Lavoro e professione
Contratto funzioni locali, l'anomala e scomoda posizione dei dirigenti Pta
di Stefano Simonetti
24 Esclusivo per Sanità24
Come è noto il personale del pubblico impiego contrattualizzato è articolato in quattro comparti (erano undici fino al 2009): Funzioni centrali, Funzioni locali, Istruzione e ricerca e Servizio sanitario nazionale; l’aggregazione delle amministrazioni all’interno di essi è sancita dai Ccnq del 3 agosto 2021 e del 10 agosto 2022. La Sanità è l'unico comparto ad avere tre distinti ambiti di contrattazione perché per gli altri tre comparti sono previsti un tavolo per il personale del comparto e uno per i dirigenti, chiamato Area. Ma la dirigenza del Ssn è del tutto peculiare - per i numeri, per i profili specifici presenti (ben diciotto), per le caratteristiche atipiche dei medici, per la mission istituzionale che si ispira addirittura alla Costituzione - ragione per cui la dirigenza è articolata in sanitaria, con una Area dedicata, e quella cosiddetta Pta (professionale, tecnica e amministrativa) che costituisce una sezione della Area delle Funzioni locali che la vede insieme ai "cugini" dirigenti regionali, delle autonomie locali e segretari comunali. Rimane del tutto irrisolta la questione dei dirigenti sociologi di cui si è parlato nell’articolo del 21 luglio scorso . Orbene, se il rinnovo del contratto della dirigenza sanitaria è piuttosto complicato – l’1 e il 3 agosto si sono riferiti i nodi sul questo sito - quello dei dirigenti Pta non è da meno e quando lunedì 11 settembre si è aperta formalmente la contrattazione, dopo "soltanto" 21 mesi dalla di scadenza stessa del Ccnl (31 dicembre 2021), alcuni problemi sono già emersi nella loro complessità. All'inizio della riunione il confermato presidente dell'Aran Antonio Naddeo ha passato in rassegna numeri e risorse finanziarie disponibili.
Sono 13.640 le unità di personale dirigente destinatario del Ccnl dell’Area di cui parliamo, in base al conto annuale 2018: 5.842 dirigenti di enti locali e Regioni; 4.813 dirigenti Pta; 2.885 Segretari comunali e provinciali. L’incremento contrattuale è pari a: - 1,30% dal 1/1/2019 - 2,01% dal 1/1/2020 - 3,78% dal 1/1/2021, cioè a regime. La distribuzione delle risorse non risulta proporzionale invece alle unità dirigenziali visto che 30,65 milioni saranno riconosciuti alla dirigenza Ral, 20,37 milioni di euro alla dirigenza Pta e 11,74 milioni di euro ai segretari. A ciò si devono sommare le risorse aggiuntive per rifinanziare i fondi per la contrattazione integrativa, anche in deroga al limite previsto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, cioè fino allo 0,22% del Monte salari 2018, così come previsto dalla legge di Bilancio per il 2022 e già applicato nel Ccnl del comparto dello scorso anno. Queste risorse ammontano complessivamente a 3,25 milioni, anche in questo caso distribuiti non in proporzione alla consistenza meramente numerica della dirigenza.
Da tali complessive risorse deriveranno i seguenti incrementi medi mensili pro-capite: 309 euro per la dirigenza Ral, 243 euro per la dirigenza Pta e 239 euro per i Segretari. Insomma la logica, piuttosto perversa, ammette che, con gli incrementi calcolati in questo modo, chi era ricco sarò ancora più ricco e chi era palo non fa un passo avanti nell’ottica dell’armonizzazione dei trattamenti, pur prevista dalla legge.
