Lavoro e professione

Agosto, pensione mia non ti conosco. Le prospettive future anche alla luce dell’invecchiamento demografico

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Come ogni anno, in piena estate si infittisce, da diverse sedi, una rincorsa nel merito del futuro previdenziale in Italia. Suona un campanello d’allarme su una possibile riforma delle pensioni. Riforma spesso auspicata da alcuni, ma che nella realtà economica della Nazione trova poche possibilità di essere realizzata.
Si era già capito a fine dell’anno scorso che l’era delle quote, per alcuni transitoria a modifiche più importanti, era già a temine. L’intervento restrittivo su quote 103 con il calcolo contributivo delle prestazioni e le collegate penalizzazioni era stato il segnale più significativo. Quota 103 è stata una delle misure di flessibilità più rilevanti.
Senza fondi nella legge di Bilancio 2024, questa misura potrebbe non essere confermata o potrebbe essere ulteriormente peggiorata per renderla sostenibile.
Con un Paese in procedura per deficit eccesivo e alle prese con la correzione dei conti per il Nuovo patto di stabilità, per coprire il doppio taglio di cuneo e di Irpef trovare i miliardi necessari sarà forse un miracolo. L’attenzione del Governo sarà concentrata, infatti, sulla conferma dei bonus in busta paga, dalla riduzione dei contributi alla revisione dell’Irpef. Gran parte delle risorse disponibili per la legge di Bilancio sono già per questo impegnate, ed anche per iniziare a restituire il debito e affrontare i costi derivanti dalla procedura d’infrazione. È pertanto attualmente improbabile che il Governo riesca a reperire le risorse necessarie per un cambiamento radicale del sistema pensionistico. Lo dimostra il fatto che quest’anno il tavolo previdenza non è mai stato convocato dal ministro del Lavoro. Il Governo avrebbe deciso, infatti, di rinviare qualunque decisione a settembre quando sarà presentato il piano strutturale di bilancio di medio termine sulla base delle nuove regole della governance europea.
Ma c’è sempre qualcuno che continua a insistere per superare la legge Fornero e aprire la strada a quota 41a prescindere dall’età anagrafica. Non contenti delle varie altre quote, quota 100 in particolare, che dal 2019 al 2023 sono costate 32,3 miliardi. Mentre i tecnici del Mef affermano che il processo di riforma, iniziato proprio nel 2011 con la riforma Fornero, ha consentito in venti anni un incremento dell’età media di accesso al pensionamento di circa cinque anni, con i relati risparmi.
Secondo il rapporto del Mef, la spesa pubblica per le pensioni in rapporto al Pil aumenterà fino al 2040, per poi iniziare a diminuire. Dal 15,6% del 2015, è salita al 16,9% nel 2020 ed è prevista in calo al 15,4% nel 2025. Si prevede che tornerà, poi, a crescere al 16,1 % nel 2030, al 17,1% nel 2040, raggiungendo il picco massimo, per poi calare gradualmente al 16,6 % nel 2045,al 15,6 % nel 2050, fino al 13,8% nel 2070.
La necessità di bilanciare i conti dell’Inps e garantire al tempo stesso assegni adeguati ai pensionati rende il tema particolarmente complesso, vista la scarsità dei fondi.
Il ruolo della demografia. Un altro aspetto da considerare è rappresentato dall’aumento della speranza di vita che, dopo il modesto rallentamento dovuto al Covid, ha ricominciato a crescere con evidenti riflessi sul modello del welfare. Consideriamo che gli ultra 65enni sono oggi, in Italia, il 24 per cento della popolazione e che cresceranno ad oltre il 35 per cento nei prossimi decenni. Gli ultra ottantenni sono circa 4 milioni e mezzo, e, addirittura i novantenni poco meno di un milione! Valori destinati a raddoppiare.
Quindi l’invecchiamento demografico mette a repentaglio il patto intergenerazionale su cui si fondano i sistemi pensionistici a ripartizione
Qualunque intervento sul sistema dovrà, pertanto, necessariamente fare i conti con la situazione demografica. È vero che le pressioni demografiche rappresentano sfide potenti per i sistemi a ripartizione, ma il quadro è radicalmente cambiato rispetto a trent’anni fa, quando l’Italia era il “Paese delle baby pensioni”.
L’aspettativa di vita a 65 anni, rilevante per gli equilibri previdenziali, è infatti aumentata di 2,8 anni dal 1994, e di soli 1,1 dal 2004. Dal 1994 l’età pensionabile è però aumentata di 12 anni per le donne e di 7 per gli uomini, e l’irrigidimento di canali di accesso al pensionamento indotto dalle riforme Sacconi e Monti-Fornero ha portato l’Italia ad avere non solo l’età pensionabile più elevata ma anche l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro tra le più elevate nell’Ue : 64,2 anni nel 2023, contro una media Ue di 63,6 anni . Il rapporto era invertito dieci anni prima: 62,3 anni in Italia contro i 63,1 nell’Ue. Poco sotto la Svezia (65 anni), in linea con la Germania (64,4) e sopra a Spagna (64), Finlandia (63,7), Austria (63) e Francia (62,4) (dati: Commissione Europea, Ageing Report). Non appare quindi totalmente veritiera la credenza che andiamo in pensione troppo presto.
