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Manovra 2025/ Aziende Ssn: dalla legge di bilancio nessuna misura fiscale a favore. E continua il ricorso alle ’imposte sostitutive’ con i suoi effetti perversi

di Roberto Caselli

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24 Esclusivo per Sanità24

La Legge di Bilancio 2025 (Legge 30 dicembre 2024, n. 20, G.U. del 31.12.24 ) approvata dal Senato con l’ennesimo voto di fiducia, non ha portato, come del resto ampiamente prevedibile, alcuna novità fiscale positiva per i bilanci delle Aziende del Ssn,
Mentre il disegno di legge presentava il testo diviso in titoli e in articoli (divisi a loro volta in commi) correttamente titolati, cosa che consentiva di concentrare l’attenzione su argomenti specifici, il testo approvato prima dalla Camera e poi dal Senato, nella versione emendata in Commissione, presenta un articolato in due parti, con la prima composta da una sola sezione, un solo articolo e 908 commi distribuiti in 173 pagine, e la seconda costituita da una sola sezione con 21 articoli, tutti titolati, a loro volta divisi in commi.
Il commento sugli aspetti formali della Legge e sulla difficoltà di lettura appare superfluo.
Il Governo questa volta è intervenuto sull’Ires – imposta sul reddito delle società - riducendo l’aliquota dal 24% al 20%, solo per l’esercizio 2025, in attesa della riforma fiscale, per una quota del reddito di impresa, vincolata a a determinate condizioni, ma gli enti non commerciali ne sono esclusi (comma 436). Si accentua così la discriminazione fra sanità privata e sanità pubblica, anche nell’ambito di tale imposta, come se non bastasse quella macroscopica in materia di Irap: ricordiamo che il patrimonio immobiliare strumentale delle aziende pubbliche è colpito dall’Ires , mentre ne è esente quello delle imprese private.
Poteva essere l’occasione per eliminare la controversa e immotivata discriminazione fra aziende ospedaliere e aziende sanitarie territoriali in merito all’aliquota: mentre le prime usufruiscono della sua riduzione al 50%, nessun provvedimento è stato varato per una interpretazione autentica della Legge (punto a) dell’ articolo 6 del Dpr 601/73) per riconoscerlo anche alle seconde, come auspicato da anni; considerando che si tratta della stessa tipologia di patrimonio imponibile, cioè quello strumentale per i presidi ospedalieri , per gli ambulatori e per gli uffici, sarebbe logico ed equo un identico trattamento, che l’Agenzia delle Entrate si ostina a negare (nonostante la copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità); su questo tema nell’archivio di Sanità sono disponibili decine di servizi usciti negli ultimi vent’anni.
Neanche i Governi precedenti, peraltro, erano mai intervenuti su questo punto, assai controverso; ricordiamo che la discriminazione non è stata determinata da una Legge, ma da una Risoluzione ministeriale del 2002.
La manovra contiene anche un’altra misura che può interessare anche, sia pure in casi limitati, la rivalutazione dei terreni e delle partecipazioni (comma 30), e che sarà oggetto di uno specifico commento nei prossimi giorni.
La flat tax sugli straordinari agli infermieri
Il comma 352 prevede che “I compensi per lavoro straordinario di cui all’articolo 47 del contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto sanità relativo al triennio 2019-2021, erogati agli infermieri dipendenti dalle aziende e dagli enti del Servizio sanitario nazionale, sono assoggettati a un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali con aliquota pari al 5 per cento. L’imposta sostitutiva di cui al primo periodo è applicata dal sostituto d’imposta ai compensi erogati a decorrere dall’anno 2025”.
Le organizzazioni sindacali del settore hanno accolto con molto favore la decisione di tassare gli straordinari con una imposta sostitutiva (flat tax) del 5% e ciò viene da loro considerato un primo passo molto positivo per premiare poi anche l’impegno dei medici e degli altri operatori sanitari. Nessun dubbio che gli infermieri meritassero un riconoscimento economico a fronte del loro impegno, ma a parere di chi scrive, non occorreva derogare anche questa volta dalla Costituzione, venendo meno a due articoli fondamentali: quello dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla Legge (art. 3) e quello sulla progressività della tassazione (art. 53).
È molto preoccupante che ministri che hanno giurato sulla fedeltà alla Costituzione continuino a violarla con disinvoltura.
Anche in questo caso sarebbe bastato riconoscere un compenso lordo più alto (da coprire con maggiori finanziamenti al Ssn) in modo da accreditare lo stesso importo netto con il trattamento fiscale ordinario, e lo Stato avrebbe recuperato il maggior costo con maggiori entrate erariali.
Il problema vero, occorre sottolineare, non è tanto quello di pagare meglio gli infermieri, come pure i medici e gli altri operatori sanitari, ma finanziare assunzioni adeguate per coprire i vuoti creatisi negli ultimi anni, evitando cioè che gli stessi siano obbligati a lavorare con orari insostenibili, che a lungo andare possono incidere negativamente con la qualità dell’assistenza.
