Lavoro e professione
Risk, una normativa speciale per i medici «accerchiati»
di Stefano Palmisano (avvocato)
C’era un tempo in cui, quando un medico aveva cagionato lesioni o anche la morte di un paziente, se veniva chiamato a risponderne penalmente l’esclusione della colpa era la regola e l’imputazione colposa era l’eccezione che si configurava solo nelle situazioni più plateali ed estreme.
Questo è stato l’orientamento largamente maggioritario della Cassazione per un lungo periodo della storia giudiziaria di questo Paese. Trovava la sua base normativa in un articolo del codice civile, il 2236, che limita la responsabilità del prestatore d’opera (di solito, intellettuale), in caso di problemi tecnici di speciale difficoltà, al dolo e alla colpa grave. Attingeva la sua giustificazione formale nell’assunto per cui la scienza medica non individua in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo di cure, e in quello conseguente secondo cui l’errore di apprezzamento del medico è sempre possibile. E, soprattutto, aveva il suo fondamento sostanziale di politica del diritto nella nota visione paternalistica di quella stessa scienza: quella per la quale il medico era su un piano incomparabilmente più alto del paziente. Tanto da essere intangibile. Anche e soprattutto dalle conseguenze delle sue stesse azioni. Quell’impostazione, che veniva da lontano, era di dubbia compatibilità con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione Repubblicana. Tuttavia, ricevette anche il sostanziale avallo della Corte costituzionale, con la precisazione che il medico avrebbe beneficiato di quel trattamento di particolare riguardo processuale solo quando la sua manchevolezza avesse avuto a oggetto l’imperizia, e non anche la negligenza o l’imprudenza: le tre figure della colpa.
Poi accadde qualcosa di nuovo, nella società e, quindi, nel diritto. Da un lato, ci fu un autentico salto di paradigma nella relazione tra medico e paziente, con quest’ultimo che smise di essere un mero oggetto di cura, se non proprio di studio, del primo e ottenne finalmente dignità e diritti. Dall’altro, anche in questa materia fece irruzione, con tutta la sua radicale intolleranza verso qualsivoglia ipotesi di privilegio giuridicamente sancito, il su citato principio di uguaglianza.
Pertanto, pure nella giurisprudenza la musica cambiò totalmente. La Cassazione negò ogni rilevanza, in ambito penale, all’articolo 2236 del Cc e rigettò il principio della colpa grave come unico grado di colpa meritevole di sanzione penale: quando c’è colpa, di qualsiasi grado, (oltre, naturalmente, a tutti gli altri elementi del reato) c’è fatto illecito.
Questo ampliò significativamente i margini di tutela penale, quindi di tutela tout court, della salute delle persone. Siccome la storia non va necessariamente sempre avanti, e il diritto insieme a essa, da qualche tempo è tornata prepotentemente alla ribalta l’idea di una limitazione di responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie.
Non precisamente una novità rivoluzionaria, per quanto sopra accennato. Qualche anno fa iniziò la cosiddetta “legge Balduzzi”: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve».
Oggi, si prova a completare l’opera ricorrendo direttamente a un’altra vecchia conoscenza: la colpa grave. Solo in questo caso, infatti, sarà possibile condannare per lesioni o omicidio colposi «l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita».
In ogni caso, «è esclusa la colpa grave quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge». Così prevede, il disegno di legge «in materia di responsabilità professionale del personale sanitario» licenziato dal Senato, e che ora torna alla Camera. Sembrerebbe un autentico balzo all’indietro nella produzione normativa, per non dire negli stessi principi giuridici, di questo Paese. Quantomeno per due ordini di ragioni. La prima è quella per cui una conseguenza concreta di una legislazione di sostanziale immunità (o impunità, a seconda dei punti di vista) come quella del ddl in esame è la più che probabile apertura di, più o meno ampi, vuoti di tutela penale nei confronti delle vittime di errori medici. La seconda riguarda il solito, assai problematico, rapporto di questo tipo di normazione con il più volte rammentato principio costituzionale di uguaglianza.
Una normativa che, peraltro, risponde a un’ancestrale pulsione delle classi dirigenti autoctone, di cui quella medica è stata sempre un bastione: quella al diritto speciale, alla normativa di favore, per non dire all’insofferenza al controllo di legalità. Vocazione che ha trovato il suo più luminoso emblema nell’era recente della legislazione “ad qualcosa” di matrice berlusconiana: “ad personam”, “ad aziendam”...
Oggi, in sostanziale continuità con quell’aureo, e ormai consolidato, filone, si tratterebbe di normativa “ad professionem”.
Forse, è così. Forse, c’è anche dell’altro. Forse, la motivazione ufficiale di quest’ennesima “normativa speciale” stavolta un fondamento ce l’ha davvero: la cosiddetta “medicina difensiva”, il fenomeno per il quale i medici, ormai, sotto la pressione minacciosa di un contenzioso giudiziario crescente, sarebbero indotti a badare sempre più alla verginità del loro certificato dei carichi pendenti che alla reale cura dei loro pazienti.
A tal fine, obtorto collo, disporrebbero accertamenti clinici ed esami strumentali, somministrerebbero farmaci e prestazioni di dubbia utilità agli effettivi fini terapeutici del paziente pur di non esser tacciabili in alcun modo di negligenza o, soprattutto, imperizia.
In realtà, quella pressione sui medici sarebbe più nella loro percezione che nella realtà giudiziaria, almeno stando a un recente studio del dott. Brusco, ex presidente della Corte di cassazione, il quale ha rivelato che, quantomeno innanzi alla Suprema corte, il numero dei procedimenti in questa materia è enormemente più basso di quanto si pensi, o di quanto si voglia far pensare.
Come che sia, i camici bianchi si sentono accerchiati. Peraltro, la proliferazione di agenzie, botteghe, baracconi (anche di natura “legale”) che promettono risarcimenti “sicuri”, a costo zero e chiavi in mano per il cliente - danneggiato, vittima della “malasanità” è lì a dare supporto a quella sindrome da accerchiamento.
È quella che, in dottrina, è stata definita acutamente la “parafanghizzazione” della colpa professionale: la pretesa di ristoro di un presunto danno alla salute subito per mano di un medico alla stessa stregua di quello patito al parafango della propria autovettura a causa di un sinistro stradale più o meno univoco. Nella più complessiva e complessa questione in esame, quest’ultimo è un aspetto che sarebbe caricaturale, se non incorporasse una parte significativa dei problemi e delle sofferenze che sono consustanziali alla materia sanità, da tutte le parti in causa.
Forse, le normative speciali non sono la risposta migliore. Una risposta, però, bisognerà darla: ai diritti dei pazienti e alle istanze dei medici. Con le dovute differenze. È una questione di salute pubblica.
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