Lavoro e professione
Liste d’attesa: il nuovo oggetto delle politiche demagogiche contro l’intramoenia dei medici
di Carlo Palermo (vice segretario nazionale vicario Anaao Assomed)
In Italia oramai la politica demagogico-populistica appare inarrestabile. Anche temi importanti e sensibili come quello delle liste di attesa in sanità vengono buttati in modo irresponsabile in questo tritacarne. Infatti, con ben 12 mozioni presentate alla Camera dei Deputati, i numerosi e variegati raggruppamenti che caratterizzano la nostra politica nazionale, fatto salve alcune lodevoli eccezioni, hanno affrontato il tema delle liste di attesa e dell'attività intramoenia dei medici in una sorta di chiamata alle armi in difesa dei cittadini e contro i medici fabbricanti di attese. Pochi con dati alla mano, per quanto non aggiornatissimi, e questo la dice lunga, molti come se fossero cittadini che si trovano a passare per caso dentro Montecitorio e non esponenti di partiti al governo o all'opposizione, che, quanto meno, si presume debbano essere informati sui fatti.
Da anni cerchiamo di dare sull'argomento una informazione basata su dati difficilmente contestabili e bisogna avere coraggio nel continuare a parlare al cervello delle persone quando molti trovano meno problematico parlare alle pance. Ma noi, come è noto, siamo ostinati e non ci rassegniamo alle facili e ingannevoli scorciatoie e proviamo a ricapitolare quanto da anni sosteniamo.
Le liste d'attesa sono una caratteristica strutturale di tutti i sistemi sanitari pubblici ove i pazienti non sono chiamati a pagare la prestazione di tasca propria ed il tempo di accesso ai servizi, e non la disponibilità a pagare, ha il ruolo di trovare un equilibrio tra domanda ed offerta. I tempi d'attesa rappresentano il risultato di fenomeni complessi quali la disponibilità di tecnologie diagnostiche e di terapie sempre più sofisticate, il cambiamento demografico ed epidemiologico in atto con l'aumento di malattie ad andamento cronico che richiedono frequenti controlli clinici, la crescente domanda di salute legata alla maggiore informazione e consapevolezza dei cittadini, ma anche l'influenza che su di essi esercita lo sviluppo di un (super)mercato della salute, esterno al Ssn, che marcia indisturbato a grandi passi verso il trionfo inflazionistico della medicina e della medicalizzazione pervasiva della società.
Le leggi vigenti garantiscono il diritto dei medici a esercitare una professione liberale e il diritto del cittadino di scegliersi un medico di propria fiducia in un periodo critico della propria vita. Il Ssn offre i servizi, la singola prestazione chirurgica o diagnostica, ma non può sempre garantire quale medico la eseguirà, per ovvii motivi organizzativi, resi ancora più critici dal sistematico definanziamento del Ssn che ha caratterizzato questi anni di crisi economica. La LPI permette questa scelta.
La LPI rappresenta, a ben guardare, un valore aggiunto per le aziende sanitarie e la possibilità per gli utenti di acquisire prestazioni diagnostiche e terapeutiche sicure e di qualità, in quanto garantite dal Ssn. I dati relativi alla LP in regime ambulatoriale indicano come essa rappresenti meno dell'8% dell'attività svolta in regime istituzionale mentre quella in regime di ricovero non supera lo 0,32% (esattamente 28.000 dimessi in libera professione contro 8.630.000 in regime ordinario e di day hospital). L'attività istituzionale è quindi ampiamente prevalente su quella libero-professionale con rapporti molto lontani dai limiti massimi indicati dalle leggi e dai contratti. Per quanti sforzi mentali uno possa fare non si capisce come un numero così piccolo, possa influenzare gli importanti tempi di attesa presenti nel nostro sistema sanitario, per esempio in tutta la chirurgia di bassa complessità o per l'impianto di protesi in campo ortopedico, che oramai si misurano in anni. Si tratta di logica matematica, e politica.
Se passiamo all'analisi dei DRG più richiesti, ai primi due posti troviamo il parto cesareo (3447 ricoveri in LPI) e il parto per via vaginale (1375 ricoveri in LPI) e ancora una volta è difficile comprendere come si possa determinare attese con queste particolari prestazioni. Sul versante delle attività ambulatoriali, il rapporto tra regime libero professionale e istituzionale è stato nel 2014, per le 34 tipologie soggette a monitoraggio, di circa 60 milioni di prestazioni in regime istituzionale a fronte di 4,8 milioni in libera professione, equivalente a 2 prestazioni ambulatoriali alla settimana per medico in LPI. La visita più richiesta è quella ginecologica con 592.000 prestazioni. Anche in questo caso è la scelta della donna per un professionista di fiducia che porta a preferire il regime libero professionale con percentuali superiori alla media (28%).
La LPI, pertanto, contribuisce a contenere il fenomeno delle liste d'attesa permettendo l'accesso ad un canale sostenuto dal lavoro aggiuntivo dei professionisti, spesso a costi calmierati e ad imposizione fiscale certa. Inoltre, essa rappresenta per le aziende sanitarie una delle possibilità per acquisire, con proprio personale, prestazioni aggiuntive a quelle istituzionali, anche in regime di ricovero, intercettando ed introitando denaro che altrimenti andrebbe ad alimentare il settore privato. In base ai dati pubblicati e riferiti al 2014, l'introito annuale globale è di circa 1,143 miliardi di €, di cui circa 400 milioni € sono incamerati dallo Stato come tasse, mentre la quota a favore delle aziende sanitarie è stata di circa 216 milioni di €. Meglio farne a meno?