Questo escamotage costituisce comunque un ulteriore brutto precedente che potrà indurre, in futuro, altre categorie di lavoratori, pubblici o privati, magari invocando l’art. 3 della Costituzione (quello dell’uguaglianza fra i cittadini davanti alla Legge), lo stesso trattamento fiscale riconosciuto al personale infermieristico in questa occasione. Già la stessa Legge di Bilancio prevede un analogo trattamento, per il triennio 2025-2027, per i premi di produttività delle Imprese (comma 385) e inoltre, sia pure per nove mesi, nel settore turistico, ricettivo e termale (comma 395); innalza inoltre da 30.000 a 35.000 euro il reddito tassato ai fini Irpef, per lavoro dipendente o da pensione nell’anno precedente, che consente ai percettori di usufruire del regime forfettario per attività d’impresa e di lavoro autonomo ( comma 12).
Il crescente ricorso alla flat tax
Nel dibattito relativo alle misure fiscali da adottare con la Legge di Bilancio, era stata invocata, specialmente da una forza di Governo, un aumento della soglia massima di fatturato (ora di € 85.000), per i contribuenti che già usufruiscono della flat tax al 15%; dopo ampie discussioni nell’ambito della maggioranza, peraltro al di fuori delle aule parlamentari, la proposta non è passata.
Purtroppo questa tassazione, sostitutiva di quella ordinaria, non è stata introdotta per favorire le categorie di cittadini più fragili, ma al contrario soprattutto quelle economicamente più forti, oppure a particolari categorie di lavoratori autonomi.
Si tratta di un’anomalia, quella delle ormai numerose forme di flat tax, cioè di tasse “piatte”, vale a dire con aliquote fisse, indipendenti dal reddito complessivo, che ci allontanano sempre più dal dettato costituzionale, che prevede, come già sottolineato, la progressività delle imposte.
Ricordiamo che il criterio della progressività è attualmente seguito solo per l’Irpef (con un’aliquota massima del 43% per i redditi oltre 50.000 euro, contro quella del 72% prevista inizialmente dalla riforma fiscale del 1973 per i redditi oltre 500 milioni di lire), per cui riguarda essenzialmente i redditi di lavoro dipendente, quelli da pensione e una parte dei redditi da locazione di fabbricati (quelli cioè derivanti da locazione di immobili ad uso commerciale o a uso abitativo nel caso che i proprietari abbiano rinunciato alla “cedolare secca”), e dal reddito delle imprese individuali. Con questa legge di Bilancio è stata confermata al 35% l’aliquota sullo scaglione da 28.000 a 50.000 €.
Per tutti gli altri redditi sono in vigore aliquote “piatte”, sostitutive dell’Irpef e delle relative addizionali comunali e regionali (nonché delle imposte di registro e di bollo per le locazioni ad uso abitativo), che variano dal 10% al 26%, al di sotto cioè dell’aliquota minima prevista per l’Irpef.
In concreto, facendo un quadro semplificato, si parte dall’aliquota del 5% sui ricavi delle nuove attività di lavoro autonomo, e sugli straordinari degli infermieri, del 10% sui redditi da locazione immobili a uso abitativo, con canone concordato, stipulati attraverso accordi specifici fra organizzazioni di proprietari e inquilini, in comuni con carenze di disponibilità abitative e si arriva all’aliquota del 26% per i redditi da partecipazioni societarie, ed investimenti finanziari (Fondi, azioni, obbligazioni).
Altre aliquote per l’imposta “piatta” che interessano una platea importante di contribuenti, sono quella del 12,5% sulle rendite da titoli di Stato ed equiparati e quella del 15% sui ricavi da impresa, arti e professioni (fino al limite di 85.000 € di incassi), quella del 18% sulla rivalutazione di terreni e partecipazioni.
Una vera e propria giungla fiscale
Trattandosi di imposte sostitutive dell’Irpef e delle relative addizionali, i beneficiari non possono dedurre alcuna spesa, in quanto definita in via forfettaria per ogni singola tipologia di attività, né usufruire di detrazioni di imposta in misura fissa, né di deduzioni dal reddito; se usufruiscono contemporaneamente di reddito da lavoro dipendente o da pensioni, eventuali deduzioni e detrazioni potranno essere usufruite nei limiti di queste ultime tipologie di reddito ai fini Irpef.
Ricordiamo che i redditi assoggettati a Irpef sono tassati anche dalle addizionali comunali, che variano da 0,1% allo 0,80% (salvo deroghe) e quelle regionali che variano da un minimo dell’ 1,23% a un massimo del 3,33%; in presenza di gravi disavanzi nel settore sanitario, l’aliquota può essere maggiorata dalle Regioni fino allo 0,30%.
