Lavoro e professione

Manovra/ Quel bonus che passa da contributivo a fiscale. Ma attenzione, non è tutto “oro”

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Dal 2021 è in vigore uno sconto sui contributi a carico dei lavoratori dipendenti. Fin dall’inizio si è parlato di bonus fiscale confondendolo con quello che è, invece, solamente uno sconto contributivo. Cioè il contributo che il lavoratore è tenuto a versare assieme a quello del datore di lavoro ai fini previdenziali. La ragione è stata quella di aumentare i redditi in busta paga.
Infatti, come rilevato dai dati Ocse i salari italiani sono diminuiti in valore reale di circa il 6,9% rispetto al periodo pre Covid. I dipendenti prima della riforma, pagavano il 9,19% della loro retribuzione all’anno. Quella percentuale, dopo una serie di sconti graduali è stata, a metà del 2023, ulteriormente tagliata e lo sconto totale è arrivato a 7 punti per i redditi fino a 25 mila euro e 6 punti tra i 25 e i 35mila euro. La prima fascia ha risparmiato circa 70 euro al mese mentre quella più alta è arrivata a risparmiare anche sino a 100 euro mensili. Ma, pur non succedendo nulla di negativo a fini pensionistici per gli interessati, in quanto la diminuzione della contribuzione Ivs che riguarda l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, viene finanziata dallo Stato non incide sui futuri trattamenti, i contributi mancanti vengono, infatti, fiscalizzati e di conseguenza pagati dai contribuenti non rientranti nella riduzione del cuneo e soprattutto dagli stessi pensionati.
Ma perché i governi hanno puntato sulla decontribuzione, anziché da subito su sgravi fiscali, magari sui buoni pasto, sui buoni trasporto (che sarebbe ora inserire), sul welfare aziendale, sui premi di produzione, sulla defiscalizzazione degli straordinari o degli aumenti contrattuali 2024/25? Semplice: se operano sul fisco, le entrate si riducono subito nell’anno. Se anziché gli sgravi contributivi si fossero fatti sgravi fiscali, avremmo dovuto contabilizzare oltre 23 miliardi di mancate entrate con pesanti riflessi sul bilancio pubblico e sul Patto di Stabilità. Fare sgravi contributivi è come firmare una cambiale fuori bilancio. Un pagherò che non ha effetti contabili sul bilancio annuale.
Ricordiamo che con l’introduzione del sistema contributivo appariva chiaro che il principio di base fosse la natura corrispettiva del sistema. Per cui la pensione, di fatto, restituisce i contributi a chi li ha versati. Tuttavia, all’inizio, si attivò un sistema che distingueva fra un’aliquota di “finanziamento” indicata a definire i contributi da versare all’Inps, ed una di “computo” utilizzata a definire i contributi virtuali da conteggiare nel calcolo della pensione. In pratica da terminare una pensione maggiore dei contributi versati. Solamente dopo dodici anni le due aliquote, finalmente, furono allineate.
Ma la riduzione del cuneo contributivo ha riproposto, per alcuni redditi, la medesima condizione del passato previdenziale. Si attiva una riduzione di alcuni punti dei contributi da versare all’istituto previdenziale, facendoli confluire nel salario, senza, però, che questo influenzi il calcolo sull’importo della futura pensione.
Ora cambia tutto e il beneficio non arriverà più attraverso un taglio dei contributi ma da un generico bonus fiscale. Questo viene calibrato per scaglioni. Chi è sotto gli 8.500 euro annui prenderà un bonus pari al 7,1% del suo reddito, che scende al 5,3% per chi è tra 8.500 e 15mila euro e poi va al 4,8% nello scaglione tra 15mila e 20mila euro.
Tra i 20 e i 32mila euro non è più calcolato in percentuale di reddito ma diventa una cifra fissa pari a mille euro tondi. Tra i 32mila e i 40mila euro si calcola attraverso una complessa equazione, ma in ogni caso si aggira sopra i mille euro. Il ministro dell’Economia ha assicurato che questo farà crescere le buste paga.
