Lavoro e professione
Rapporto medico-infermiere, perimetro fluido e non sempre sereno
di Stefano Simonetti
24 Esclusivo per Sanità24
L’opinione pubblica ha generalmente una immagine del lavoro di medici e infermieri che trasmette subito professionalità, dedizione e collaborazione. Senz’altro nella stragrande maggioranza delle strutture sanitarie questa è la percezione che l’immaginario collettivo ha delle équipe sanitarie con cui si viene a contatto. Tuttavia, dietro la facciata direttamente a contatto con l’utenza, i rapporti professionali tra medici e infermieri non sempre negli ultimi venticinque anni sono stati lineari e privi di criticità. Molte volte si sono generati attriti o vera e propria ostilità, tanto che spesso è intervenuta la Magistratura, sia quella amministrativa e civile ma anche quella penale. È di pochi giorni fa la pronuncia del Consiglio di Stato in relazione a una vertenza sorta in Umbria nel 2016 che è particolarmente significativa di quanto il perimetro delle competenze professionali e organizzative degli infermieri sia ancora lontano da una definizione condivisa da tutti i protagonisti dello scenario dell’assistenza sanitaria (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 5205 del 21 giugno 2022, pubblicata il 24 giugno). Proviamo a rivedere le vicende di questi rapporti nelle loro fasi maggiormente conflittuali. È probabile che nel lavoro sul campo gli episodi che saranno segnalati non vengano vissuti come un vero conflitto tra i professionisti che lavorano insieme per il bene del paziente e che le contrapposizioni riguardino più le istituzioni professionali e i portatori di interessi diffusi che i 400.000 professionisti in trincea.
In ordine ai rapporti tra medico e nuove professioni sanitarie la situazione è molto articolata. Per arrivare all’odierno assetto professionale degli infermieri con laurea si sono dovute attuare una serie di disposizioni normative (il Dm 739/1994 sul profilo, la legge n.42/1999 sul riconoscimento come professione sanitaria con la abrogazione del mansionario, la legge 251/2000 sulla dirigenza, la legge 43/2006 sul consolidamento della professione) che hanno concretizzato il definitivo superamento del concetto di ausiliarietà e mera esecutività dell’assistenza infermieristica nei confronti della professione medica attraverso la realizzazione di una compiuta e autonoma professione sanitaria che ha poi trovato la sua piena regolamentazione nella legge 3/2018 – la cosiddetta legge Lorenzin – che ha mutato i Collegi in Ordini e ha rivisitato tutta la pregressa normativa. La legge 3/2018 ha istituito 22 professioni sanitarie e, per i profili che erano privi anche del Collegio, ha costituito i rispettivi Ordini professionali.
È comprensibile che l’evoluzione delle ex professioni sanitarie ausiliarie non potesse trovare entusiasmo e condivisione da parte della categoria che da decenni aveva con questi soggetti un rapporto di sovra ordinazione non solo professionale ma anche organizzativa fino a sfiorare, nei peggiori casi, aspetti ancillari. I rapporti lavorativi quotidiani interprofessionali non riguardavano soltanto gli aspetti squisitamente tecnico-professionali ma coinvolgevano la gestione delle ferie, i permessi, l’azione disciplinare, il sistema di valutazione. Sono storicizzate le polemiche medico/infermiere, patologo clinico/tecnico di laboratorio, radiologo/tecnico di rx, ortopedico o fisiatra/fisioterapista, ginecologo/ostetrica per non parlare di quello che è forse il rapporto più conflittuale, cioè igienista o veterinario/tecnico della prevenzione, soprattutto per ciò che riguarda i delicati confini tra gli aspetti funzionali e quelli professionali all’interno della unità operativa. Ed è ancor più comprensibile come per un "primario" sia stato straniante vedere un infermiere diventare direttore di struttura complessa o, addirittura, capo dipartimento.