Affermare poi che quello della libera professione sia il meccanismo principale che impedisce agli ammalati l'accesso equo ai servizi è un errore doloso. Dove lo mettiamo il rilevante taglio delle risorse destinate al finanziamento del Ssn dal 2011 al 2015? I 54 miliardi di tagli calcolati da Cittadinanzattiva non incidono sui diritti dei cittadini? I pensionamenti e le gravidanze del personale senza sostituzione, il massiccio taglio dei posti letto non degradano l'organizzazione dei servizi e non prolungano le liste d'attesa? La non corrispondenza tra bisogni dei cittadini e flussi finanziari centrali si traduce nelle singole aziende sanitarie in fatti molto concreti: oltre al blocco del turn over, abbiamo le limitazioni degli acquisti di beni e servizi (farmaci, protesi, device, kit diagnostici, kit chirurgici....), il mancato rinnovo delle tecnologie mediche, i ridotti investimenti in formazione del personale. Nessuno ha mai sentito parlare di taglio delle sedute operatorie per mancanza di risorse? Quanto pesa tutto ciò sui tempi d'attesa? Meno del diritto a effettuare la libera professione? E perché mai nessun Catone ne parla?
Il fatto è che al governo di questo fenomeno i medici hanno destinato nei Ccnnll tempo professionale sottratto all'aggiornamento (ben 3 milioni di ore di lavoro all'anno), il 5% del fatturato della loro attività libero professionale (50 milioni di euro all'anno) e la disponibilità di orario aggiuntivo ad un costo da classe operaia. Dispositivi che Regioni ed Aziende ovviamente si guardano bene dall'utilizzare per le liste di attesa, quando non distraggono i fondi per operazioni amministrative illegittime. E potremmo aggiungere che né Camera né Senato hanno voluto accogliere il nostro emendamento alla legge di bilancio 2017 teso ad estendere ad un piano nazionale per l'abbattimento delle liste d'attesa i benefici fiscali e contributivi previsti per l'incremento della produttività nel privato.
Eppure il D.Lgs 120/2007 promosso dal Ministro Livia Turco chiaramente stabiliva il progressivo allineamento dei tempi di erogazione delle prestazioni nell'ambito dell'attività istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di LPI, al fine di assicurare che il ricorso a quest'ultima fosse conseguenza di libera scelta del cittadino e non di carenza nell'organizzazione dei servizi resi nell'ambito dell'attività istituzionale. Non il contrario, come qualche solerte Governatore intende fare credere.
Se il fenomeno liste di attesa, per quanto fisiologico nei sistemi sanitari universalistici, sta raggiungendo livelli patologici, da vergogna, lo si deve al combinato disposto della contrazione del numero dei professionisti impiegati e delle attività istituzionali, sia in regime di ricovero sia ambulatoriale. Dirà qualcosa il calo di 9000 medici e di 31.000 infermieri tra il 2009 e il 2015, la riduzione delle attività chirurgiche di bassa complessità o il numero di posti letto più basso d'Europa? La colpa è della libera professione o dei Governatori e delle Aziende sanitarie?
Il lavoro medico non può essere considerato una variabile estensibile all'infinito, indipendente da riposi, durata, condizioni, retribuzione. Da pagare al massimo ribasso, de-capitalizzato e svalorizzato da Governi e Regioni, banalizzato in minutaggi da “Tempi Moderni”. Più lavoro medico significa più occupazione giovanile e più quantità e qualità delle prestazioni e minore tempo di attesa.
I dati illustrati dovrebbero fare piazza pulita delle tante leggende metropolitane messe artatamente in giro al solo scopo di impedire a medici dotati di elevate conoscenze professionali e sofisticate capacità tecniche di stare su un mercato, quello della spesa ”out of pocket” in campo sanitario, che evidentemente qualcuno vuole riservare solo al privato, “puro” o “sociale” esso sia. Una politica “tafazziana” in cui a vincere sarà solo chi sta fuori dal sistema. In fondo a questo tunnel c'è solo il buio di un Ssn povero per i poveri.
Non contestiamo che la percezione dei cittadini che attendono anni per accedere ad una prestazione sanitaria in diverse realtà del nostro Paese possa essere quella di un diritto negato, ma occorre rimuovere i fattori determinanti le attese tra i quali non figura la LPI. Rimaniamo convinti che i determinanti maggiori dei tempi d'attesa siano da ricercare nei ritardi del sistema di organizzazione ed erogazione delle prestazioni in regime istituzionale e nei cambiamenti demografici, epidemiologici e sociologici dei nostri tempi. Chiedere l'abolizione della LPI per la presenza di limitati comportamenti truffaldini è come chiedere la chiusura di tutte le gioiellerie per il riscontro di una quota più o meno importante di evasione fiscale in questo settore commerciale.
Infine una proposta concreta. Utilizziamo quanto Stato e Regioni incassano ogni anno dalla LPI, circa 600 milioni di €, in aggiunta ai 50 milioni derivanti dalla attività dei Medici in LPI, per finanziare un ampio e duraturo programma di riduzione delle attese attraverso un incremento dell'utilizzo orario degli ambulatori specialistici, delle attrezzature tecnologiche e delle sale operatorie. Lo strumento contrattuale è quello della libera professione in favore dell'azienda. La defiscalizzazione della remunerazione relativa, come già fatto per il settore privato, incentiverebbe questa forma di produttività aggiuntiva.
Insomma, il tempo di attesa zero per una determinata prestazione eseguita da un determinato professionista in una determinata struttura in sanità non esiste. Ma si può ricondurre alla fisiologia mettendo in campo nuove risorse. I medici, senza contratto da 8 anni, vittime di una flessibilizzazione estrema delle loro condizioni di lavoro, lasciati in prima linea a reggere la forbice tra domanda di salute crescente e risorse decrescenti, lo hanno fatto con tempo lavorativo e denaro. E gli altri?
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