Lavoro e professione

Ccnl medici/ Come cambia nella Preintesa la tutela legale. Luci e ombre anche nel confronto con la giurisprudenza

di Stefano Simonetti

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24 Esclusivo per Sanità24

Un istituto giuridico che in Aran durante la trattativa sul Ccnl medici 2019-2021 è stato oggetto "caldo" di discussione – non alla pari delle eccedenze orarie ma, in ogni caso, di rilevante interesse sindacale – è il patrocinio legale disciplinato dall’art. 56 della Preintesa del 28 settembre. Questo articolo comporta alcuni problemi di lettura e di coordinamento. Va peraltro segnalato che sulla tematica esiste una sterminata giurisprudenza che non sempre è coerente con i contenuti dei contratti collettivi che, a volte, vengono inspiegabilmente ignorati dai Giudici, soprattutto contabili. Il tutto è inoltre complicato dal principio di cui all’art. 18 della legge 135/1997 che – sebbene riguardi solo i dipendenti statali – viene utilizzato indistintamente da molti Giudici (vedi per tutte, Cassazione civile, sez, lavoro, ordinanza n. 32258 del 5.11.2021).
Nel 2019 con l’art. 67 venne rivisitata la norma precedente (art. 25 del Ccnl dell’8.6.2000) che ora è invece disapplicato. Il coordinamento di cui si diceva consiste nel fatto che i tre contratti collettivi del personale della Sanità sono, su questa tematica, piuttosto diversi uno dall’altro. Pur nel rispetto dell’autonomia delle parti negoziali – direi dei sindacati, perché l’altra parte è la medesima per tutti – per la gestione corrente del personale forse sarebbe auspicabile che in materie "trasversali" la norma fosse il più possibile omologa; ad esempio, ai dirigenti sanitari non viene attribuita la tutela per la responsabilità amministrativo-contabile (comparto) o contabile (dirigenza Pta), come se a un medico o a un veterinario non possa essere addebitato un danno erariale.
Le tre clausole non sono uniformate, perché quella del comparto lo scorso anno ha acquisito alcuni elementi nuovi (erano passati 21 anni da quella pregressa) ma prevede ora per il rimborso una limitazione incomprensibile che è stata estesa anche alla dirigenza sanitaria.
L’assenza di conflitto di interesse è un concetto assai volatile e soggettivo che è necessario che venga motivato. Non è affatto facile esemplificare le situazioni ma, in termini molto generali, si può ritenere che consiste nella valutazione del tipo di reato commesso dal dipendente, se abbia cagionato danni diretti o indiretti, anche solo di immagine, all’azienda di appartenenza, circostanza che ovviamente impedirebbe l'assunzione di oneri di difesa da parte dell’azienda medesima: se l’azienda sanitaria è vittima del reato, se è essa stessa che ha sporto denuncia alla Procura o alla Corte dei conti o, ancora, se è stato aperto un procedimento disciplinare, il conflitto di interessi è palese. Alla stessa stregua, se l’iniziativa è esterna (Collegio sindacale, cittadino singolo, sindacato, ispezione ministeriale, Nas, ecc.) e l’azienda "subisce" anch’essa la segnalazione, allora dovrebbe rilevarsi la assenza di conflitto di interessi. Non va dimenticato, a tale ultimo proposito, che il riconoscimento del patrocinio a carico dell’azienda ha come primo presupposto la “tutela dei propri diritti ed interessi” e, se non condivide i contenuti della denuncia, è la prima ad avere interesse che le accuse vengano smontate.
A parte la sussistenza del conflitto di interesse, sarebbe stato opportuno chiarire cosa si intende per "conclusione favorevole del procedimento" , in quanto sulla questione si è prodotta molta giurisprudenza e le polemiche all’interno delle aziende sono quotidiane. Quello che si vuol dire è che in una materia così delicata si dovrebbe ricorrere a una terminologia oltremodo precisa e tecnica, per evitare che un linguaggio corrente e troppo discorsivo possa ingenerare letture scorrette giuridicamente ma plausibili per il buon senso comune. La locuzione in parola è già difficile da interpretare per gli "iniziati" ma per tutti i destinatari può essere equivocata. In termini generali – e paradossali – per un medico, un biologo, uno psicologo sottoposti a procedimento penale nel quale il pubblico ministero abbia chiesto una condanna a quattro anni di reclusione, essere usciti con un anno e mezzo con la condizionale come potrebbe non essere considerata dall’immaginario collettivo "conclusione favorevole del procedimento"?