Molte ragioni organizzative, ambientali e, direi, culturali hanno reso difficile la piena realizzazione del nuovo assetto. Un aspetto estremamente delicato, quindi, è senz’altro quello della "integrazione multidisciplinare delle professioni sanitarie" che deve essere perseguita per valorizzare le risorse umane. Tale principio era contenuto nell’Atto di indirizzo del 2017 relativo al comparto e riguarda una problematica che ha avuto alcuni risvolti di criticità. Il problema vero è che molta parte di ciò che è stato scritto nel contratto del 2018 doveva necessariamente avere una speculare previsione anche nel contratto della dirigenza sanitaria, altrimenti sarebbe restato una mera affermazione unilaterale foriera di problemi e polemiche. In tal senso, è ancora vivo il ricordo del fallimento del "comma 566" così come è nota la giurisprudenza che si è formata in tema di rapporti tra professioni. Nello specifico degli infermieri è stata, ad esempio, considerata una grande vittoria per la professione l’abrogazione del mansionario contenuto nel Dpr 225/1974 ad opera della legge 42/1999 che, come detto, ha elevato quella dell’infermiere – che perse l’aggettivo “professionale” – a professione sanitaria (non più ausiliaria) con il contestuale riconoscimento del percorso di studi a livello universitario. Tuttavia le competenze e le attribuzioni del "nuovo" infermiere non sono state subito così lineari e definite; lo stesso Dm 14 settembre 1994 n. 739, che definisce il profilo, è francamente troppo generico. Con la conseguenza che da quasi 30 anni la problematica di cosa deve o può fare l’infermiere – e, ovviamente, gli altri profili - è di forte attualità tanto da giungere al famoso (o sarebbe meglio dire famigerato) comma 566 della legge 190/2014 che ha ritenuto di risolvere la questione del perimetro delle competenze infermieristiche e tecnico-sanitarie in relazione all’atto medico mediante un Accordo Stato/Regioni che, peraltro, non ha mai visto la luce per la netta e insormontabile ostilità da parte dei medici. A suo tempo la norma è servita soltanto per illudere una delle parti in causa dell’imminente nascita dell’infermiere specializzato e, nei confronti della controparte, per dimostrare una volta di più la propria chiusura a qualsiasi innovazione che determini perdita di potere o prestigio per la professione medica.
La questione, dunque, era di assoluta attualità tanto da indurre la Federazione degli Ordini dei tecnici sanitari ad adottare il 19 ottobre 2019 una mozione ufficiale votata all’unanimità a Roma riguardo al fatto che "la valorizzazione delle 22 professioni sanitarie non deve essere, come non è, in contrasto con ciò che è di esclusiva competenza del laureato in medicina e chirurgia". L’auspicio si riferisce a circa 235.000 iscritti di 19 professioni ma coinvolge, ovviamente, tutti le altre professioni a cominciare dagli infermieri.
Numerosi sono stati i contrasti – spesso esitati in pronunce giurisprudenziali - in tema di rapporti tra medico e infermiere o, meglio, sulla ripartizione delle competenze secondo un innovativo task shifting: sulle unità di degenza infermieristica, sulla metodica del see and treat, sugli equipaggi delle auto mediche. Gli stessi giudici amministrativi hanno mostrato divergenze di opinioni, dando a volte ragione alle amministrazioni pubbliche (Tar Lazio, sez. III quater, sentenza n. 10411 del 19.10.2016, relativamente al see and treat) e altre volte riconoscendo le ragioni dei ricorrenti, in questo caso sindacati medici (Tar Umbria, sez. I, sentenza n. 704 del 7.11.2016, per le unità di degenza infermieristiche). Quest’ultima sentenza è stata confermata meno di un mese fa dal Consiglio di Stato con la decisione segnalata all’inizio. Si è citato sopra il "see and treat", cioè una metodica organizzativa per il triage del pronto soccorso: ebbene, in Toscana lo strumento venne introdotto con la partnership dell’Ordine dei medici di Firenze mentre a 70 chilometri di distanza la medesima metodica è stata oggetto di denunce penali ai sensi dell’art. 348 del codice penale cioè, per intenderci, per abuso di professione.
Ma quella che è stata senza altro la più sconcertante è la vicenda dell’Ordine di medici di Bologna che ha inizialmente sospeso dall’Albo alcuni suoi iscritti che avevano collaborato ad attuare linee guida per attività infermieristiche "on the border". Le questioni sono proseguite fino ad arrivare addirittura alla irrogazione della sanzione disciplinare della radiazione nei confronti dell’allora assessore regionale Sergio Venturi – in quanto medico iscritto all’Ordine – per aver adottato direttive ritenute lesive del decoro della professione. È con sconforto che si deve ammettere che in alcuni casi ormai la questione non possa trovare soluzioni condivise e negoziate ma solo giudiziarie. Nel caso di specie, comunque, la Regione Emilia-Romagna ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzioni e la Consulta ha ritenuto che l’Ordine dei medici, nel sanzionare il medico/assessore, di fatto ha sindacato le scelte politico-amministrative della Giunta in materia di organizzazione dei servizi sanitari, su cui non ha alcuna competenza: così facendo, l’Ordine ha invaso la competenza assegnata alla Regione dagli articoli 117, terzo comma, e 118 della Costituzione, in materia di organizzazione sanitaria e la sanzione a carico dell’assessore Venturi è stata dichiarata illegittima (sentenza della Corte costituzionale n. 259 del 6.12.2019).
