Sentenze

Cittadini stranieri: la struttura deve risarcire se il paziente non comprende la terapia da seguire

di Paola Ferrari

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24 Esclusivo per Sanità24

Non risulta decifrabile la logica sottesa all’addebito di condotte omissive della paziente, a fronte delle raccomandazioni date riguardo alla generica indicazione di “regolarizzazione della posizione antitetanica”, quando al contempo si concluda per una compiuta impossibilità di farsi capire con riferimento alla necessità di somministrare un medicinale essenziale per evitare conseguenze gravi anche se a fronte di alcuni residuali rischi come tipicamente quello di schock (anafilattico), il tutto concludendo poi nel senso che, stanti i consigli ricevuti, si sarebbe trattato di “libera scelta”, quindi consapevole, della vittima.
Non è dato comprendere, si dice in altro punto, come sia stato possibile dare atto di un dialogo tra paziente e medico quanto alle cure mediche poste in essere sino all’anestesia, necessitanti o meno di uno specifico consenso informato, e poi concludere per l’assoluta impossibilità di farsi comprendere anche con un linguaggio semplice riguardo alla necessità di somministrazione di un vaccino ovvero di un farmaco come pure quello prodromico alla suturazione, al fine di prevenire gravi patologie se non esiti peggiori, sia pure con qualche rischio ma sotto controllo medico.
Questa è la massima contenuta nella sentenza della Corte di cassazione civile, sez. III n. 22888 depositata il 16 agosto.
La sentenza, riporta di un caso poco frequente nella giurisprudenza ma sempre più presente nelle corsie e negli ambulatori, concernente la difficoltà di comunicazione delle terapie salvavita a pazienti con difficoltà linguistiche.

I fatti

Una paziente straniera con il marito ed i figli convennero in giudizio l’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale e l’Agenzia Territoriale della Salute ed i medici di una struttura della Brianza.

La paziente si recò al pronto soccorso a causa di una ferita alla gamba causata da una catena.Fu medicata e suturata previa anestesia locale, disponendo, come da referto, la “regolarizzazione della posizione antitetanica al distretto ASL”.

L’antitetanica non fu somministrata in quanto il medico non riuscì a farsi comprendere nella lingua della paziente e non riuscì a farsi rilasciare il necessario consenso informato.La somministrazione avvenne il giorno seguente presso l’ASL di Monza e Brianza, che però era sprovvista della necessaria contestuale terapia immunoglobulinica, finalizzata ad evitare l’infezione tetanica poi effettivamente intervenuta nelle giornate a seguire.Il ritardo terapeutico comportò l’invalidità permanente della paziente.

Il Tribunale di Monza accolse la domanda risarcitoria.

La Corte di appello di Milano riformò la decisione, osservando che a fronte dello specifico fattore di rischio di shock anafilattico, il medico del Pronto Soccorso non avendo potuto ottenere il consenso informato dalla paziente, nonostante tentativi posti in essere per quasi un’ora cercando pure di sollecitarla a farsi raggiungere da parenti, sia per incomprensioni linguistiche sia perché la stessa era affetta da decadimento cognitivo, invitò quest’ultima alla regolarizzazione della vaccinazione il giorno successivo presso l’azienda sanitaria.

Il fatto che la paziente non fosse riuscita ad esprimere il consenso al medico del pronto soccorso, secondo la Corte d’Appello, equivale a libera scelta di non proseguire con il completo trattamento terapeutico.

Da qui il ricorso in Cassazione della paziente e dei congiunti accolto con rinvio alla corte territoriale.

Le ragioni della decisione

I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto che nella sentenza vi fosse una evidente contraddizione.

Per un verso era stata affermata l’impossibilità, in specie per ragioni linguistiche, di ottenere il consenso informato, e per altro verso era stata effettuata anche l’anestesia e altre cure che avrebbero imposto il dialogo con il medico.

Finendo poi per addebitare alla paziente il ritardo ovvero la scelta di non completare la profilassi, laddove idonee indicazioni specifiche che avrebbero dovuto essere contenute nel referto, invece mancanti, avrebbero permesso di rendere manifeste le necessità ai familiari della paziente ma anche a ogni altro medico cui la stessa si fosse rivolta.

Il comportamento dei sanitari è stato ritenuto negligente, afferma la sentenza, perché se vi fosse stata un’assoluta impossibilità di farsi comprendere, per come descritta, la difficoltà avrebbe logicamente dovuto impedire pressoché ogni cura.

Inoltre, non risulta spiegato in modo decifrabile e senza congetture come si possa conciliare la sopra detta conclusione con il consenso informato pacificamente acquisito in occasione della vaccinazione effettuata il giorno successivo.

A quest’ultimo riguardo, afferma la Cassazione, non è dato comprendere da quale dato istruttorio la Corte di appello desume che il medico avrebbe provato a chiedere alla paziente di farsi raggiungere dai familiari e perché si sarebbe trattato di un’impossibilità assoluta senza neppure verificare se nella struttura fosse presente o in ogni caso fosse reperibile personale utile a un supporto linguistico.

A ciò si aggiunge, afferma la sentenza, la vista genericità delle indicazioni del referto e l’omesso quanto motivato vaglio della necessità, e contestualizzabile urgente necessità, di somministrare egualmente il farmaco ovvero dei pericoli di ritardo (v. utilmente Cass., 15/04/2019, n. 10423; v. anche Cass., 29/09/2015, n. 19212, pagg. 7, 10-11, anche in ordine “all’adozione di un linguaggio che tenga conto del...particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche” della paziente., arresto in cui viene menzionata Cass., 20/8/2013, n. 19920), consigliando infine di recarsi in struttura risultata priva di immunoglobulina senza spiegazioni in ordine alla possibilità ovvero al dovere di essere opportunamente a conoscenza di ciò, se del caso previa acquisizione d’informazioni.

Il diritto alla comprensione è un rischio clinico

Quanto accaduto è solo la conseguenza di uno dei problemi che i sanitari vivono ogni giorno in corsia ed i pazienti subiscono durante le cure.

Non si tratta di un problema che riguarda solo gli stranieri ma di tutti coloro che hanno un problema sensoriale come la sordità e/o la cecità.Sul territorio italiano, secondo l’Istat, risultano presenti al 1° gennaio 2023, circa 5 milioni di cittadini stranieri regolari, che costituiscono l’8,7% della popolazione residente totale (circa 59 milioni di individui).

Acquisire strumenti facili ed efficaci come un software commerciale di traduzione simultanea, avere un elenco del personale suddiviso per lingue parlate, mettere nei bandi di gara l’obbligo per le aziende farmaceutiche di fornire i foglietti illustrativi scaricabili nelle varie lingue non richiede sforzi economici ma solo organizzativi.Peralto, nella fattispecie, sarebbe stato sufficiente reperire sul sito Ema il sunto del prodotto presente in 22 lingue (https://www.ema.europa.eu/en/medicines) ma, anche in questo caso, è necessario che il personale sia formato all’uso dello strumento.

La vaccinazione antitetanica è una tecnica di routine

Creare consensi informati plurilingue da mettere a disposizione di tutte le strutture d’Italia, declinati anche in podcast e nella lingua dei segni è attività semplicissima e poco costosa ma occorre pensarla e metterla a sistema soprattutto, come nel caso in oggetto, nei servizi di pronto soccorso dove il tempo per inventarsi soluzioni è poco e difficile da trovare. La semplice valutazione del rischio linguistico avrebbe evitato il costo di una causa, medici costretti a difendersi in un lungo contenzioso e, soprattutto, una donna non sarebbe invalida con l’enorme costo sanitario, economico e sociale.


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