Tuttavia un aspetto da considerare con attenzione riguarda l’interazione tra più elevate età di pensionamento e mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nella fascia 65-69 anni è in linea con la media europea (14,7% vs 15,2%), mentre nella fascia 55-64 è raddoppiato dal 2000 raggiungendo il 57,3%, 6 punti meno della media Ue. In parallelo, si è però drammaticamente ampliato il divario nei tassi di occupazione per i lavoratori adulti (25-49 anni) tra l’Italia e l’Ue. Dai 5 punti percentuali del 2003, fino ai quasi 10 punti nel 2022 (72,1% vs 81,9%). L’Italia è perciò, oggi, tra i paesi europei con la più bassa quota di giovani e la più alta quota di anziani sul totale dell’occupazione.
Intanto appare sempre più evidente, e lo ha recentemente sottolineato il Mef, Ragioneria generale dello Stato, nel suo Rapporto numero 25 del giugno scorso, che si sta sempre più evidenziando il problema della inadeguatezza delle future pensioni. L’analisi si basa sul così detto “tasso di sostituzione”, che esprime il rapporto fra l’importo della prima pensione e l’importo dell’ultima retribuzione.
Nel sistema retributivo le variabili discriminanti erano la dinamica retributiva per la carriera lavorativa e l’anzianità contributiva. Nel sistema contributivo, oltre a carriera e anzianità si aggiunge l’età del pensionamento, legata alla speranza di vita.
Di conseguenza sia l’età del pensionamento sia il tasso di sostituzione si muovono , negli anni, in direzione sfavorevole ai lavoratori. Un sistema pensionistico non sostenibile sul piano finanziario non è, pertanto, in grado di garantire dignitosi importi di pensione. Si fatica di più ma si matura una pensione d’importo minore e acquisita per minor tempo. Lo stesso importo pensionistico raggiunto, in molti casi, viene poi eroso dall’inflazione e dall’aumento del costo della vita.
La “perequazione”, cioè il sistema di adeguamento delle pensioni ha favorito, negli ultimi anni i trattamenti più bassi e tagliato le indicizzazione ai pensionati che hanno pagato di più di tasse e di contributi.
L’indicizzazione al tasso d’inflazione. Vedremo cosa succederà su questo fronte a fine anno. A gennaio torna, infatti, un sistema di indicizzazione all’inflazione più favorevole, quella di Prodi, poi ripresa dal Governo Draghi. L’inflazione appare tuttavia per il 2024 molto ridotta rispetto ai valori degli ultimi due anni, il che potrebbe favorire un’indicizzazione corretta anche se già di fatto cancellata per le pensioni medio/alte e senza alcuna possibilità di recupero per il passato.
Le risorse previdenziali sono già sotto pressione e la situazione è destinata a peggiorare con l’aumento dei pensionati e il calo delle nascite. Una via percorribile sembra essere quella di garantire pensioni minime più dignitose e una certa flessibilità senza gravare eccessivamente sui conti dell’Inps. Per la vecchiaia anticipata si potrebbe partire dai 64 anni adeguati all’aspettativa di vita e almeno 37/38 anni di contribuzione ovvero con un aumento dell’età del pensionamento pur con le flessibilità insite nel metodo di calcolo contributivo.
Ridisegnare le regole pensionistiche oggi richiede di andare oltre le analisi che hanno ispirato le “ grandi riforme ” degli anni ’90, e delineare linee di intervento differenti che, ispirandosi alle migliori esperienze comparate, consentano di combinare efficacemente sostenibilità economico-finanziaria, adeguatezza ed equità. Quest’ultima intesa non soltanto in chiave inter-generazionale ma anche (soprattutto) intra-generazionale.
Il possibile contributo del Cnel. Il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) potrebbe offrire delle vie d’uscita. Un gruppo di lavoro istituito dal Cnel a febbraio, denominato “Riforma e prospettive del sistema previdenziale”, sta lavorando per individuare le criticità del sistema attuale e proporre linee guida per un’eventuale riforma. Entro l’estate, si prevede di completare i documenti tecnici su diversi temi, tra cui le casse dei liberi professionisti, la previdenza complementare e obbligatoria e la contribuzione. Basandosi sui documenti tecnici, il Cnel ha in programma di presentare una proposta di disegno di legge per la riforma del sistema pensionistico ai primi di ottobre. Ottobre coincide proprio con il periodo di stesura della Manovra 2025 e questo determinerà se e come il Governo procederà anche con la riforma delle pensioni.


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