Europa e mondo
Covid e salute globale: perché nessuno si può salvare da solo
di Claudia Lodesani e Raffaella Ravinetto*
24 Esclusivo per Sanità24
Sono ormai 18 mesi che il virus del Covid19 è stato identificato in Cina. Da allora si è propagato pressoché ovunque: al 26 aprile, solo 14 paesi avevano registrato zero casi, di cui 12 sono isole, e una è la Corea del Nord. Questo restituisce una mappatura chiara della diffusione del virus, che da epidemia circoscritta ad alcuni paesi, si è rapidamente trasformata in pandemia; e la pandemia è stata effettivamente dichiarata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) l'11 marzo 2020. Il quadro epidemico che andiamo a descrivere è influenzato da molti fattori, ed in primis dalla capacità dei diversi paesi di individuare i casi di Covid19. Non tutti i paesi dispongono infatti di una capacità diagnostica adeguata. Questa dipende in primo luogo dalla possibilità di approvvigionarsi, e quindi dalla disponibilità di test diagnostici, ma anche dalla disponibilità di infrastrutture sanitarie adeguate e di personale qualificato, e in numero sufficiente, per realizzare i test. Purtroppo, poi, alcuni paesi hanno tentato di minimizzare il problema, adottando almeno inizialmente politiche sanitarie che miravano a limitare i test, per potere mostrare dati ufficiali rassicuranti, con numeri esigui di persone positive al Covid19.
Un fattore importante per comprendere la rapida propagazione del virus è l'indice di trasmissione di base, conosciuto come R0. Per il Covid19, l'R0 è stimato tra 3.3 e 5.7, mentre per l'influenza stagionale è stimato 0,9-2.1. Questo significa che Il Covid19 si propaga quasi 3 volte più velocemente dell'influenza, e quasi 2 volte più velocemente dell'Ebola (che ha un R0 compreso fra 1,5 e 2,5) e dell'HIV (R0 1,09-2,15). Si propaga invece meno rapidamente di alcune comuni malattie dell'infanzia, come la parotite (R0 10-12), il morbillo (R0 12-18), e la pertosse (R0 5,5).
La velocità di propagazione del virus, e il conseguente aumento estremamente rapido dei casi in un lasso di tempo molto breve, ha creato un sovraccarico di lavoro al sistema sanitario, sia a livello ospedaliero che a livello del territorio, e che non sempre si é riusciti a gestire. Per esempio, se osserviamo i dati registrati in Lombardia fra febbraio e marzo del 2020, noteremo che si è passati da poche decine di casi al giorno (metà febbraio) a più di 2000 casi al giorno nella prima settimana di marzo. Questo aumento inatteso ed esponenziale ha sovraccaricato gli ospedali. Va anche sottolineato come nella prima fase dell'epidemia, in Italia, venissero testate quasi esclusivamente le persone che si presentavano al Pronto soccorso e i loro famigliari. I test molecolari erano disponibili solo all'interno delle strutture sanitarie; la capacità di testare le persone a domicilio con i team specializzati era gravemente limitata dal loro sovraccarico di lavoro e non era ancora possibile effettuare una ricerca attiva dell'infezione nelle categorie a rischio. Inoltre, i test rapidi non erano ancora disponibili. In sostanza, le attività diagnostiche individuavano appena la punta dell'iceberg, composta quasi esclusivamente dai pazienti sintomatici e dal personale sanitario asintomatico o sintomatico. Questo rende i confronti tra l'andamento della pandemia nella fase iniziale e in quelle successive, imprecisi, e di difficile interpretazione se non si prendono in considerazioni queste differenze di contesto.
Ma l'elemento principale da considerare quando si parla di Covid19, e che non andrebbe mai dimenticato, è che si tratta di un virus nuovo, sconosciuto fino alla fine del 2019, di cui si stanno ancora scoprendo le caratteristiche. Medici e infermieri si sono trovati a far fronte alla pandemia, avendo a disposizione ben poche informazioni sul virus e sul quadro patologico che determina. All'inizio, ad esempio, non si avevano dati certi sulle vie di trasmissione, né sulle caratteristiche cliniche. Molte terapie sono state somministrate su basi empiriche, basati su esperienze di epidemie pregresse dovute ad altri virus come l'Ebola, in funzione di una limitata esperienza clinica, ed in assenza di dati rigorosi provenienti da sperimentazioni cliniche formali che in generale richiedono tempi lunghi per dare risultati attendibili. Tempi che all'inizio della pandemia, il personale sanitario non aveva. Era un po' come navigare a vista in un mare in tempesta.
