Medicina e ricerca

Quelle mani di Michelangelo. Nelle opere d’arte i segni dei malanni

di Donatella Lippi (Storia della Medicina, Università di Firenze)

«È Michelagnolo di buona complessione di corpo, piu tosto nervuto et ossuto, che carnoso et grasso, sano sopra tutto, si per natural si per lessercitio del corpo, et continenza sua, tanto nel coito, quanto nel cibo, avenga che dal fanciullo fusse fusse ammalaticcio et cagionevole, et da huomo due malattie habbia havute. Patisce però da parecchi anni in qua molto del orinare. Il qual male era convertito in pietra, se per opera et diligenza di Messer Realdo già detto non fusse stato liberato...». Così scriveva Ascanio Condivi, nel 1553.

Gotta, calcoli renali, problemi alla minzione, disturbi dell’umore, nistagmo... Testimone di eventi storici e religiosi epocali, Michelangelo (1475-1564) avrebbe probabilmente offerto allo sguardo di Bernardino Ramazzini (1633-1714), fondatore della medicina del lavoro, un’ampia gamma di malattie professionali. Mentre lavorava alla Cappella Sistina (1508-1512), su commissione del Pontefice Giulio II, infatti, Michelangelo iniziò a soffrire di un difetto visivo, che lo costringeva ad alzare il documento che stava leggendo fino all’altezza degli occhi, verosimilmente conseguenza di una prolungata postura orizzontale della testa: «Michelagnolo per havere nel dipingere, cosi ungo tempo tenuti gli occhi alzati verso la volta, guardando poi in giu, poco vedeva si che s’egli haveva à legere una lettera o altre cose minute, gliera necessario con le braccia tenerle levate sopra il capo. Nondimeno dipoi appoco appoco, s’ausò a leggere anchora guardando à basso» (Gallenga et al., 2012).

Ma anche la probabile intossicazione da piombo, conseguente all’uso di certi tipi di pigmenti e all’acido tartarico contenuto nel rivestimento dei recipienti alimentari, avrebbe potuto determinare l’insorgenza della “gotta”, da lui più volte lamentata. I sintomi della nefrolitiasi, curata, dopo il 1549, attraverso la somministrazione delle acque minerali di Viterbo, si spensero, però, nella bellezza dei resti dell’antico stabilimento romano “del Bacucco”, di cui Michelangelo realizzò due disegni, oggi conservati al Museo di Vicar de Lille.

«Per quello che giudicano i medici, dicono che io ho il male della pietra»: così scriveva a suo nipote Lionardo, confessando che questo incomodo era stato causato dalle tante fatiche e dai tanti disagi, sopportati con eroica costanza (Eknoyan, 2000).

Il suo medico era Realdo Colombo (1510 circa-1559), con cui Michelangelo avrebbe voluto scrivere un testo di anatomia: Realdo Colombo, allievo di Vesalio e dal 1548 chiamato da Paolo III a Roma, vicino a Michelangelo al punto - come scrive al duca Cosimo I - di vagheggiare di comporre un nuovo trattato di anatomia poiché «la fortuna mi apresentava il primo pittor del mondo a servirmi in questo».

Si dice che Michelangelo soffrisse di disturbi dell’umore, affidando i segni dell’habitus melancholicus ai lineamenti del profeta Geremia, pensieroso e meditabondo nella nona campata della Cappella Sistina.

Mani artrosiche. E, ancora: «... lo scrivere m’è di gran fastidio...» (28 Ottobre 1552). Una difficoltà ribadita più volte nelle lettere degli anni successivi, fino al peggioramento irreversibile: «... però da ora innanzi farò scrivere ad altri ed io sottoscriverò...» (28 dicembre 1563). Sono gli anni della Pietà Rondanini. Le mani di Michelangelo, segnate dalle alterazioni dell’artrosi, sono ritratte in tre dipinti, due dei quali autenticati da Giorgio Vasari.

Il manierista fiorentino Jacopino del Conte (1510-1598), Daniele Ricciarelli, detto da Volterra (1509-1566), e Pompeo Caccini (1577-post 1624) hanno fissato nelle loro opere i segni di quella patologia, la cui origine portava in sé anche la soluzione.

Se, infatti, è riconosciuto che gli aspetti meccanici di “overuse” sono generalmente ritenuti tra i meccanismi patogenetici responsabili dell’insorgenza della malattia, l’attività moderata e continuativa è utile a mantenere il trofismo e la lubrificazione articolare.

Il sovraccarico funzionale, a cui Michelangelo aveva sottoposto le sue mani con l’uso costante e deciso dello “scarpello”, poteva aver indotto l’insorgenza di un processo artrosico, ma, allo stesso tempo, gli ha permesso di continuare a lavorare, fino a sei giorni prima della morte.

Dall’esperienza dell’artista, alla medicina di oggi: la diagnosi, realizzata da un gruppo multidisciplinare dell’Università di Firenze (D. Lazzeri, M. F. Castello, M. Matucci-Cerinic, D. Lippi, G. M. Weisz) e pubblicata sul Journal of the Royal Society of Medicine, rappresenta l’esercizio di un dialogo tra saperi diversi e competenze integrate.

Una interdisciplinarità fattiva, che guarda anche alla prevenzione e agli stili di vita.

Lo dicono il vissuto e le mani di Michelangelo, l’artista che amava il carattere maieutico della Scultura, con cui infiammava, “per via di levare”, l’essenza stessa del marmo.


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