Lavoro e professione
Come prendere decisioni cliniche? Connessi e non isolati
di Luca De Fiore (Associazione Alessandro Liberati – network italiano Cochrane)
Mi alzo o aspetto la sveglia? Più calda, la doccia? Questa camicia o l’altra? Ogni giorno prendiamo circa trentacinque mila decisioni, contando solo quelle che implicano un minimo di consapevolezza. Se ti sembrano troppe, pensa che – secondo uno studio della Cornell University – più di duecento riguardano solo il cibo e quindi la gran parte delle decisioni è molto personale: dopotutto, se il caffè sarà amaro o con un cucchiaino di zucchero più o meno girato nella tazzina l’influenza sul budget del bar dove l’avremo ordinato sarà marginale. Un buon numero delle nostre scelte, però, potrà avere un impatto su altre persone: se a prenderle sarà un medico è anche possibile che pesino sulla vita di altre persone.
Quella di un professionista sanitario è una giornata piena di scelte: in media, ogni tre pazienti visitati vengono in mente due dubbi che nella metà dei casi riguardano la terapia. La maggior parte delle volte la decisione è affidata all’esperienza: l'ultima volta che mi è capitato qualcosa del genere e ho fatto in quel modo è andata bene? Così, si deciderà di essere più o meno prudenti o coraggiosi, più o meno conservatori o disponibili a riconsiderare i percorsi usuali. Ma l’esperienza può essere anche quella di un collega al quale chiedere – magari di fronte a un secondo caffè – cosa farebbe lui se dovesse gestire quel caso così complicato.
Dopotutto, decidere sulla base delle prove è difficile: dove trovarle, queste benedette evidenze? Su internet, d'accordo: ma la connessione in ospedale va e viene. E questo articolo del Jama non è conclusivo. Ci vorrebbe una cosa diversa, una sintesi, ma l’abbonamento a UpToDate non è stato rinnovato dalla direzione sanitaria. Anche quella è stata una decisione, in fin dei conti. Presa chissà da chi e sulla base di quali considerazioni.
Non che disporre di dati e informazioni metta al riparo dai dubbi. Anzi: talvolta la quantità dell'offerta finisce col disorientare. Sheena Iyengar insegna alla Columbia Business School e con alcuni divertentissimi studi ha provato che di fronte a ventiquattro tipi diversi di marmellata ci fermiamo ammirati: ma è molto meno probabile che compreremo quel vasetto che non avremmo avuto difficoltà a scegliere se le opzioni fossero state un quarto. È la stessa paralisi che ci prende di fronte all'offerta di spazzolini da denti, disorientati da marche, morbidezza, colore e forma. O davanti ai risultati di PubMed e la cosa è sicuramente più delicata, soprattutto per il malato che ha motivato la nostra ricerca.
Saliamo di un gradino: quanto più intensa è l’attività di ricerca, tanto più numerosi sono gli interrogativi che restano senza risposta. Questa anche è un’evidenza, di cui ogni ente finanziatore dovrebbe tenere conto: generare nuove domande è un effetto collaterale – o un'opportunità – anche della buona sperimentazione, perché – come sosteneva David Sackett – “the next research question logically follows the answer to your last one”. Spesso, poi, anche quando abbiamo accesso alle prove, non riusciamo a chiarire la complessità che ci troviamo davanti ricorrendo solo alle evidenze. Perché sono troppo deboli o poco credibili, o comunque inadatte a essere applicabili al vissuto di “quella” persona malata che abbiamo di fronte.
Anche di questo si parlerà il 31 maggio a Roma, alla Riunione annuale 2016 dell’Associazione Alessandro Liberati – network italiano Cochrane. Uno degli obiettivi della giornata è sottolineare l’importanza del metodo che dovrebbe sostenere il processo decisionale, raccontando alcuni progetti importanti come il GRADE (Grading of Recommendations Assessment, Development, and Evaluation), sviluppato a partire dal 2000 attraverso la collaborazione informale di clinici e ricercatori di diversi paesi che volevano definire un approccio sistematico alla valutazione della qualità delle prove, determinando così una “forza delle raccomandazioni” basata su criteri condivisi. Si parlerà anche del “cugino” del GRADE, il DECIDE (Developing and Evaluating Communication strategies to support Informed Decisions and practice based on Evidence): un progetto supportato dall'Unione europea per sviluppare e valutare strategie di disseminazione e comunicazione delle evidenze della ricerca, per contribuire a far prendere decisioni cliniche e di politica sanitaria basate su prove. Ancora, si discuterà del percorso seguito dalla World Health Organization per definire la nuova lista dei farmaci essenziali cercando di capire sia i criteri di inclusione, sia quelli di esclusione.
