Medicina e ricerca
Reumatologia: dalla lezione del Covid l'importanza di fare rete condividendo dati e criteri di classificazione
di Alessandra Ferretti
24 Esclusivo per Sanità24
Paziente al centro, multidisciplinarietà, criteri omogenei di classificazione e condivisione più ampia possibile dei dati. È la formula vincente per avanzare a grandi passi nella ricerca, a cominciare da quella sull’arterite gigantocellulare, secondo il professor Kenneth Warrington, Direttore della Reumatologia della Mayo Clinic di Rochester (USA), intervenuto per trattare il tema delle vasculiti il 14 giugno a Reggio Emilia. L’occasione è stata la sua lectio magistralis nell’ambito del ciclo di Letture 2022 organizzate dalla Reumatologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia diretta dal professor Carlo Salvarani, anche Direttore della Struttura Complessa di Reumatologia all’Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena e all’Ausl-Irccs di Reggio Emilia e consulente della Mayo Clinic.
La Mayo Clinic e la tradizione della Reumatologia
Fondata da William James Mayo come St. Mary's Hospital, ma nota nel mondo scientifico col nome di Mayo Clinic, la struttura crebbe ulteriormente con la nascita della Mayo Foundation, creata dai fratelli William James Mayo e Charles Horace e collegata con l'Università del Minnesota.
La Reumatologia della Mayo Clinic vanta tra le sue tappe la prima descrizione delle manifestazioni cliniche dell’arterite gigantocellulare (GCA) con definizione del classico quadro istopatologico alla biopsia dell’arteria temporale da parte di Bayart Horton nel 1932 e la scoperta del cortisone per il trattamento dell’artrite reumatoide nel 1948 da parte di Philip Hench, insignito poi per questo del Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina unitamente a Edward C. Kendall e a Tadeusz Reichstein.
Hench e Kendall avevano preconizzato l'azione antiartritica e anti-shock sin dal 1941, ancora prima che tale sostanza venisse introdotta nella sperimentazione clinica. Da allora il trattamento con corticosteroidi è ancora oggi la principale modalità di trattamento dei pazienti affetti da malattie immunologiche-infiammatorie, tra cui l’artrite reumatoide. Sempre grazie a studi compiuti alla Mayo Clinic da parte dai professori Gene Hunder e Cornelia Weyand si è giunti ad una maggiore comprensione di diagnosi, terapia ed epidemiologia dell’arterite a cellule giganti e alla comprensione della sua fisiopatologia cellulare.
Le criticità in essere nel trattamento dell’arterite gigantocellulare
“Tuttavia ancora oggi persistono criticità che dobbiamo risolvere”, puntualizza il professor Warrington, che ha trattato proprio il tema complesso dell’arterite giganto-cellulare, un tipo di vasculite che coinvolge anzitutto le grosse arterie come l’aorta e i suoi rami principali , e anche le arterie temporali che sono sede della biopsia, esame indispensabile per la diagnosi di tale vasculite, che evidenzia in tale sede un infiltrato infiammatorio (fu proprio Horton a proporre il nome di “arterite temporale”, oggi frequentemente usato nella letteratura scientifica).
“Anzitutto – spiega il professore -, il cortisone, trattamento principale per curare questa malattia e prevenire la cecità che essa può causare, può avere nel lungo termine devastanti effetti collaterali. Negli ultimi cinque/sei anni abbiamo usato come risparmiatore di cortisone il Tocilizumab, anticorpo monoclonale inibitore dell’interleuchina-6 (IL-6) molto efficace, di cui dobbiamo tuttavia ancora comprendere pienamente alcuni elementi. Primo, dobbiamo capire per quanto tempo va portato avanti, inoltre dobbiamo identificare dei biomarcatori utili, che ci permettano di capire se la malattia è attiva o se invece è in remissione. Terzo, dobbiamo fare un salto di qualità per bloccare l’infiammazione e prevenire gli effetti a lungo termine della malattia, dal momento che alcuni pazienti incorrono in complicanze anche molto severe come aneurismi aortici di tipo infiammatorio o stenosi/ostruzioni vascolari”.
Come riferisce dettagliatamente il professore, “uno studio retrospettivo volto a valutare l'efficacia e la sicurezza di tocilizumab in una coorte di pazienti con GCA ha dimostrato che l’utilizzo dell’anticorpo monoclonale ha determinato un tasso di recidiva significativamente ridotto e una riduzione del dosaggio dei glucocorticoidi. Nel complesso, i pazienti hanno tollerato l'uso del farmaco con solo il 12% di interruzione a causa di eventi avversi. Tuttavia, oltre la metà dei pazienti che hanno interrotto il tocilizumab ha avuto una successiva riacutizzazione. Lo studio ha dimostrato come l’utilizzo del farmaco può essere richiesto oltre i due anni per diversi pazienti con GCA per mantenere la remissione (vedi Rakholiya J, Koster M, Langenfeld H, et al, Treatment of giant cell arteritis with tocilizumab: a retrospective cohort study of 119 patients, in Annals of the Rheumatic Diseases, 2021;80:655, http://dx.doi.org/10.1136/annrheumdis-2021-221961 )”.
Tocilizumab non va utilizzato in caso di diagnosi incerta, infezione attiva o ricorrente, rischio aumentato di perforazione gastrointestinale, malattia epatica attiva o citopenia.