Ma il mondo scientifico ha reagito rapidamente e con grande efficacia: in 18 mesi si sono fatti notevoli passi avanti nella conoscenza delle caratteristiche del Covid19; sono stati messi a punto nuovi test diagnostici più duttili, che permettono di realizzare più facilmente lo screening a livello della comunità; e sono stati sviluppati vari vaccini (dei quali parleremo successivamente in maniera più estesa). Tutto questo ha permesso di affinare le terapie sia domiciliari che ospedaliere. Dobbiamo comunque sempre ricordare che ancora non conosciamo tutto. Si tende spesso a dimenticarlo, perché la nostra società è abituata a dare molte certezze per scontate, e fatica ad accettare la non conoscenza. Ma è necessario rendersi conto che i tempi della ricerca sono lunghi, e che siamo ancora nella fase iniziale della storia del nuovo virus.
Ma al netto di queste considerazioni, la situazione della pandemia che osserviamo all'inizio di maggio del 2021 a livello globale è caratterizzata da grandi differenze fra diversi paesi e diverse regioni. Queste differenze sono legate, fra l'altro, alla disponibilità dei vaccini che, purtroppo, è gravemente sbilanciata nei confronti dei paesi ad alto reddito, con i paesi a basso reddito che restano i fanalini di coda.
Al 5 maggio, si erano registrati nel mondo 155.225.909 casi di Covid19, con 3.242.595 decessi. Il dato del 2.9% di letalità si riferisce alla letalità "grezza" (poiché non conosciamo il numero esatto dei positivi, non disponiamo di un esatto denominatore).
Covid in Italia e in Europa
Il numero totale dei casi confermati, al 6 maggio 2021, era in Italia di 4.070.000, con 122.694 decessi. L'Italia è stato il secondo paese, dopo la Cina, ad essere stata colpita in maniera estensiva dalla prima ondata della pandemia, iniziata nel marzo 2020.
La seconda ondata, a in realtà con dati molto più elevati della prima, si é verificata in corrispondenza dell'aumentata disponibilità di test diagnostici. Questa ha permesso di incrementare le strategie di screening, determinando così un'individuazione molto più precisa del reale numero di casi asintomatici, e di quelli seguiti a domicilio. Il numero assoluto dei decessi è rimasto sostanzialmente invariato, se confrontiamo l'apice della prima ondata, con 919 decessi registrati il 27 marzo 2020 (media settimanale: 743), e l'apice della seconda ondata, con 993 decessi registrati il 3 dicembre (media settimanale 741). Ma ci sono anche differenze importanti. Durante la prima ondata, l'epidemia era concentrata in alcune regioni del nord, mentre la seconda si è distribuita piú o meno omogeneamente su tutto il territorio italiano. La prima ondata è stata più breve, perché le misure di lockdown estremamente rigorose hanno permesso di diminuire significativamente la trasmissione, e dunque anche il numero dei ricoveri e dei decessi. Ma il lockdown stretto é percepito come non sostenibile a lungo termine. Per questo, i lockdown adottati durante la seconda e poi successivamente la terza ondata sono stati meno severi, e comunque affrontati dalla popolazione in una prospettiva diversa. Il miglioramento del numero dei contagi che iniziamo a constatare da alcune settimane, è dovuto a molteplici fattori. La vaccinazione ha sicuramente un impatto diretto sulla riduzione dei casi gravi, e quindi di decessi e ricoveri, ed in parte anche sulla trasmissione come dimostrato da recenti studi . Purtroppo le campagne vaccinali in alcuni paesi europei vanno più a rilento rispetto ad altri paesi che hanno avuto una disponibilità di vaccini più ampia, come il Regno Unito e Israele e che parallelamente hanno messo a punto strategie vaccinali diverse. All'8 marzo la copertura vaccinale (prima dose) di quest'ultimi due paesi risultava rispettivamente del 52% e del 62% della popolazione, mentre in Italia era del 27%. Ne è derivato un impatto positivo della vaccinazione su decessi e ricoveri: il Regno Unito, ad esempio, è passato da una media settimanale di 1200 morti al giorno tra metà gennaio e metà febbraio, a meno di 100 morti al giorno dalla seconda metà di marzo (attualmente 10). Stiamo comunque effettuando un confronto fra paesi ricchi, per la maggior parte dei paesi a risorse limitate, anche la copertura vaccinale dell'Italia sono al momento completamente fuori portata.
Covid nel mondo
Diamo ora uno sguardo alle altre regioni del mondo, per aree geografiche e di sviluppo economico. In questo momento, le cronache sono concentrate principalmente su India e Brasile, che stanno affrontando crisi gravissime che mettono i sistemi sanitari a durissima prova. Si parla invece molto poco di Africa, di America Latina, e di contesti con importanti crisi umanitarie come Yemen e Siria.
