Medicina e ricerca

Covid: un filo comune con la reumatologia per i trattamenti, analisi del genoma la nuova frontiera

di Carlo Salvarani* e Alessandra Ferretti

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24 Esclusivo per Sanità24

Se pochi elementi si conoscevano quando il virus SARS-CoV-2 ha iniziato a diffondersi, molto presto è emersa con chiarezza una trasversalità del meccanismo patofisiologico che accomuna la malattia Covid-19 e le patologie reumatiche, in particolare l’artrite reumatoide (AR) e le vasculiti.

Anche grazie a questa similitudine, fin dal principio i trattamenti adottati per curare i pazienti Covid sono stati “presi a prestito” dal settore reumatologico. Alcuni di essi continuano a venire utilizzati nella pratica clinica dopo aver ottenuto le autorizzazioni dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa). E oggi, sempre grazie a questo filo comune, sono in corso studi sull’analisi del genoma per valutare la predisposizione a sviluppare forme gravi da Covid-19 con risposta iperinfiammatoria a cura di gruppi di lavoro che includono anche professionisti della specialità di reumatologia.

Vediamo dunque in cosa consiste questa trasversalità patofisiologica e quali sono i trattamenti provenienti dalla reumatologia e adottati per il Covid-19.

La trasversalità dei meccanismi patofisiologici tra reumatologia e Covid-19
Il filo comune tra Covid-19 e patologie reumatologiche è rappresentato dall’iperinfiammazione. Nel caso del Covid-19, la malattia polmonare anche grave che si può sviluppare nei pazienti coinvolti è dovuta ad un’iperattivazione immunitaria e al coinvolgimento delle citochine nelle strutture alveolari. Per quanto riguarda l’artrite reumatoide, l’infiammazione sinoviale e l’iperattivazione delle cellule T che la caratterizzano sono dovute all’azione di diverse citochine pro-infiammatorie che agiscono come fattori scatenanti. Nelle due patologie i modelli di citochine e l’attivazione immunitaria sono molto somiglianti. Le citochine di cui parliamo sono soprattutto l’interleuchina-6 (IL-6) e l’interleuchina-1 (IL-1).

In particolare l’IL-6 gioca un ruolo patofisiologico chiave sia nell’artrite reumatoide che nelle vasculiti dei grandi vasi: nella prima determina il danno articolare e nelle seconde causa l’infiammazione della parete del vaso che, a sua volta, può portare a danno vascolare, cioè ostruzione, stenosi o aneurismi con sfiancamento della parete del vaso. Nel caso del Covid-19 sono stati identificati livelli elevati sia di IL-1 che di IL-6 (in particolare quest’ultima è stata molto studiata e su di essa sono state realizzate diverse metanalisi). È emerso che esiste una stretta correlazione tra livelli elevati di IL-6 e aumentata gravità della patologia polmonare e mortalità del paziente (vedi a tal proposito Manu Shankar-Hari et al., Association Between Administration of IL-6 Antagonists and Mortality, JAMA, 6 luglio 2021, doi:10.1001/jama.2021.11330).

Diversi articoli scientifici hanno illustrato le somiglianze tra le due patologie. Tra questi, si segnala ad esempio quello pubblicato il 24 novembre 2021 dalla rivista Cells e firmato da Saikat Dewanjee et al., COVID-19 and Rheumatoid Arthritis Crosstalk: Emerging Association, Therapeutic Options and Challenges (doi.org/10.3390/cells10123291 ) e quello uscito su Nature Reviews Rheumatology il 19 giugno 2020 di Georg Schett et al., COVID-19 revisiting inflammatory pathways of arthritis (doi.org/10.1038/s41584-020-0451-z ). È bene precisare tuttavia che, nonostante tali somiglianze, nessun dato porta a dedurre che Covid-19 e altre malattie zoonotiche mediate dal coronavirus inducano artrite clinica.Una tipica dimostrazione della trasversalità dei meccanismi patofisiologici è dimostrata anche dalla malattia di Kawasaki, una vasculite infantile altamente infiammatoria che inizialmente si pensava fosse una sindrome vasculitica da Kawasaki indotta dal Covid in alcuni pazienti pediatrici.

