Sentenze

Sicurezza igienica e onere della prova: la responsabilità civile in un anno di sentenze

di Paola Ferrari

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24 Esclusivo per Sanità24

Ricca di spunti, la rassegna della giurisprudenza 2023 che centra con particolare attenzione, il tema della sicurezza igienica e della ripartizione dell’onere della prova tra medico e paziente.

Responsabile la struttura che ha preso in carico anche se sottoposta ad altra
Sul punto, viene citata la Sez. 3, n. 16272/2023, secondo la quale “la presa in carico di un paziente da parte di una struttura sanitaria inserita nella rete del SSN, per la sottoposizione ad un trattamento medico chirurgico, determina l’instaurazione di un rapporto contrattuale atipico a prestazioni corrispettive (il c.d. contratto di spedalità) idoneo a fondare, in caso di esito infausto dell’intervento, la legittimazione passiva dell’ente in relazione all’azione di responsabilità̀ proposta dal paziente o dai suoi eredi, essendo a tal fine irrilevante che, nella organizzazione interna del Servizio Sanitario regionale, la struttura stessa e il suo personale siano stati posti sotto la direzione amministrativa e medica di un’altra istituzione pubblica, la cui responsabilità può eventualmente aggiungersi a quella della struttura sanitaria adita, senza però eliderne la titolarità del rapporto dal lato passivo”.

Infezioni nosocomiali: la ripartizione dell’onere della prova

Importanti precisazioni in tema di infezioni nosocomiali sono giunte, poi, dalla Sez. 3, n. 05490/2023, che, in ordine al riparto degli oneri probatori, ha osservato che grava sul soggetto danneggiato la prova della diretta riconducibilità̀ causale dell’infezione alla prestazione sanitaria.

Incombe sulla struttura sanitaria, al fine di esimersi da ogni responsabilità, dimostrare l’impossibilità in concreto dell’esatta esecuzione della prestazione di protezione direttamente e immediatamente riferibile al singolo paziente interessato.

La ripartizione dell’onere della prova è contenuta nella sentenza della Sez. 3, n. 06386/2023, ricorda la rassegna, secondo la quale l’accertamento della responsabilità̀ della struttura sanitaria dev’essere effettuato sulla base dei seguenti criteri:

•temporale relativo al numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall’ospedale prima della contrazione della patologia;

•topografico correlato all’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento, in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti, da valutarsi secondo il criterio della cd. probabilità prevalente);

•clinico a seconda della specificità̀ dell’infezione, dev’essere verificato quali misure di prevenzione sarebbe stato necessario adottare, procedendo quindi ad una fondamentale cristallizzazione del contenuto degli oneri provatori in punto di nesso di causalità e di colpa.

La sentenza succitata, inoltre, ha puntualizzato come al CTU debba essere demandata, tra l’altro, la verifica della mancanza o insufficienza di direttive generali in materia di prevenzione e del mancato rispetto delle stesse, nonché dell’omessa informazione circa la possibile inadeguatezza della struttura per l’indisponibilità di strumenti essenziali e della eventuale effettuazione di un ricovero non sorretto da alcuna esigenza di diagnosi e cura ed associato ad un trattamento non appropriato.

Responsabilità in materia di sicurezza dei dirigenti apicali

E’ sempre la sentenza Sez. 3, n. 06386/2023, a disegnare lo spartiacque della responsabilità interna.

Il dirigente apicale, afferma la sentenza, ha l’obbligo di indicare le regole cautelari da adottarsi ed il potere-dovere di sorveglianza e di verifica (riunioni periodiche/visite periodiche).

Il direttore sanitario, invece, ha l’onere di attuarle e di organizzare gli aspetti igienico e tecnico-sanitari, di vigilare sulle indicazioni fornite (D.P.R. n. 128 del 1069, art. 5: obbligo di predisposizione di protocolli di sterilizzazione e sanificazione ambientale, gestione delle cartelle cliniche, vigilanza sui consensi informati),

Il dirigente di struttura complessa (l’ex primario), esecutore finale dei protocolli e delle linee guida, dovrà collaborare con gli specialisti microbiologo, infettivologo, epidemiologo, igienista, ed è responsabile per omessa assunzione di informazioni precise sulle iniziative di altri medici, o per omessa denuncia delle eventuali carenze ai responsabili.