Ben diverso è invece il Ccnl dell’Area delle Funzioni centrali, laddove – senza tutti gli equivoci che la sanità si porta dietro da anni – la problematica è ribaltata: non c’è nessun riferimento a una "conclusione favorevole del procedimento" e si afferma con chiarezza e linearità che "in caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave, l’amministrazione ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni stato e grado del giudizio" (art. 31, comma 5, del Ccnl del 9.3.2020): quindi l’unica condizione per negare il rimborso a un dirigente ministeriale o di un ente previdenziale è quella inequivocabile di essere stati condannati e non si indulge nel qualificare cosa sia stato "favorevole" per il dirigente interessato.
Un’altra modifica rispetto al testo del 2019 è quella che il patrocinio è concesso anche per la fasi preliminari. Sul conflitto di interesse si è enfatizzato in maniera esponenziale il requisito richiesto aggiungendo il termine "presunto" al concetto di "anche solo potenziale".
Questo nuovo articolo – in disparte degli aspetti formali di cui si è detto – appare nella sostanza più severo rispetto al passato. Infatti, per i procedimenti penali, il patrocinio è concesso ai dirigenti sanitari soltanto in presenza di fattispecie particolari. Solo per curiosità, nel Ccnl del comparto del 2 novembre scorso si parla di "sentenza definitiva" invece che "abbiano valore di cosa giudicata". Ma soprattutto le causali che abilitano al rimborso sono per i dirigenti sanitari "il fatto non sussiste" o "l’imputato non lo ha commesso", quando per i dipendenti del comparto si richiede la "infondatezza della notizia di reato" o "il fatto non è previsto dalla legge come reato".
Vengono, dunque, ignorate per la dirigenza sanitaria le altre due fattispecie indicate nell’art. 530 del codice di procedura penale, cioè il fatto non costituisce reato e il reato è stato commesso da persona non imputabile. Tanto per essere chiari, se un medico e un infermiere subiscono un processo perche la Procura ha contestato un fatto commesso in concorso tra loro, le clausole contrattuali da applicare risultano diverse per ciascuno di essi. Se nel dibattimento viene accertato con sentenza definitiva che l’infermiere non lo ha mai commesso, tutte le spese legali rimangono a suo carico mentre il medico viene rimborsato. Forse l’ossessione di evitare i rimborsi per procedimenti finiti in prescrizione – che è l’ipotesi più frequente – ha indotto la parte pubblica a scrivere una norma più rigorosa.
Nel comma 2 è scomparso l’inciso "prosciolto da ogni addebito", soppresso già per il comparto ma ancora presente per la dirigenza Pta. Secondo me, la correzione non è casuale perché il persistere del ricorso al termine "proscioglimento" nel Ccnl del 2019 generava un disallineamento logico: infatti, la prescrizione del reato – cioè il caso più controverso e più frequente - è una delle cause di proscioglimento dell’imputato. Quando il Giudice dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione, si tratta di una sentenza adottata ai sensi dell’art. 531 cpp che è contenuto nel libro VII, titolo III, capo II la cui sezione I è rubricata “sentenza di proscioglimento”: i due distinti esiti del processo, cioè l’assoluzione (art. 530) e l’estinzione del reato (art. 531), sono entrambi contenuti nella sezione che tratta del proscioglimento che, ovviamente, è diverso per altri aspetti dall’assoluzione ma produce gli stessi effetti. In questo contratto sparisce ogni riferimento al concetto di proscioglimento e resta soltanto quello di assoluzione. Tutto chiaro, ma un così diverso trattamento per un infermiere, un medico e un ingegnere è un fatto piuttosto sconcertante.