In realtà si tratta di una sindrome che “mima” il Kawasaki. Vale a dire che la sindrome infiammatoria multisistemica che si scatena in alcuni pazienti pediatrici con Covid-19 determina una condizione simile a una vasculite iperinfiammatoria del bimbo che è simile, appunto, alla sindrome di Kawasaki.

I farmaci comuni ai trattamenti di patologie reumatologiche e Covid-19
La fisiopatologia del Covid-19 è complessa e si caratterizza per un’interazione tra iperinfiammazione, funzione linfocitaria difettosa, disfunzione endoteliale, complicanze tromboemboliche e talvolta, come evento evolutivo tardivo, processi fibrotici nel polmone. Tali processi sono anche altamente variabili da un paziente all’altro, probabilmente correlati all'eterogeneità della risposta immunitaria dell'ospite. Ad oggi, l'armamentario per il trattamento del Covid-19 è in gran parte rappresentato da farmaci antivirali (spesso somministrati nelle fasi iniziali della malattia) e trattamenti immunoterapici che modulano la risposta immunitaria del paziente (questi ultimi previsti negli stadi più avanzati della malattia). Dal settore reumatologico vengono proprio questi secondi.

Anticorpi monoclonali (tocilizumab)
Quando a marzo 2020 iniziò a diffondersi la pandemia in Italia, uno dei primi farmaci presi in considerazione fu il tocilizumab, anticorpo monoclonale in grado di legarsi in modo aspecifico ai recettori dell’IL-6 somministrato in soluzione unica per via endovenosa in 8 mg/kg (con possibilità di una seconda somministrazione a distanza di 12 o 24 ore nel caso la prima non si fosse rivelata risolutiva). Dagli studi emerse l’efficacia sulla riduzione della mortalità nella percentuale di pazienti Covid-19 che andavano incontro a ventilazione meccanica.

Tocilizumab era già indicato, tra gli altri, per l’artrite reumatoide, l’artrite idiopatica giovanile sistemica e la poliartrite idiopatica giovanile.

Tra Modena e Reggio Emilia venne svolto un primo importante studio osservazionale pubblicato su Lancet Rheumatology (G. Guaraldi et al., Tocilizumab in patients with severe COVID-19: a retrospective cohort study, agosto 2020,10.1016/S2665-9913(20)30173-9 ), secondo cui la somministrazione di tocilizumab sia per via endovenosa che sottocutanea poteva ridurre il rischio di ventilazione meccanica invasiva o morte nei pazienti con polmonite grave da Covid-19.

Sono seguiti una serie di trial, tra i quali lo studio randomizzato controllato promosso dall’Ausl-Irccs di Reggio Emilia che coinvolgeva altri 24 centri italiani (Carlo Salvarani et al., Effect of Tocilizumab vs Standard Care on Clinical Worsening in Patients Hospitalized With COVID-19 Pneumonia: A Randomized Clinical Trial, in JAMA Intern Med., gennaio 2021, 10.1001/jamainternmed.2020.6615). Lo studio non dimostrò alcun beneficio nei pazienti trattati né in termini di aggravamento (ingresso in terapia intensiva), né per quanto riguardava la sopravvivenza.

Fu poi la volta di una serie di trial randomizzati controllati che diedero esiti discordanti, con prevalenza però di studi negativi, confermando come il tocilizumab non fosse in grado di ridurre la mortalità quando ciò era considerato come endpoint primario ovvero se la riduzione della mortalità era il fine ultimo dello studio clinico. Successivamente entrarono in gioco i platform trial che, per definizione, hanno l’obiettivo di trovare il miglior trattamento per una malattia indagando simultaneamente trattamenti multipli, attraverso specifici strumenti statistici per l’assegnazione dei pazienti e l’analisi dei risultati.

