano state successivamente trasferite all’ASL Napoli 1).
Il motivo è infondato afferma la Cassazione, in conformità a precedente (Cass. n. 14626/2024), in quanto Il trattamento economico di detto personale è equiparato al trattamento del personale paramedico in servizio presso i Policlinici universitari.Nella fattispecie in esame, trovano applicazione i principi enunciati, da ultimo, da Cass. n. 27427 del 2020, sull’automatismo delle prestazioni previdenziali.Ed infatti, afferma la sentenza: “il principio dell’automatismo delle prestazioni previdenziali, di cui all’art. 2116, cod. civ., così come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 374 del 1997, opera, con riguardo ai vari sistemi di previdenza e assistenza obbligatorie, come regola generale e può essere derogato solo in base a specifiche disposizioni di legge, le quali devono espressamente prevedere anche la eventuale limitazione dell’automatismo al solo caso in cui non sia prescritto il diritto dell’Ente previdenziale alla percezione dei contributi, circostanza che non emerge nella fattispecie in esame”.
In occasione del passaggio dei dipendenti ospedalieri alle dipendenze delle unità sanitarie locali, a seguito della riforma sanitaria, non è venuta meno la continuità del rapporto di lavoro, e, in base alla disciplina dell’art. 76 del D.P.R. n. 761 del 1979, il diritto al trattamento di fine servizio matura a seguito del collocamento in quiescenza anche con riferimento alla quota relativa al periodo alle dipendenze dell’ente ospedaliero.
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