Non basta stilare i protocolli di sicurezza vanno anche applicati

Sia la sopra citata pronuncia che la successiva Sez. 3, n. 16900/2023, hanno precisato, infine, che la responsabilità della struttura sanitaria per danni conseguenti ad infezioni nosocomiali non ha natura oggettiva, sicché, a fronte della prova presuntiva, gravante sul paziente, della contrazione dell’infezione in ambito ospedaliero, la struttura può fornire la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle stesse, consistente nell’indicazione di specifici protocolli :

a) disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;

b) delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;

c) delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami;

d) delle caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;

e) delle modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;

f) della qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;

g) dell’avvenuta attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica; h) dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori;

i) delle procedure di controllo degli infortuni e della malattie del personale e delle profilassi vaccinali;

j) del rapporto numerico tra personale e degenti;

k) della sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;

l) della redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti, da comunicarsi alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;

m) dell’orario dell’effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.

In particolare, la seconda delle pronunce menzionate ha confermato la sentenza della corte territoriale che, in accoglimento della domanda risarcitoria spiegata dai genitori di un minore deceduto pochi giorni dopo la nascita, a causa di un’infezione contratta nel reparto di terapia intensiva, aveva ritenuto fornita la prova del fatto che la struttura sanitaria avesse predisposto i protocolli necessari per la prevenzione di infezione correlate all’assistenza, ma non li avesse specificamente applicati nel caso specifico.

Nel danno da emotrasfusioni è il paziente a dover dimostrare di non avere avuto infezioni prima della somministrazione

In relazione ad infezioni contratte in conseguenza di emotrasfusioni, Sez.3, n. 26091/2023, ha confermato la possibilità, per il paziente, di assolvere all’onere della prova anche attraverso presunzioni, non implicando esso necessariamente la dimostrazione dell’assenza di infezione al momento della trasfusione; mentre la prova contraria, gravante sulla struttura sanitaria, può concernere l’esclusione del nesso causale. (incentrandosi sulla dimostrazione che il paziente fosse già̀ affetto dall’infezione al momento della trasfusione) ovvero l’elemento soggettivo (attraverso la dimostrazione di aver rispettato, in concreto, le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli che presiedono alle attività di acquisizione e perfusione del plasma).

Con tale decisone, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva addossato al paziente l’onere di dimostrare l’assenza di una malattia epatica al momento del ricovero, omettendo di tener conto degli elementi dallo stesso addotti, suscettibili di fondare la prova presuntiva del nesso causale (quali l’assenza di fattori di rischio specifici, l’insorgenza della malattia a distanza di un anno dalla trasfusione e la mancata evidenza di eventuali cause alternative).

Quanto alla posizione del Ministero della salute in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni, si è già menzionata (nel cap. XII) Sez. 3, n. 28626/2023, alla cui stregua la relativa responsabilità ex art. 2043 c.c. è configurabile anche per le trasfusioni praticate prima della l. n. 592 del 1967 (e nella vigenza della circolare del Ministero della sanità n. 50 del 1966), a condizione che vengano accertate:

a) l’inosservanza, da parte dell’operatore, delle specifiche prescrizioni di cautela e profilassi dettate dalla citata circolare;

b) la riferibilità di tale inosservanza anche a manchevolezze imputabili al medico provinciale nel dare attuazione alle direttive;

c) un legame causale tra l’inosservanza e l’evento dannoso, poiché la citata circolare, pur dettando norme di condotta con finalità di generica profilassi, era rivolta ai medici provinciali che, all’epoca, costituivano articolazioni periferiche del Ministero, ad esso organicamente riferibili.

Il medico è responsabile anche se non è competente

In tal senso, la Sez. 3, n. 25772/2023, ha precisato che, in relazione al danno subito da un paziente ricoverato in ospedale, la responsabilità del medico non può essere esclusa per il sol fatto che egli fosse addetto a un reparto diverso e che il paziente non gli fosse stato affidato, dovendo la sua diligenza essere valutata non già ex ante in astratto, in base al suo mansionario, bensì ex post in relazione alla condotta concretamente tenuta, comparando le istruzioni terapeutiche da lui impartite con quelle suggerite dalle leges artis e concretamente esigibili, avuto riguardo alle specializzazioni possedute ed alle circostanze del caso concreto. Il caso riguardava la morte di una paziente ricoverata in un altro reparto a seguito di un intervento chirurgico, in relazione alla quale era stata dedotta la corresponsabilità del medico anestesista di turno; responsabilità che - secondo la Corte di cassazione - era stata erroneamente esclusa dal giudice di merito, in virtù della sola circostanza che quegli non avesse il compito di supervisionarne la degenza, senza verificare se, una volta informato del peggioramento dei parametri ematici della stessa, avrebbe dovuto tenere una diversa condotta, alla stregua delle leges artis concretamente rilevanti in relazione al caso concreto.