C’è infatti da chiedersi come sia possibile per una dirigenza che svolge le stesse funzioni e ha le stesse responsabilità e che, oltretutto, è inserita nel medesimo contratto collettivo possa esistere una tale differenziazione economica e soprattutto l’insostenibilità per il futuro di una forbice retributiva esponenzialmente destinata ad allargarsi sempre più. Per essere più chiari è forse il caso di fare un esempio. Il Capo del personale o il Provveditore di un Comune e di una Azienda sanitaria hanno le stese prerogative, la stessa formazione e cultura giuridica e le stesse responsabilità gestionali , penali ed erariali. Ma se un Dirigente scolastico si volesse paragonare a un Primario ospedaliero o un Avvocato dell’Inps a un Ricercatore, si seguirebbe un approccio sbagliato perché le caratteristiche e le prerogative delle figure citate sono notevolmente diverse.
Al contrario, per i dirigenti amministrativi Pta la assimilazione ai colleghi delle Ral dovrebbe essere lampante perché, banalmente, "fanno le stesse cose". Tuttavia, l’Atto di indirizzo – illustrato l’altro giorno dal Presidente dell’Agenzia – è pedissequo e acritico nel prevedere il famigerato 3,78% di incrementi in modo, come detto, esponenziale. Occorre riconoscere che il margine di manovra dell’Aran è quasi inesistente perché di una armonizzazione e perequazione salariale non si può fare carico l’Agenzia negoziale senza un espresso indirizzo del Comitato di settore, visto che dei maggiori oneri si dovrebbero far carico direttamente le Regioni. Ma è così scontato questo quadro in cui sembra tutto impossibile da correggere? Da più parti viene detto pregiudizialmente che non si può fare ma, a mio parere, non si "vuole" fare perché tecnicamente sarebbe possibile e tenterò di sostenere questa affermazione.
Gli incrementi per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego sono definiti dalla legge di Bilancio dell’anno di riferimento. Gli stanziamenti reali e diretti, peraltro, sono sempre stati effettuati soltanto per le amministrazioni centrali dello Stato precisando che per le altre amministrazioni (sanità ed enti locali) si sarebbe provveduto con oneri a carico delle amministrazioni stesse. Questo passaggio nell’ultima tornata contrattuale ha creato un iniziale scalpore ma in realtà è sempre stato così e l’art. 48 del d.lgs. 165/2001 lo afferma fin dall’inizio della contrattazione pubblica. Ma in passato gli oneri contrattuali venivano ricompresi all’interno dell’ex Fondo sanitario nazionale, cosa che l’ultima volta non è stata fatta o è stata insufficiente.
Se quella sopra descritta è la situazione della imputazione degli oneri contrattuali, un discorso a parte merita la questione della quantificazione degli oneri stessi. Per anni si è ritenuto che le percentuali di aumenti contrattuali dovessero essere uniformi per l’intero pubblico impiego. Poi è arrivata la sentenza della Corte costituzionale n. 83 dell’11 aprile 2019 che ha invertito completamente tale convinzione affermando proprio il contrario. In buona sostanza, la Consulta ha detto che la tesi degli aumenti uguali per tutti "si basa su una interpretazione non condivisibile delle disposizioni censurate". Rispetto all’impugnazione della Regione Veneto – che lamentava il sottofinanziamento da parte della legge statale - la Corte, con un ragionamento distaccato e asettico, ricorda che la determinazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici è materia affidata alla contrattazione collettiva, che gli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva sono determinati a carico dei bilanci delle amministrazioni del Servizio sanitario nazionale e che, pertanto, una corretta lettura degli impugnati commi 682 e 683 della legge 205/2017 porta a concludere che essi, limitandosi a ribadire i principi generali già stabiliti dal d.lgs. n. 165 del 2001, esauriscono in ciò la loro portata normativa: cioè, in altre parole, non esiste una norma legislativa che garantisca aumenti uguali a tutti i dipendenti pubblici. Una sottile e delicata conseguenza al principio dedotto dalla Corte è che, se è vero che non sussiste una norma che assicuri parità di aumenti, è altrettanto vero che nulla impedisce di erogare aumenti superiori agli altri comparti, a maggior ragione all’interno di una stessa Area contrattuale per perseguire perequazione e armonizzazione salariale.
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