Lavoro e professione
Rapporto Oasi/ Gli infermieri priorità per il sistema, ma sono troppo pochi
di red.san.
«Siamo al limite del paradosso: il rapporto medici-infermieri a livello di paesi Ocse è mediamente di 1 a 2,8 con le punte estreme e i valori maggiori tutti nei paesi dove l'assistenza sanitaria si caratterizza di più per efficienza ed efficacia. Ma in Italia no. In Italia siamo a 1 a 1,5, e i paesi che stanno peggio, tranne la Spagna che comunque c'è molto vicina, non sono davvero quelli che brilla di più per livelli positivi di assistenza. Ma gli infermieri sono dichiaratamente (e non solo dalla nostra Federazione) considerati essenziali ormai per l'evoluzione dell'assistenza e per far fronte alle sfide del futuro».
Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale Ipasvi che raccoglie gli oltre 447mila infermieri italiani, di cui circa 280mila lavorano per il servizio pubblico, commenta i dati sulla professione che emergono dal Rapporto Oasi 2017 della Sda e Cergas Bocconi in cui un intero capitolo.
«La “questione infermieristica” - spiega la leade Ipasvi - è di fondamentale importanza e da essa dipende, in larga parte, la possibilità del sistema di fare fronte alle sfide del futuro. La ricerca ci consegna la fotografia di una situazione positiva rispetto a quella che era una “professione ausiliaria” qualche decennio fa, ma mostra anche come molti nodi siano ancora da sciogliere, in un complesso intreccio di elementi quantitativi e di problemi legati agli assetti organizzativi e contrattuali nei quali la professione opera».
«Quindi? – chiede Mangiacavalli alle istituzioni - Come va affrontata quella che si presenta come una evoluzione naturale dell'assistenza e che invece trova per una sua ufficializzazione mille ostacoli su un percorso che a livello locale sembra ormai abbracciato dalla maggior parte delle aziende, pubbliche e private?».
Oasi dice che per quanto attiene all'approfondimento specialistico nell'area professionale di riferimento, quella infermieristica appunto, l'88% delle aziende del campione individua competenze specialistiche infermieristiche distintive. In particolare, si tratta del 100% delle aziende private, contro l'85% delle aziende pubbliche.
Infermieri “specializzati sono una realtà
Oasi dice che la ricerca ha messo in evidenza come siano ormai diffuse nelle organizzazioni forme di specializzazione della professione infermieristica (in media l'88% delle aziende riconosce forme di specializzazione). Le aree nelle quali sembra focalizzarsi tale fenomeno sono principalmente l'emergenza-urgenza e l'area chirurgica. Sono già previsti percorsi formativi a supporto di alcune figure specialistiche (es. master universitari di I livello in Wound Care), ma non sono ancora state concordate in via definitiva le aree di specializzazione e gli istituti contrattuali (pubblici e privati) per il riconoscimento delle specializzazioni.
Dallo studio risulta come nelle aziende pubbliche si sia sperimentato un forte numero di forme di assunzione di ruoli gestionali da parte degli infermieri, segno di una disponibilità della professione a farsi carico dei nuovi fronti di responsabilità che si aprono con le riorganizzazioni che stanno caratterizzando il settore pubblico (bed management, operation management, gestione di team multiprofessionali).
Ma Oasi dice anche che lo sforzo maggiore che la professione è chiamata ad affrontare riguarda l'apertura a logiche e strumenti di tipo manageriale sempre più generali e lontani dai contenuti professionali di origine. Si aprono – secondo Oasi - nuove prospettive di ruolo, rispetto alle quali può essere utile cogliere per tempo quali siano le competenze da sviluppare per sostenerne l'assunzione.
«Dal punto di vista quantitativo – commenta Mangiacavalli - la diagnosi secondo Oasi è semplice: con una densità medica (rapporto medici popolazione) medio-alta e una densità infermieristica medio-bassa, il rapporto infermieri-medici nel nostro paese è già oggi troppo basso, ma lo è soprattutto rispetto alle future esigenze.
E spiega – prosegue – che due dinamiche impongono importanti modificazioni nella composizione della forza lavoro (skill mix) tra infermieri e medici. La prima è l'emergere della cronicità e della “presa in carico” come questioni fondamentali per il sistema sanitario, con la conseguente necessità di riaggiustare il rapporto tra le diverse professioni. La seconda è la progressiva professionalizzazione degli infermieri che consente in molti ambiti lo sviluppo pieno e a pieno titolo del lavoro infermieristico di cui è propria l'assistenza».
Ma Oasi sottolinea anche che la terapia rischia di essere complessa, soprattutto in un contesto di limitazione del turnover come quello che caratterizza la parte, maggioritaria, del sistema sanitario alimentata da risorse pubbliche. Una modificazione nello skill mix è, infatti, una operazione lunga che implica, in termini molto semplificati, l'assunzione, costante nel tempo, di un certo numero di infermieri per ogni medico assunto. Si tratta di una scelta molto difficile da attuare, sia per una perdurante identificazione presso l'opinione pubblica della sanità più con la componente medica che con quella infermieristica, sia, e soprattutto, per la differente fungibilità che contraddistingue le due professioni (una carenza in una specialità medica non può essere coperta con un differente specialista).
«Per raggiungere l'obiettivo – dice ancora Mangiacavalli – Oasi ritiene necessario un intervento molto determinato, sorretto da una esplicita presa di posizione e pronto a scontare grandi problemi e resistenze nel breve periodo. Il taglio netto rispetto alle professioni consolidate prodotta dall'inserimento degli infermieri nel comparto e le limitate tipologie di riconoscimento disponibili sono vincoli che devono essere e molto probabilmente saranno superati dai nuovi contratti».
«Ma per quel che ci riguarda -spiega Mangiacavalli -, e lo stiamo sottolineando e chiedendo da tempo, sia pure senza azioni secche come scioperi e manifestazione che avrebbero sicuramente maggiore potere di chiarezza rispetto al management dei servizi, ma penalizzerebbero i nostro assistiti e la professione infermieristica questo non lo farebbe mai: abbiamo denunciato la mancanza di almeno 47mila infermieri per poter alzare il livello del servizio, specie sul territorio dove anziani, cronici e non autosufficienti vivono i loro bisogni. Abbiamo messo in evidenza le difficoltà legate agli organici ridotti che rischiano di coinvolgere anche i cittadini, ricordando che studi internazionali indicano che se i pazienti per infermiere scendono numericamente da 10 a 6, la mortalità si riduce del 20%: in Italia la proporzione media nazionale è di 12 pazienti per infermiere e se alcune Regioni – poche – ce la fanno a scendere anche se di poco sotto i 10, ce ne sono altre, ancora tra quelle in piano di rientro che di più scontano il blocco del turn over e la carenza di personale, dove si arriva anche a 18 pazienti per infermiere».
«Gli operatori del Ssn non ce la fanno più – conclude - . Il Ssn va rimodellato e la questione del personale affrontata senza soluzioni di facciata».
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