Tra questi, ad esempio, è REMAP-CAP Investigators, Anthony C Gordon et al., Interleukin-6 Receptor Antagonists in Critically Ill Patients with Covid-19, in The New England Journal of Medicine, 22 aprile 2021, doi:10.1056/NEJMoa2100433), secondo cui il trattamento con tocilizumab o sarilumab (farmaco antagonista del recettore dell’IL-6 analogo al tocilizumab) migliorava la sopravvivenza nei pazienti con polmonite grave da Covid-19 ricoverati in Unità di cura Intensiva e con necessità di supporto d’organo.Oggi sono candidabili al trattamento con tocilizumab i pazienti recentemente ospedalizzati ricoverati in terapia intensiva da meno di 24/48 ore che ricevono ventilazione meccanica o ossigeno ad alti flussi o con fabbisogno di ossigeno in rapido aumento che richiedono ventilazione meccanica non invasiva e soggetti ospedalizzati in rapida progressione clinica dopo 24/48 ore di utilizzo di cortisonici.

Corticosteroidi (desametasone)

Un altro farmaco importante è rappresentato dagli steroidi ovvero il cortisone, utilizzato sia per Covid-19 sia per numerose malattie reumatiche (es. vasculiti) e non reumatiche (es. asma) per la sua vasta azione antinfiammatoria.

Il cortisone agisce a vari livelli: regola le cellule B, blocca le cellule T, inibisce la presentazione dell’antigene alle cellule dendritiche, inibisce direttamente la produzione di varie citochine proinfiammatorie, è in grado di ridurre sia IL-1, sia IL-6, sia il TNF, sia le chemochine ovvero molecole che consentono il passaggio delle cellule infiammatorie, monociti e neutrofili, dalla parete del vaso al sito dell’infiammazione.

Come già dimostrò Anthony Fauci negli anni ’70 nella sua clinica per le vasculiti occupandosi delle capacità antinfiammatorie del cortisone, uno dei ruoli chiave dello steroide è quello di bloccare il reclutamento di neutrofili e monociti dal sangue ai siti infiammatori. Gli stessi studi sono stati centrali anche per capire i meccanismi della polmonite da Covid-19, dove si è scoperto che il danno è dovuto alla migrazione dei neutrofili e dei monociti attivati produttori di IL-6 dal sangue periferico ai capillari polmonari e al parenchima polmonare.

L’efficacia del cortisone nella riduzione della mortalità in pazienti con Covid-19 è stata dimostrata da una serie di platform trial su cui poi l’OMS ha realizzato un’esaustiva metanalisi pubblicata su JAMA, Association Between Administration of IL-6 Antagonists and Mortality Among Patients Hospitalized for COVID-19. A Meta-analysis (6 luglio 2021, 10.1001/jama.2021.11330).

Tra i corticosteroidi, il più utilizzato per Covid-19 è il desametasone, raccomandato nei soggetti ospedalizzati con malattia grave che necessitano di supplementazione di ossigeno, in presenza o meno di ventilazione meccanica.

Antagonisti dell’IL-1 (anakinra)
Altro farmaco importante per la cura del Covid-19 si è rivelata l’anakinra, antagonista umano del recettore dell’IL-1, già in uso per il trattamento dell’artrite reumatoide, dell’artrite idiopatica giovanile e di alcune sindromi autoinfiammatorie. L’interleuchina-1 è una molecola che viene liberata quando si verificano reazioni infiammatorie e questo accade anche nel Covid-19.

Diverse ricerche hanno dimostrato l’efficacia di anakinra nei pazienti con malattia da Sars-CoV-2. Come ha fatto emergere lo studio di Evdoxia Kyriazopoulou et al., Early treatment of COVID-19 with anakinra guided by soluble urokinase plasminogen receptor plasma levels: a double-blind, randomized controlled phase 3 trial, pubblicato su Nature Medicine a ottobre 2021 (doi.org/10.1038/s41591-021-01499-z ), anakinra non è però efficace in tutti i pazienti. Volto a valutare i pazienti Covid-19 a rischio di progressione verso l’insufficienza respiratoria grave prima del ricovero in terapia intensiva, lo studio SAVE-MORE (suPAR-guided Anakinra treatment for Validation of the risk and Early Management Of seveRE respiratory failure by COVID-19) ha valutato la concentrazione del suPAR (recettore dell’attivatore del plasminogeno dell’urochinasi solubile), un biomarcatore del plasma che funge da strumento prognostico per l’attivazione immunitaria precoce. È emerso che chi aveva elevati livelli di questo recettore solubile erano gruppi di pazienti che mostravano un’aumentata progressione di insufficienza respiratoria. Dunque, anakinra risultava efficace in quei pazienti che avevano un livello plasmatico elevato (maggiore di 6 nanogrammi/millilitro) di questo recettore.