Tuttavia qualcosa stava cambiando visto che dal confronto tra 10 professioni sanitarie riunite a Firenze al Forum Risk Management del 26 novembre 2019 è venuta da parte del presidente della Fnomceo la proposta di istituire una Consulta permanente delle professioni sanitarie finalizzata a costruire un terreno comune da cui partire per collaborare nell’interesse del paziente e dei suoi bisogni, valorizzando le proprie competenze senza alzare steccati e lasciandosi alle spalle le conflittualità. Questo clima di pacificazione è stato brutalmente infranto il 27 dicembre 2019 da una lettera aperta del presidente dell’Ordine dei medici di Bologna indirizzata ai Presidenti Omceo italiani riguardo alla questione della radiazione dell’Assessore Venturi annullata dalla Corte costituzionale. Nel documento si parla di professione di fede, deontologia, principio di non maleficienza, principio di beneficialità fino ad arrivare ad affermare che "siamo ormai alla destrutturazione della professione". Come appare evidente, la strada per la vera integrazione era ancora molto lunga.
Sempre in Emilia-Romagna – vero laboratorio sperimentale per la sanità – alla fine dello scorso anno è stata approvata la legge regionale n. 17 del 26.11.2021 con la quale si prevede che al Direttore generale, Direttore sanitario, socio sanitario (nelle Asl territoriali) e amministrativo si unisca anche il Direttore assistenziale. Secondo i proponenti della legge lo scopo è quello di rafforzare la governance dei processi organizzativi, garantendo una più compiuta visione d’insieme, capace di valorizzare tutte le professionalità presenti, generando una maggior capacità di rispondere ai bisogni dei cittadini. Naturalmente l’innovazione è stata accolta con grande entusiasmo dagli infermieri e dai tecnici sanitari attraverso gli Opi provinciali e i sindacati di categoria. Meno positiva è stata la reazione dei sindacati medici. Per completezza va ricordato che la Corte costituzionale con sentenza n. 106 dell’1.4.2011 aveva affermato l’illegittimità costituzionale della legge del Veneto che istituiva la direzione aziendale delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche e la direzione aziendale delle professioni riabilitative, tecnico–sanitarie e della prevenzione. Anche se apparentemente simili le due fattispecie non sono sovrapponibili perché la legge veneta inquadrava le direzioni nell’ambito del Ccnl. La Consulta ha ritenuto violato nel caso di specie l’art. 81, comma 4 della Costituzione perché rispetto alla creazione delle due direzioni era indefinito il quadro del necessario finanziamento. Ma, come detto, si tratta di una fattispecie piuttosto diversa.
Tornando alla recentissima pronuncia dei giudici di Palazzo Spada, quello che è accaduto è davvero emblematico. Una azienda sanitaria aveva istituito le UDI – unità di degenza infermieristiche – strumento organizzatorio dotato di 12 posti letto per la gestione dei pazienti in fase post-acuta, generalmente provenienti da unità operative a carattere internistico e con predefinito il piano terapeutico, necessitanti di assistenza infermieristica prima del ritorno al proprio domicilio. Di conseguenza, dal Consiglio di Stato è stato espresso il seguente principio: "È incontestabile, infatti, che al personale medico compete la gestione del percorso terapeutico e clinico del paziente, mentre alla struttura infermieristica spetta il compito di attuare il percorso proriamente assistenziale". Ma la travagliata storia dei rapporti interprofessionali non finisce perché è dell’8 giugno scorso l’annuncio della vicepresidente della Regione Lombardia e assessore al Welfare Letizia Moratti sull’avvio della sperimentazione in alcune ASST lombarde: gli infermieri saranno impiegati anche in tema di cure primarie, offrendo supporto e supplenza per affrontare la carenza di medici di medicina generale.
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