I trattamenti allo studio alla Mayo Clinic
Tra i trattamenti allo studio della Reumatologia della Mayo Clinic ne è in corso uno pilota prospettico in aperto (in cui sia lo sperimentatore sia il partecipante sanno cosa si sta somministrando – l’opposto del cosiddetto “doppio cieco”) che utilizza il baricitinib, un JAK inibitore somministrato al dosaggio di 4 mg/giorno a 15 pazienti arruolati, il 73% dei quali femmine, con età media all'ingresso di 72,4 anni.
“Baricitinib è stato ben tollerato – conferma il professor Warrington - ed ha consentito l'interruzione della terapia steroidea nella maggior parte dei pazienti con malattia recidivante. Saranno tuttavia necessari studi clinici randomizzati più ampi per determinare l'utilità dell'inibizione di JAK nell’arterite gigantocellulare” (vedi Koster MJ, Crowson CS, Giblon RE, et al., Baricitinib for relapsing giant cell arteritis: a prospective open-label 52-week pilot study, in Annals of the Rheumatic Diseases, 2022;81:861-867, http://dx.doi.org/10.1136/annrheumdis-2021-221961).
Sono in corso poi altri studi a livello internazionale. “Tra questi – precisa lo scienziato – è terminato uno studio pilota randomizzato che ha utilizzato l’abatacept e che ha arruolato 49 pazienti con arterite giganto-cellulare. Tale studio ha evidenziato un maggior numero di pazienti privi di recidive alla 52esima settimana nel gruppo trattato con abatacept (48% versus 31% con placebo). È poi in corso un trial randomizzato controllato internazionale, a cui partecipa anche la Reumatologia dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, per confermare l’efficacia di tale farmaco. Ancora, è terminata una ricerca di fase II con mavrilimumab (arruolati 70 pazienti) che alla 26esima settimana ha mostrato una remissione nell’83% dei malati contro un 50% con placebo. Infine sta procedendo uno studio di fase II con secukinumab, un inibitore dell’interleuchina-17A (IL-17A) con 52 pazienti arruolati, in cui alla 52esima settimana è stata mostrata una remissione nel 59% dei casi contro l’8% dei casi trattati con placebo”.
La Mayo Clinic aderisce al Consorzio Nazionale Americano di Ricerca Clinica sulle vasculiti, dove conduce studi clinici per valutare nuovi agenti terapeutici per il trattamento di tali condizioni, con la finalità di scoprire trattamenti più sicuri ed efficaci. “La mission del Consorzio è fare ricerca nelle vasculiti e fare formazione ai fellows di tutto il mondo”, illustra il professor Warrington. “Sotto la direzione del dottor Peter A. Merkel, dell’Università della Pennsylvania, il Consorzio organizza studi che coinvolgono diversi centri americani di eccellenza sulle vasculiti con l’obiettivo di avere il numero più ampio possibile di pazienti per approfondire, omogeneizzare e far avanzare la ricerca”.
È urgente, secondo il professor Warrington, perfezionare la diagnostica per queste patologie, “per prevenire i danni della vasculite, che possono essere anche molto gravi come la cecità e gli aneurismi aortici infiammatori. Quindi, prima diagnostichiamo la malattia, prima iniziamo terapie efficaci in grado di prevenire questi danni che possono incidere sulla qualità della vita del paziente”.
Il paziente al centro e la multidisciplinarietà
“Il valore più importante della Mayo Clinic è che i bisogni del paziente vengono prima di tutto”, precisa il professor Warrington. “Mayo Clinic care model’ vuole dire anzitutto prendere in carico il paziente a 360 gradi, contando sull’apporto che ogni professionista, di qualunque ordine e grado, può fornire per curarlo nel miglior modo possibile. Questa è in pratica la multidisciplinarietà attiva. Per le vasculiti, ad esempio, il paziente viene curato da diversi specialisti in una sola clinica centrale. La complessità della vasculite dei grandi vasi consiste nella possibilità dell’infiammazione di estendersi a diversi i organi, quindi il paziente per curare tali condizioni nel modo migliore possibile ha bisogno di un gruppo integrato di professionisti di specialità diverse che collaborano tra di loro”.
Conclude il professor Warrington: “L’esperienza del Covid-19 ci ha fatto capire quanto sia fondamentale la collaborazione a livello internazionale e la messa a disposizione dei dati gli uni agli altri. È importante che continuiamo ad imparare reciprocamente facendo rete. Le collaborazioni a livello internazionale (noi le abbiamo ad esempio con l’American College of Rheumatology e con la European League Against Rheumatism) sono importanti per sviluppare criteri di classificazione in base ai quali, in modo omogeneo, un paziente può essere classificato/diagnosticato negli Stati Uniti o in Europa. Questi criteri possono permettere, ad esempio, che io a Rochester e il professor Carlo Salvarani a Reggio Emilia e Modena visitiamo un paziente e usiamo per lui i medesimi criteri di classificazione, potendoci così scambiare poi pareri e analisi. Altro elemento fondamentale è che possiamo confrontarci sulla ricerca: quando si integrano i risultati delle rispettive ricerche, ciò che può emergere è che i risultati di questa integrazione definiscano qualcosa di nuovo che va oltre i risultati delle nostre ricerche prese singolarmente”.
Nella foto: al centro il professor Carlo Salvarani, alla sua destra il dottor Kenneth Warrington, alla sua sinistra il dottor Gene Hunder durante la premiazione di Salvarani per la Bolland lecture alla Mayo Clinic nel 2017
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