Dal governo
Il sistema emergenza fa 668. La mappa della rete dei pronto soccorsi in un Paese a tre velocità
di Lucilla Vazza
Sono 668 i presìdi che fanno l’ossatura del sistema italiano dell’emergenza-urgenza. Ben 106 strutture nella sola Lombardia, seguita da Sicilia, con 65 presìdi, e Campania che arriva a 63. Ma il dato dice tutto? No, affatto. Perché non è detto che più pronto soccorsi facciano più salute. Nella rilevazione aggiornata dal ministero della Salute sono presenti tutte le strutture della rete italiana dell’emergenza ospedaliera con l’elenco dettagliato dei Dea di primo e secondo livello, i pronto soccorso e i pronto soccorso pediatrico. Ma i dati da soli non bastano per fare i conti con il problema.
I numeri della rete
Nella mappa c’è un Paese con i famosi 21 mini sistemi sanitari, dove alle Regioni è demandata l’organizzazione concreta e, dunque, anche i requisiti minimi per strutture, tecnologie, organizzazione, personale. In Toscana ed Emilia Romagna il numero dei presidi per le emergenze sono rispettivamente 39 e 50. Sono pochi, sono tanti? In Toscana nessun pronto soccorso, ma solo Dea di primo e secondo livello, in Emilia 10 ps e tutti gli altri Dea 1 e 2. La Lombardia che ha un sistema fortemente integrato pubblico-privato su 106 strutture conta 50 pronto soccorsi, un numero che si spiega con la vastità del territorio. E allora che significa che in Sicilia su 65 strutture, 40 sono pronto soccorsi, e il resto Dea 1 e 2? Quasi la stessa proporzione in Campania dove i pronto soccorsi sono 29 su 63 (ma ha anche il più alto numero di ps pediatrici in rapporto al totale).
Sono pochi o tanti?
«Il pronto soccorso è la cartina di tornasole del sistema di cure. La fotografia del ministero non ci stupisce: è un’Italia a tre velocità con un Sud che arranca, alcune regioni in progress e le teste di serie, con la rete organizzata secondo la normativa con i Dea a fare da coordinamento» è la lettura di Sandro Petrolati, responsabile emergenze dell’Anaao-Assomed. «La mappa è utile perché mette a fuoco le differenze ma dev’essere una base propedeutica per il cambiamento che chiediamo a gran voce». E dunque è tutto da buttare? «Assolutamente no, ma il sistema va rivisto perché le linee guida del 1996 sono obsolete. In 20 anni è cambiato tutto, è cambiata la sanità e il Paese, è arrivata la specialità di medicina dell’urgenza e non solo. Serve una legge ad hoc che armonizzi la situazione a livello nazionale» spiega Petrolati.
Una rete piena di buchi
«La qualità del servizio di emergenza-urgenza si misura nella capacità di creare rete: dall’ultima ambulanza al più avanzato dei Dea 2. La legge c’è e lo prevede, ma ancora si viaggia a velocità diverse. Il ps è fondamentale perché è nel pronto soccorso che si deve stabilizzare il paziente per poi inviarlo eventualmente nei Dea se necessario, è lì che dovrebbero esserci i medici specialisti dell’emergenza in grado di intercettare l’urgenza. Spesso però qualcosa non va e il ps è un avamposto nel deserto, la misura dell’inefficienza», afferma con forza la presidente Fimeuc (Federazione italiana medicina di emergenza-urgenza e delle catastrofi), Adelina Ricciardelli, una lunga esperienza sul campo alle spalle. E allora chi fa meglio degli altri? Anche qui Petrolati fa chiarezza: «Stanno meglio quelli che sono partiti prima e hanno messo a punto il sistema coinvolgendo anche la medicina generale: Toscana, Emilia, Veneto e anche la Lombardia (pur con mille distinguo tra una e l’altra). Il Piemonte che era messo male si sta riorganizzando, il Lazio ha rifinanziato la rete, ma senza stravolgere il sistema, il Sud resta indietro, ma anche qui c’è chi sta lavorando come la Puglia».
Ma come la mettiamo con il paziente? Per Ricciardelli: «Il punto di partenza e di arrivo coincidono con l’equità nell’accesso alle cure. Il diritto del cittadino a ottenere la migliore assistenza possibile in ogni angolo del Paese» dice la presidente Fimeuc. «Abbiamo fatto molto negli ultimi anni sui percorsi per lo stroke (l’ictus) e per gli infarti, costruendo modelli che funzionano. Oggi e domani la sfida da raccogliere è quella delle patologie croniche e delle altre emergenze apparentemente banali rispetto a un infarto, ma che intasano i pronto soccorsi» dice la leader Fimeuc. «Spesso però è un problema che va oltre la politica gestionale “esterna”. La responsabilità degli intoppi può anche essere interna: a problemi nuovi si offrono soluzioni e prassi vecchie. Anche i medici devono riflettere e uscire da schemi paludati, mettendo in crisi modelli superati», chiosa Alessandro Vergallo, leader degli anestesisti rianimatori dell’Aaroi-Emac.
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