Sentenze
Pma, gli embrioni in eccesso non possono essere distrutti
di Giorgio Vaccaro
No alla restituzione degli embrioni “soprannumerari”: questo il principio di diritto affermato dal Tribunale di Roma (decreto del 6 marzo scorso, Sezione prima, giudice Galterio) che ha ritenuto di dover rigettare la domanda avanzata con ricorso d'urgenza, da una coppia di coniugi che, maturata nel 2003 la decisione di addivenire a un percorso di Pma (procreazione medicalmente assistita), avevano dato il consenso alla «fertilizzazione in vitro che aveva portato all'isolamento di 10 embrioni tre dei quali nell'ambito della fecondazione omologa erano stati poi impiantati» con successo.
Successivamente, gli stessi ricorrenti si erano rivolti al Centro chiedendo «informazioni sullo stato di conservazione degli altri 7 embrioni» ricevendo come risposta la semplice conferma dello stato di “crioconservazione” dei medesimi; ancora da ultimo, nel novembre 2015, avevano comunicato al Centro l'intervenuta loro volontà di «cessare la crioconservazione esigendone la riconsegna». L'esito negativo di questa istanza, li aveva, infine, convinti ad attivare il percorso giudiziario.
Costituitosi in giudizio, il Centro aveva eccepito l'infondatezza della richiesta per contrasto con la normativa vigente, che non permette in alcun modo di “cessare” la crioconservazione. Tanto meno, osservava la difesa del Centro, quando la restituzione pareva avere la finalità della «distruzione degli embrioni» che costituisce condotta penalmente rilevante.
Il Giudice romano nell'affrontare le motivazioni poste a base dell'istanza, rilevava sotto il profilo del “fumus” della “restituzione”come questo non potesse considerarsi esistente posto il fatto che la norma, nel suo testo vigente, non consentisse alcuna “apertura” ad una richiesta di tal fatta, ma anzi, la sentenza della Corte Costituzionale n. 151 del 2009, intervenendo nel superare il limite di tre embrioni destinati all'impianto della procreazione medicalmente assistita, imprimesse «una particolare tutela prevedendo l'obbligo della conservazione con la tecnica del congelamento, fino a quando non vengano utilizzati per il loro successivo impianto in un ulteriore ciclo di procreazione medicalmente assistita, ovvero vengano dichiarati in stato di abbandono, secondo quanto disciplinato dal Dm della Salute del 4 agosto 2014».
Ancora, proseguendo nell'analizzare gli aspetti critici del ricorso in punto di fondatezza del diritto, il giudice romano osservava come l'ipotesi della “ventilata” soppressione, successiva alla avanzata richiesta di restituzione, fosse un canone semplicemente “contra legem” prevedendo la normativa un divieto espresso, la violazione del quale comporta «la previsione della pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da 50mila a 150mila euro».
Sotto altro profilo e sempre in via di diritto, la pronuncia in esame, non ha mancato di osservare come, laddove la volontà dei ricorrenti fosse da ricomprendersi tra quelle manifestazioni di volontà tese a «rinunciare ai futuri impianti» allora si concretizza la sola diversa ipotesi di «embrioni dichiarabili in stato di abbandono» con la conseguenza dell'assoggettamento di questi alla «speciale procedura che ne prevede il trasferimento dal Centro di procreazione medicalmente assistita alla Biobanca nazionale» senza che mai possa aver pregio la richiesta di restituzione di alcun embrione.
Infine, nell'affronto della tematica del “periculum in mora” si è osservato, in merito alla sua insussistenza, come il «trascorrere di nove anni dall'assenso alla crioconservazione» e di ulteriori sette anni dal fallimento della società all'epoca custode degli embrioni - immediatamente trasferiti in altra adeguata struttura di conservazione - non giustificasse, sotto nessun profilo, il criterio dell'esistenza di un pericolo del deterioramento dell'assunto diritto, durante lo svolgimento di una ordinaria causa di merito, con conseguente impossibile accesso alla via d'urgenza.
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