In realtà non sembra così scontato, perché per alcuni la situazione resterà sostanzialmente uguale e non è escluso che qualcuno possa addirittura perderci qualcosa. Infatti i redditi a ridosso dei 30mila euro guadagnavano circa 100 euro al mese dal taglio contributivo mentre ora avranno la cifra piatta di mille euro annui. Questo, infatti, riguarda una specifica esenzione fiscale legata ai redditi da lavoro dipendente. In soldoni, si tratta di una misura prevista dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (Tuir), che esclude dalle imposte le pensioni e gli assegni ad esse equiparati, per i contribuenti con un reddito complessivo annuo inferiore a 20.000 euro. L’obiettivo è determinare una somma netta esente da imposte, applicando una percentuale al reddito da lavoro dipendente del contribuente. La percentuale (vedi le tre riportate sopra) si applica considerando il reddito da lavoro dipendente relativo all’intero anno e serve a determinare la quota esente da imposte, riducendo l’ammontare complessivo del reddito imponibile su cui vengono calcolate le imposte stesse. Questo va così a rendere più leggero il cuneo fiscale, a vantaggio del lavoratore e della lavoratrice dipendente.
Ma perché il governo ha scelto di sostituire il taglio del cuneo con questa nuova formula di bonus? I motivi sono due. Intanto, il taglio del cuneo alla voce contributi si traduceva in minori entrate per l’Inps. Inoltre, la soglia a 35mila euro creava uno scalone per chi arrivava a guadagnare poco più di quella cifra. L’aliquota marginale raggiungeva livelli altissimi, scoraggiando gli straordinari e rendendo più complesso il rinnovo dei contratti nazionali. Tra l’altro, lo sconto contributivo aveva l’effetto di aumentare il reddito imponibile ai fini Irpef, quindi una parte di quel beneficio era comunque tassata. Ora i nuovi bonus non concorrono alla formazione del reddito, quindi parliamo subito di cifre nette
La manovra riconosce in via strutturale una seconda misura di riduzione del cuneo fiscale a beneficio dei titolari di redditi di lavoro dipendente in possesso di un reddito complessivo superiore a 20 mila euro. Ai soggetti in parola è diretta un’ulteriore detrazione dall’imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro. Superato l’importo, di 20 mila euro, si passa ad un meccanismo di detrazioni aggiuntive che vanno riconosciute in busta paga: 1.000 euro tra 20mila e 32mila euro, e poi un decalage fino a 40mila euro. Ai soggetti in parola è diretta un’ulteriore detrazione dall’imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro.
Il bonus per i titolari di redditi fino a 20 mila euro e la detrazione per coloro che hanno, al contrario, redditi superiori a 20 mila euro ma pari o inferiori a 40 mila euro, vengono riconosciuti in via automatica dai sostituti d’imposta (datori di lavoro) all’atto dell’erogazione delle retribuzioni.
La spettanza definitiva delle misure è accertata dallo stesso sostituto d’imposta in sede di conguaglio, quando è noto l’ammontare del reddito complessivo totalizzato nel periodo (anno) d’imposta.
Permangono alcune perplessità. Fino a fine di quest’anno, lo sconto si applicherà ai contributi previdenziali dovuti dal lavoratore. In sostanza, i redditi fino a 25mila euro pagano il 2,19% (3,19% per i redditi fino a 35mila euro) invece dell’aliquota standard del 9,19%. Dal 2025, torneranno a pagare il 9,19%. A compensazione riceveranno un bonus che è parametrato al loro reddito. Considerando che finora il taglio al cuneo contributivo ha riguardato solo i redditi fino a 35mila euro, gli unici a guadagnarci in busta paga da questa operazione sembrerebbero i redditi tra i 35 e i 40mila euro. Ma attenzione: se hanno altre entrate – per esempio per case in affitto o collaborazioni occasionali – e questo li porta a scavallare i 40mila euro di reddito complessivo, non avranno alcun beneficio.


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