Gli effetti perversi della flat tax
Appare opportuno spiegare con esempi pratici quali sono gli effetti concreti di questa particolare forma di tassazione, che oltre a costituire un grave vulnus della Costituzione, costituisce un grosso volano di crescita dell’evasione fiscale e contributiva.
L’idea che se le aliquote delle imposte fossero più basse i contribuenti evaderebbero di meno è una favola che si sente ripetere da decenni da alcune formazioni politiche; chi, come chi scrive, ricorda le vecchie imposte “ante riforma fiscale del 1973”, sa bene che, per fare un solo esempio, l’I.G.E., imposta generale sui consumi - sostituita nel 1973, sia pure con un meccanismo diverso, dall’attuale IVA - che colpiva ogni passaggio di beni o di servizi, prevedeva un ‘aliquota del 3% (che solo negli ultimi anni di applicazione venne elevata prima al 3,3% e poi al 4%), la sua evasione era diffusissima.
Non c’è niente da fare; nel nostro Paese (ma non solo) chi propende per sfuggire al Fisco ha cercato sempre espedienti per pagare il meno possibile, non sentendosi moralmente impegnato a contribuire agli ingenti costi del Paese, magari incoraggiato da slogan usati, in un passato non molto lontano da nostri Presidenti del Consiglio, come “frugare nella tasche degli italiani” e in tempi più recenti da “pizzo di Stato”.
La “scienza delle finanze” che per decenni, anzi per secoli, ha studiato gli effetti di ogni singola imposta o tassa, per evitare discriminazioni fra contribuenti e distorsioni della concorrenza, è stata messa da parte, lasciando spazio all’improvvisazione e all’incompetenza, considerate ormai delle virtù, e così è nato un meccanismo fiscale che disincentiva l’aumento del volume di attività dei singoli. Ad esempio i contribuenti beneficiari del regime forfettario che superassero il tetto fissato – per il 2025 - per ricavi o compensi di 85.000 € perderebbero ogni beneficio.
In concreto un lavoratore autonomo o un piccolo imprenditore, se sono in procinto di superare tale tetto, sono fortemente disincentivati a continuare la propria attività fino alla fine dell’anno, a meno che non lavorino “ a nero” oppure, nella migliore delle ipotesi, rinviino il momento dell’incasso a anno nuovo. In questi i casi l’ Erario non incassa niente o incassa con un anno di ritardo.
Il regime forfettario, oltre a costituire una poco comprensibile sperequazione a danno dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, provoca anche una sorta di “indotto” di evasioni e di elusioni da parte dei soggetti ( altri lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, ma anche società), che forniscono beni o servizi al contribuente forfettario, che usufruendo di una detrazione percentuale fissa a fronte dei propri costi, non è tenuto a documentarli, per cui può esser indotto a non chiedere la fattura, risparmiando l’Iva , per lui non detraibile, e forse per usufruire di uno sconto.
Il rischio di incoraggiare l’evasione sanitaria. La scelta del regime forfettario fa perdere al contribuente la possibilità di una serie di deduzioni o detrazioni, che con il regime normale possono ridurre notevolmente il suo carico fiscale. Non gli servirà più, per esempio, la fattura dei medici specialisti e di odontoiatri, che peraltro capita spesso che propongano al cliente uno sconto, pur di non rilasciarla.
L’evasione nel settore sanitario, forse la più odiosa, visto che si basa sulla dipendenza psicologica dei pazienti nei confronti dei medici, rischia così di essere incoraggiata; la stessa evasione dell’imposta di bollo, per le fatture superiori a € 77,47 è ampiamente diffusa, ma quella sull’imposta sul reddito, va ad incidere, il più delle volte, sull’aliquota marginale del 43%, oltre alle addizionali regionali e comunali, con grave danno per l’Erario.
In pratica non serve più, al contribuente forfettario in regime di flat tax, neanche la fattura per la ristrutturazione del proprio appartamento, o semplicemente per il rifacimento di un bagno o per una porta blindata; sarà indotto a risparmiare l’Iva ed a ottenere uno sconto, visto che non potrà più contare sulla detrazione fiscale, sia pure diluita in dieci anni.
A loro volta chi accetta di fornire beni o servizi senza fatturazioni e con fatturazioni ridotte, è indotto a ridurre i propri costi evitando di chiedere fattura per l’acquisto di beni o servizi.
E così via. Mi fermo qui perche non vorrei, con questa critica, dare altre idee per evadere il fisco... Un altro aspetto estremamente negativo della flat tax è quello per cui i cittadini, per la quota di reddito soggetto alla stessa, non sono soggetti alle addizionali regionali e comunali , per cui pur essendo beneficiari di tutti i servizi loro forniti dalla propria Regione e dal proprio Comune, ma non contribuiscono affatto ai costi relativi. Ed anche quando una Regione è costretta ad aumentare l’addizionale per far fronte ai disavanzi della sanità pubblica, loro non ne sono toccati minimamente.


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