Recentemente la seconda ondata di Covid-19 ha raggiunto il nord-est della Siria. I casi confermati sono più di 15.000, tra cui almeno 960 operatori sanitari, mentre 640 sono stati i decessi. Secondo i team di Medici Senza Frontiere attivi in quest'area, il numero reale dei contagi sarebbe molto più elevato di quanto riportato dai dati ufficiali, perché le persone continuano ad avere difficoltà nell'accesso ai test diagnostici e ai servizi sanitari. Ad un anno dal primo caso di Covid-19 registrato in questa zona, la risposta sanitaria è ancora decisamente insufficiente: mancano presidi sanitari per la protezione individuale, in particolare dello staff che lavora negli ospedali, e che deve far fronte a un costante aumento del numero di casi; manca l'ossigeno; la presa in carico adeguata dei pazienti è difficile anche per la mancanza cronica di farmaci essenziali. Inoltre, i piani vaccinali per gli operatori sanitari che lavorano in prima linea, e per la popolazione generale, restano vaghi. Mentre la maggior parte dei medici ed infermieri dei paesi ad alto reddito sono già vaccinati, nel nord-est della Siria il piano vaccinale si è arenato, tra gli impegni poco chiari della comunità internazionale, ed una capacità gestionale e logistica insufficiente. Secondo le autorità sanitarie locali, sarebbero al momento previsti solo 20.000 dosi di vaccini per un'area che ospita 5 milioni di persone, e non è nemmeno chiaro se e quando quei vaccini verranno effettivamente consegnati. La popolazione del nord-est della Siria già da anni soffre per una cronica mancanza di accesso a cure mediche, acqua e servizi igienico-sanitari adeguati, e la seconda ondata della pandemia non fa che esacerbare e acuire la loro precedente vulnerabilità. Nelle strutture di trattamento Covid19 supportate da Medici Senza Frontiere, il tasso di mortalità é in aumento, mentre i servizi sanitari sono spinti al limite delle loro capacità. Tragicamente, il 70% dei pazienti ricoverati avrebbero bisogno di ossigeno, che però resta insufficiente a coprire tutti i bisogni.
In maggio, la situazione a Gaza è sempre più preoccupante. I casi di Covid19 sono in costante aumento: tra marzo e aprile, si è passati da meno di mille casi a settimana a oltre mille al giorno, con un incremento allarmante dei contagi tra gli operatori sanitari. La seconda ondata ha già superato la prima per gravità dei casi e per numero di pazienti, e gli ospedali faticano ad affrontare la situazione. Il blocco economico di lunga data imposto da Israele ha danneggiato gravemente il sistema sanitario di Gaza, privandolo delle risorse necessarie per rispondere alle necessità della popolazione- e questo ancor più nel corso di una pandemia globale. Attualmente, oltre il 60% dei casi di COVID nei Territori Occupati sono stati registrati a Gaza. A fine aprile, solo il 5% circa dei palestinesi era stato vaccinato, e molti operatori sanitari non hanno ancora nemmeno ricevuto la prima dose di vaccino. L'aumento dei contagi sembra essere legato alla presenza della variante inglese del virus, più contagiosa, che si è diffusa in Cisgiordania all'inizio dell'anno, sovraccaricando di pazienti gli ospedali. Anche se era stato previsto un aumento dei casi a Gaza, rispondere in modo efficace alla pandemia resta una sfida difficile per dei sistemi di salute fragili, debilitati da anni di crisi, e dotati di risorse molto scarse.
Molti paesi del continente Sudamericano sono stati fortemente colpiti dalla pandemia di Covid 19, letteralmente stritolati tra le differenti varianti del virus (ricordiamo quella brasiliana che tanto spaventa l'Europa) e il negazionismo di alcuni leader politici. Il caso più emblematico e sicuramente più preoccupante è quello del Brasile. A più di 12 mesi dall'inizio dell'emergenza Covid19, non esiste ancora una risposta sanitaria pubblica efficace e coordinata all'epidemia. La mancanza di volontà politica di rispondere in modo adeguato, sta uccidendo migliaia di brasiliani, e determinando il collasso del sistema sanitario. Molteplici sono stati gli appelli lanciati alle autorità brasiliane per chiedere di riconoscere la gravità della crisi e predisporre un sistema centrale di risposta e coordinamento all'emergenza per prevenire ulteriori morti evitabili, ma per il momento non hanno sortito effetti tangibili. In aprile, i brasiliani rappresentavano l'11% della popolazione mondiale contagiata dal Covid-19, e il 26,27% dei decessi globali. Solo nella giornata dell'8 aprile, si sono registrati 4.249 decessi e 86.652 nuovi contagi. Le misure di sanità pubblica sono diventate un oggetto di contenzioso nel quale gli interessi politici prevalgono sulle indicazioni degli esperti e sull'imperativo di proteggere individui e comunità. Il governo federale ha rifiutato di adottare linee guida di salute pubblica adeguate, lasciando il personale medico solo di fronte all'aumento esponenziale dei casi. Contagi e morti si moltiplicano anche a causa della disinformazione che circola nelle comunità rispetto all'uso delle mascherine, del distanziamento fisico e delle limitazioni ai movimenti.