Ecco perché Aifa ne ha autorizzato l’utilizzo limitatamente ai soggetti adulti ospedalizzati con polmonite da Covid-19 moderata/severa e non sottoposti a Cpap (ventilazione assistita non invasiva) e con livelli di SuPAR maggiore uguale a 6 ng/ml. Se vogliamo leggerlo dal punto di vista della medicina di precisione, possiamo definire anakinra il primo tentativo di terapia personalizzata su pazienti con polmonite da Covid-19.

JAK inibitori (baricitinab)
Andando a guardare ancora una volta nel campo proprio dell’artrite reumatoide e delle condizioni reumatiche infiammatorie, troviamo gli anti JAK, inibitori di enzimi detti JAK (o Janus chinasi) coinvolti nel processo infiammatorio che riscontriamo anche nei pazienti affetti da Covid-19.

Il farmaco autorizzato da Aifa, il baricitinib, è in grado di bloccare (come lo steroide) più citochine: esso agisce direttamente sugli enzimi JAK1 e JAK2 inibendoli e modulando la sintesi di citochine JAK-dipendenti.

Il dato interessante del baricitinab sta nella sua duplice azione, che consiste nella mitigazione della cascata infiammatoria, da una parte, e nella possibile riduzione dell’ingresso del virus nelle cellule polmonari, dall’altra.

Due studi randomizzati controllati si sono rivelati particolarmente importanti sul baricitinib.

Dal primo (Andre C. Kalil et al., Baricitinib plus Remdesivir for Hospitalized Adults with Covid-19, in N Engl J Med 2021; 384:795-807, 10.1056/NEJMoa2031994) è emerso come il farmaco fosse in grado di migliorare lo stato clinico nei pazienti in ventilazione non invasiva o che ricevevano ossigeno ad alti flussi. In questo sottogruppo di pazienti baricitinib era in grado di migliorare lo stato clinico e di ridurre anche il tempo di ospedalizzazione, ma non la mortalità.

Dal secondo studio (Vincent C. Marconi et al., Efficacy and safety of baricitinib for the treatment of hospitalised adults with COVID-19 (COV-BARRIER): a randomised, double-blind, parallel-group, placebo-controlled phase 3 trial, in Lancet Respir. Med 2021, doi.org/10.1016/) si è evinto, anche se si trattava di un endpoint secondario, come il baricitinib fosse capace di ridurre anche la mortalità (13% del placebo e 8% in chi faceva baricitinib), oltre a migliorare lo stato clinico del paziente in termini di riduzione del tempo di ricoveri e del grado di severità della malattia.

I JAK inibitori sono nati in reumatologia e vengono utilizzati prevalentemente nell’AR perché in grado di bloccare diverse citochine pro-infiammatorie come l’IL-6 e il TNF-alfa. Mentre gli agenti biotecnologici che bloccano il TNF-alfa sono efficaci sia nell’artrite reumatoide che nelle spondiloartriti (ad esempio artropatia psoriasica e spondilite anchilosante), il bloccaggio selettivo dell’IL-6 (tocilizumab) è risultato essere efficace solo nell’artrite reumatoide, ma non nelle spondiloartriti. Per via della loro vasta azione anti-infiammatoria, i JAK inbitori sono risultati essere efficaci sia nell’artrite reumatoide che nelle spondiloartriti, ma anche in altre condizioni infiammatorie come le malattia infiammatorie intestinali.

* Direttore S.C. Reumatologia Ausl-IRCCS Reggio Emilia, direttore S.C. Reumatologia Azienda Ospedaliero – Universitaria di Modena, professore all’Università di Modena e Reggio Emilia e collaboratore Mayo Clinic (USA)


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