Medicina e ricerca
La depressione si può curare
di Pietro Pietrini (da Domenica de Il Sole-24Ore)
Recenti fatti di cronaca, ultima la tragedia della mamma di Gela nei giorni scorsi, richiamano l'attenzione sul dramma della malattia mentale. Si deve uscire dai confini della vita normale per tentare di comprendere il gesto folle di una mamma che strangola le proprie creature “per salvarle dal male del mondo”. È nei meandri profondi delle tenebre della depressione, che quello che appare un ossimoro a qualunque persona sana - uccidere un figlio per salvarlo - trova la sua genesi: laddove il presente è visto con incombente e immutabile terrore e non vi è futuro.
Situazione opprimente e insopportabile dalla quale l'unica via di fuga appare il suicidio, portando con sé chi si ama. Non si tratta di un raptus, come spesso si trova scritto. Il raptus in psichiatria non esiste. Si tratta di un comportamento pianificato in modo inesorabile – ma prevedibile ed evitabile – che è conseguenza di una condizione patologica tanto drammatica, quanto ancora oggi poco conosciuta e stigmatizzata. La depressione non è semplicemente una tristezza prolungata, vale a dire una malinconia. Come tutte le malattie, ha una fenomenica clinica complessa, che in molti casi comprende un'esperienza di terrore, angoscia, imminente disastro, paralisi psichica, senso di inutilità, che la persona che non ha mai sofferto di questo disturbo mentale, probabilmente, non riesce neppure a immaginare. È una condizione dove tutto si colora di nero, dove l'orizzonte si trasforma in un muro insormontabile, dove quella capacità squisitamente umana di costruirsi aspettative e di pensare il futuro si dissolve per lasciare spazio ad un'emozione di vuoto e nullità, intollerabile, che si vuole che finisca il prima possibile in qualunque modo.
Solo la capacità di immaginare il futuro consente di realizzare momenti significativi di gioia e felicità. Lo sappiamo quando progettiamo i nostri sogni. Lo sappiamo quando guardiamo i nostri figli muoversi fiduciosamente verso traguardi che conseguiranno col tempo. Ce lo urlano silenziosamente i migranti che fuggono alla ricerca disperata della possibilità di un domani. Per il senso comune è difficile comprendere perché una persona che avrebbe tutte le ragioni per essere invidiabilmente soddisfatta non lo sia. O perché due persone nella stessa situazione di crisi familiare reagiscono l'una battendosi e l'altra uccidendo i figli o suicidandosi. Come se la depressione fosse una scelta. Come se bastasse “darsi una mossa” – come sovente si sente dire - per uscire da una condizione morbosa che, per sua stessa natura, congela la volontà.
Le statistiche ci dicono che la depressione colpisce oltre il 10% della popolazione generale e che negli Stati Uniti i suicidi negli ultimi 15 anni sono aumentati ben del 24%. Dati passati sotto silenzio, quando numeri simili in qualunque altra patologia avrebbero fatto vibrare i mezzi d'informazione e il mondo istituzionale. Un silenzio al quale si accompagna ancora oggi un ritardo nella diagnosi e nel trattamento, vuoi psicofarmacologico, vuoi psicoterapico, vuoi integrato, che nella maggioranza dei casi porta ad una piena restitutio ad integrum o quantomeno ad un significativo miglioramento del quadro clinico con la prevenzione di comportamenti autolesionisti.
Le neuroscienze hanno dimostrato che la depressione ha una base organica come qualunque altra patologia somatica. Gli studi di risonanza magnetica cerebrale mostrano come il cervello del depresso vada incontro alla perdita dell'arborizzazione sinaptica, all'atrofia dell'ippocampo e come queste alterazioni si normalizzino a seguito di un efficace intevento terapeutico. Nulla distingue, dunque, la depressione da una qualunque altra patologia del corpo, se non il suo aggredire l'élan vital della persona, la sua anima. Quella funzione che già in Greco antico era chiamata, non a caso, psyché.
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