Le linee guida valgono ma prima vale la prudenza

La già richiamata Sez. 3, n. 34516/2023, ha, indagato la valenza del cd. soft law delle linee guida, precisando, da un lato, che la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave, di cui all’art. 2236 c.c., non opera nelle ipotesi di imprudenza (non rilevando, al riguardo, l’astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida); e, in secondo luogo, che le linee guida, non avendo rilevanza normativa o “parascriminante” (in quanto non tassative né vincolanti), pur rappresentando un parametro utile nell’accertamento dei profili di colpa medica, non valgono ad eliminare la discrezionalità del giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta nelle medesime linee guida (nella fattispecie concreta giunta all’esame della Corte, a venire in rilievo era la condotta di alcuni medici, i quali, nell’eseguire un intervento chirurgico di particolare difficoltà, avevano omesso di adottare una tecnica chirurgica - già conosciuta dalla comunità scientifica di settore, sebbene ancora non implementata nelle linee guida - che avrebbe consentito di ridurre in altissima misura il rischio della complicanza, poi in effetti intervenuta).

Cosa succede se all’errore del sanitario concorre un fatto naturale

Quanto, poi, agli oneri probatori in relazione al nesso causale Sez. 3, n.05632/2023, ha affermato che, in ipotesi di concorrenza nella produzione dell’evento lesivo tra la condotta del sanitario e un autonomo fatto naturale (quale una pregressa situazione patologica del danneggiato), spetta al paziente l’onere di provare il nesso causale tra intervento del sanitario e danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica, mentre, una volta accertata la portata concausale dell’errore medico, compete al sanitario dimostrare la natura assorbente e non meramente concorrente della causa esterna.

Qualora resti comunque incerta la misura dell’apporto concausale del fattore naturale, la responsabilità di tutte le conseguenze individuate in base alla causalità giuridica va interamente imputata all’autore della condotta umana.

Qualora, poi, l’evento morte del paziente risulti riconducibile al concomitante apporto eziologico dell’errore medico e di una causa naturale (quale, per l’appunto, lo stato patologico non riferibile al primo), secondo Sez. 3, n. 26851/2023, l’autore del fatto illecito risponde in toto dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità̀ materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, escludendo, in sintesi, le conseguenze dannose riferibili alla pregressa situazione patologica del danneggiato.

A chi spetta provare il danno in caso di omissione di un esame diagnostico In relazione agli oneri probatori gravanti, rispettivamente, sul professionista sanitario e sul paziente Sez. 3, 34427/2023, ha precisato che, ove le carenze colpose della condotta del medico, tipicamente omissive e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, abbiano reso impossibile l’accertamento del nesso tra omissione e danno.

In ossequio a tale principio, la Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di rigetto della domanda di risarcimento del danno da ritardo diagnostico e terapeutico di una neoplasia, ascritto al medico per la mancata effettuazione di un esame istologico, omissione che aveva reso impossibile accertare lo stadio della patologia e determinare se fosse possibile una terapia idonea ad evitare le conseguenze iatrogene riportate dalla paziente.

Quando si prescrive il danno

In ordine al regime della prescrizione, la rassegna ha richiamato la Sez. 3, n. 29859/2023, che sottolineato come il dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da attività medico chirurgica si identifichi non già con quello della verificazione materiale dell’evento lesivo, bensì con quello (che può non coincidere col primo) in cui il pregiudizio, alla stregua della diligenza esigibile all’uomo medio e del livello di conoscenze scientifiche proprie di un determinato contesto storico, possa essere astrattamente ricondotto alla condotta colposa o dolosa del sanitario.

Nell’affermare tale principio, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva fatto coincidere il dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale con il momento del decesso della vittima primaria, sul presupposto che di quest’ultimo fosse percepibile, in base all’ordinaria diligenza, la riconducibilità causale alla condotta potenzialmente inadempiente dei sanitari, trattandosi di intervento chirurgico routinario di osteosintesi.

(Fine seconda parte)


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