Sapere come produrre prove utili è infatti la premessa delle buone decisioni: un primo passo spesso trascurato. In assenza di un'agenda della ricerca definita sulle esigenze di salute dei cittadini e sui bisogni formativi degli operatori, l'intero servizio sanitario pubblico rischia di smarrirsi. Servizio sanitario che dovrebbe nutrirsi di ricerca non astrattamente “indipendente”: piuttosto, fortemente “dipendente” dagli obiettivi di salute e di cura determinati nella programmazione di ministero e Regioni. Ricerca che dovrebbe rappresentare un elemento importante di un apprendimento condiviso, multidisciplinare e partecipato del personale del Ssn. Si parla molto dell'empowerment del paziente che solo se “potenziato” sarebbe davvero engaged. Ma – anche volendo tralasciare il disagio di dover usare parole dal significato così sospetto – in assenza di politiche credibili che favoriscano un'autentica crescita professionale del medico, slegata da condizionamenti industriali, potrebbe determinarsi l'imprevisto scenario di una condizione di asimmetria informativa alla rovescia: a vantaggio del malato.
I risultati di un sondaggio svolto di recente nell'ambito del progetto Forward coordinato dal Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio sono sconcertanti: medici e farmacisti ospedalieri intervistati a proposito della medicina di precisione hanno mostrato una preparazione a dir poco approssimativa. Eppure: tra le notizie degli stanziamenti milionari e il moltiplicarsi delle relazioni congressuali, le occasioni per farsi un'idea non mancherebbero. Oggi ci troviamo di fronte a una strana situazione: grandi buchi di conoscenza convivono con un sovraccarico informativo che finisce col disorientare. Basti pensare all'inflazione di linee-guida sullo stesso argomento, caratterizzate da paragonabile autorevolezza della fonte (in senso positivo e negativo). Forse, proprio la grande disponibilità di notizie contribuisce a confondere le idee.
Quando disponiamo di troppe (vere o false) evidenze entrano in gioco i valori. Di fronte a un percorso diagnostico o a una terapia sulla quale ci sono pochi dubbi, la necessità di una decisione condivisa tra il malato e il curante è comunque opportuna ma, se vogliamo, meno “necessaria”. E' invece di fronte all'esitazione del clinico, alla necessità del secondo parere e alla permanenza di un'incertezza che lo shared decision-making diviene indispensabile. E diventa anche auspicato dal medico, che può vedere alleggerita la propria responsabilità. Di fronte a una reale o apparente equivalenza di più alternative, pesano maggiormente le aspettative del malato: a parità di esiti, una terapia domiciliare potrà essere preferibile al ricovero, in certe circostanze, o un trattamento gravato da minori effetti collaterali potrà essere scelto al posto di una terapia “innovativa” difficile da sopportare. Effetti, desideri, aspettative contano sempre di più al momento di prendere le decisioni e sempre più conteranno se la ricerca clinica non sarà concepita, disegnata, condotta e comunicata in modo più onesto e rigoroso.
Anche di valore e valori il medico italiano è poco informato. Un'altra indagine del progetto Forward ci dice che un medico su due non ne ha sentito parlare, quantomeno di recente. Eppure, l'American Society of Clinical Oncology, l'American Heart Association, l'American College of Cardiology hanno da tempo istituito delle task force dedicate a approfondire questi temi e hanno già prodotto documenti importanti e molto citati, utilissimi per il decision-making clinico e politico. In Italia qualche società scientifica, soprattutto in ambito oncologico, ha avviato una riflessione, ma siamo molto indietro.
Evidenze, esperienze, valori: tutto plurale perché la chiave di qualsiasi decisione è nella capacità di comprendere la complessità propria di ciascuna persona e moltiplicata dalle relazioni umane e sociali.
«L'autonomia è il vero empowerment», ha scritto Dave deBronkart su The BMJ. L'affermazione è ad effetto ma e-Patient Dave potrebbe non essere nel giusto: il vero empowerment è nel sapersi riconoscere parte di un contesto complesso e la saggezza è nel sapersi connessi e non isolati né autonomi.
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