Rimane, infine, da approfondire la questione molto delicata della scelta dell’avvocato nel caso in cui il dirigente non intenda affidarsi a quello dell’azienda o proposto dall’azienda ovvero affiancarli. Nel primo comma la fattispecie è quella della scelta di un legale diverso e il dirigente deve proporre il nominativo all’azienda "che decide in merito"; il rifiuto del nominativo non deve essere motivato, come invece espressamente è previsto nell’ipotesi regolata da secondo comma. Più complesso è il caso ipotizzato nel secondo comma. Durante la trattativa è stata fortemente osteggiata la locuzione "di comune gradimento", presente nel precedente contratto e nella bozza del nuovo, e i sindacati hanno ottenuto "previa comunicazione all’azienda o ente per il relativo assenso".
È singolare il fatto che la precisazione costituiva già un errata corrige nel testo definitivo del Ccnl del 2019 perché nella Preintesa del 24 luglio si leggeva "deve essere previamente autorizzato dall’Azienda". La differenza consiste nel valore semantico delle parole "assenso" e "autorizzazione". Si può dedurre che la formulazione definitiva presente nel comma 2 comporta che è il dirigente a dover incaricare l’avvocato e l’azienda ad esprimere l’assenso e non, al contrario, che è l’azienda a dover concordare col dipendente un legale di comune gradimento. Conseguentemente, è il dirigente stesso a dover sostenere una spesa, soggetta a successivo rimborso, mentre con l’altra formula contenuta nel comma 1 sarebbe stata l’azienda a far assistere il dirigente dal legale: dunque, non è l’azienda ma l’interessato ad incaricare il legale e assumere "a proprio carico" ogni onere di difesa, sia inteso come onere di strategia difensiva, sia come onere finanziario. Insomma, sono due fasi distinte e alternative: nella prima il "cliente" è comunque l’azienda che incarica un avvocato sul cui nome l’interessato deve dare l’assenso; la parcella e l’impostazione della difesa restano in mano all’azienda. Nel secondo caso è il dirigente che nomina in proprio un legale rispetto al quale – ai fini del rimborso – l’azienda datrice di lavoro deve dare il proprio assenso o il diniego entro un termine prefissato, ma le strategie di difesa sono decise dal dirigente. Le osservazioni fatte valgono anche per i consulenti che, a volte, sono molto più importanti degli avvocati. Tant’è, prendiamo atto della nuova scrittura ma, personalmente credo che dire "può motivatamente esprimere il suo diniego nei successivi 15 giorni" e cancellare la vecchia formula "previo comune gradimento" non sia stato un miglioramento perché si passa da una condivisione a una sostanziale autorizzazione.
Non dovrebbero sussistere perplessità su quale sia il momento in cui avviene "l’apertura di un procedimento …", perché ad esempio è fondamentale per il penale che sia chiaro che l’assistenza spetta fin dall’avviso di garanzia e dal correlato interrogatorio. In tal senso, è opportuno precisare che l’evento di cui sopra avviene nel momento in cui una notizia di reato viene iscritta in un apposito registro conservato presso l'ufficio del pubblico ministero. La precisazione è opportuna perché potrebbe generarsi confusione con l’obbligo per il dirigente di informare l’Amministrazione di essere stato rinviato a giudizio (vedi l’art. 34, comma 4, lettera G del Ccnl del 17.12.2020) e le differenze in termini sostanziali e cronologici tra iscrizione del registro degli indagati e rinvio a giudizio sono, come è noto, molto rilevanti. I parametri minimi ministeriali forensi richiamati nel comma 2 sono quelli di cui al DM n. 147 del 13 agosto 2022.


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