L'idrossiclorochina e l'ivermectina, raccomandate da alcuni politici come panacea per il Covid-19, vengono prescritte sia come profilassi che come trattamento, in assenza di dati scientifici a supporto (in particolare, l'inefficacia della clorochina per la profilassi e la terapia del Covid19 é stata ampiamente dimostrata da studi scientifici). A peggiorare la situazione, in un paese che era stato capace nel 2009 di vaccinare 92 milioni di persone contro l'H1N1 (influenza suina) in soli tre mesi, la campagna di vaccinazione Covid19 procede a rilento. Solo l'11% della popolazione ha ricevuto una dose di vaccino, mentre nel paese circolano differenti varianti del virus .
Come la prima ondata, anche la seconda ondata ha colpito l'India alcuni mesi dopo l'Europa. L'inizio dell'aumento dei casi si é verificato tra fine marzo e inizio aprile, ma la crescita è stata repentina. Nelle ultime settimane si registra una media giornaliera (calcolata sulla settimana) di 385-390.000 casi, con circa 3800 morti al giorno. Le immagini dei corpi cremati per strada ci riportano alla memoria le immagini dei camion che trasportavano le salme delle persone decedute di Covid19 nella provincia di Bergamo, poco piú di un anno fa. Le autorità hanno reagito con misure di lockdown nelle zone maggiormente colpite, ma il sistema sanitario è ormai in carenza di tutto, compreso ossigeno e medicinali. Anche qui, la campagna di vaccinazione va a rilento, non tutto il personale sanitario è stato vaccinato e le dosi disponibili sono insufficienti anche a coprire i soli gruppi a rischio.
Medici Senza Frontiere opera da anni in India, con progetti dedicati alla tubercolosi e all'HIV, e i nostri operatori sono testimoni angosciati delle conseguenze che la pandemia sta avendo sui pazienti affetti da altre patologie. Abbiamo imparato in occasione delle epidemie di Ebola in Africa che i "morti indiretti" causati dalle epidemie sono almeno altrettanto numerosi dei morti "diretti''. Oggi, in India, moltissimi pazienti non hanno piú accesso a ospedali e centri di salute per la prevenzione, la diagnosi e la cura di altre patologie, non legate al Covid19. I sistemi sanitari sono costretti a concentrarsi sulla risposta alla pandemia, e molte strutture soccombono, schiacciate dal numero dei casi e dalla scarsità delle risorse. In questo modo, vengono messi a rischio tutti i progressi degli anni precedenti, senza che se ne parli. É la stessa dinamica riscontrata in molti paesi africani: le campagne di distribuzione delle zanzariere, quelle di vaccinazione contro il morbillo, e molte altre attivitá preventive di salute pubblica, subiscono rallentamenti e interruzioni. Questa crisi rischia di tradursi in un aumento drammatico delle morti "indirette'' causate dal Covid19, in particolare tra i bambini di età inferiore ai 5 anni.
Questa breve panoramica della situazione mondiale, ci ha mostrato le differenze che esistono fra il Nord e il Sud del mondo nelle capacitá di risposta alla pandemia. Ma nessun paese sará al sicuro, fino a che il virus continuerá a esistere in altre parti del mondo. É quindi urgente passare da un approccio nazionalistico a un approccio di salute globale. Abbiamo visto che la lotta al covid si basa su vari fattori: le misure da adottare nelle comunità, come l'uso della mascherina e il distanziamento fisico; la capacità di effettuare i test diagnostici e di identificare i contatti dei casi positivi, il rafforzamento dei sistemi sanitari territoriali per sostenere il sistema ospedaliero attraverso la presa in carico domiciliare o comunitaria e, naturalmente, le campagne di vaccinazioni.
*Claudia Lodesani, presidente di MSF Italia
Raffaella Ravinetto, Istituto di Medicina Tropicale di Anversa, ed ex presidente di MSF Italia
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