Dal governo

Pubblico impiego: sul rinnovo del contratto avanza l’ipotesi di un referendum tra i lavoratori

di Stefano Simonetti

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24 Esclusivo per Sanità24

Quello che è accaduto la settimana scorsa con il rinnovo del contratto degli statali sta assumendo un rilievo e un’eco molto maggiori di quanto, in fondo, la vicenda di per sé comporti. Si tratta di un contratto collettivo – peraltro ancora sotto forma di Preintesa – che riguarda 195.000 lavoratori (il 6 % circa dei dipendenti pubblici) e in altri tempi la notizia non avrebbe avuto la risonanza e i commenti che sono invece sorti oggi. Non si contano gli interventi a difesa o a contrasto della stipula, anche da parte di chi normalmente non segue direttamente gli eventi contrattuali del pubblico impiego. Riporto random le frasi più significative che riassumono, equamente suddivise, le posizioni contrapposte: “Incrementi e innovazioni importanti”, “Statali, un contratto di svolta”, “Più smart working e settimana corta per attrarre i giovani”, “Grande soddisfazione per la firma”, “Chi non firma produrrà ritardi nei futuri contratti”, “Il contratto in solitaria è realtà”, “Firmato il contratto statali senza CGIL-UIL”, “Se il contratto va bene lo decidono i lavoratori”, “Solo la CISL firma il rinnovo del contratto”, “Contratto statali, firmato il rinnovo (ma senza CGIL e UIL), “Sindacati divisi sul CCNL”.

La ragione di tale diffusa mediaticità risiede, con ogni evidenza, nella circostanza che il CCNL è stato firmato da quattro sigle sindacali su sette con un percentuale di rappresentatività pari al 53,71% ma, come ho già precisato nell’articolo del 7 novembre scorso, la stipula è assolutamente legittima e conforme alle regole della dialettica sindacale. La questione non è giuridica o normativa, ma prettamente politica e costituisce una rappresentazione allegorica di quanto sia spaccato il mondo sindacale, considerati anche l’indizione dello sciopero del 20 novembre e l’atteggiamento nei confronti della Legge di Bilancio 2025. Non è certo una novità assoluta l’incrinatura dei rapporti tra le tre confederazioni e, senza risalire agli anni ’70 e ’80 – la preistoria, in tal senso –, si dovrebbe rammentare che l’ultima volta che i tre sindacati si sono divisi risale al 2009 e, storicamente, è considerato uno dei demeriti (o dei meriti, secondo il punto di vista) dell’allora ministro Brunetta. Nel dettaglio si ricorda che l’atto fondamentale per le relazioni sindacali e la contrattazione collettiva, sia nel privato che nel pubblico, fu l’Accordo-quadro sugli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, detto Accordo Frattini, che sostituiva il precedente protocollo del 23 luglio 1993 e costituisce tuttora il riferimento fondamentale per la negoziazione; ebbene, quel testo non venne firmato dalla CGIL. Tutto sommato quello che è successo non è certo un inedito perché più volte l’unità sindacale è stata incrinata o addirittura rotta. Le posizioni sono sempre piuttosto ricorrenti e standardizzate: da una parte sigle più radicali che non vogliono contratti al ribasso o svendita di diritti e, dall’altra, sigle più conservatrici ispirate da una realpolitik sindacale che preferiscono certezze piuttosto che fughe in avanti a volte avventuristiche. Che poi tali differenti impostazioni strategiche siano da ricondurre a atteggiamenti filo governativi o di opposizione, lo testimoniano la storia recente di questo Paese. Insomma, per essere espliciti, si tratta, banalizzando, dell’eterno dilemma dell’uovo oggi o della gallina domani. Questa logica è possibile trovarla anche nella dichiarazione congiunta n. 8 contenuta nel contratto di cui si parla, laddove si legge che “Le parti torneranno ad incontrarsi, dopo la definitiva approvazione ed entrata in vigore della legge di bilancio, qualora la stessa sia approvata con modifiche rispetto ai contenuti attualmente noti che rendano necessaria una revisione delle disposizioni contrattuali”.

Nel commento al contratto fatto con l’articolo citato sopra, avevo avanzato alcune osservazioni che non sono state gradite da qualcuno. Le mie osservazioni non erano certo dirette ad una persona fisica particolare ma, semmai, ad entrambe le controparti firmatarie perché il CCNL è un atto pattizio e non un atto personale: le scelte negoziali sono da attribuire in modo paritario a tutti coloro che firmano il testo. Tuttavia, definire un testo “scarno e impalpabile” è una valutazione oggettiva, se si tiene conto della lunghezza del testo e del fatto incontrovertibile che, al netto di clausole di pura immagine, il CCNL eroga quanto dovuto in base all’IPCA (5,78% del monte salari, senza nemmeno l’immediato riconoscimento dell’ulteriore 0,22%) ed effettua una mera manutenzione di norme pregresse. E, a tale proposito, ripropone una clausola sulla monetizzazione delle ferie non fruite che non tiene conto della sentenza della CGUE del gennaio scorso ma, soprattutto nei contenuti della dichiarazione congiunta n. 5, appare davvero obsoleta. Per ciò che concerne i termini inglesi, avevo premesso che si trattava di una battuta per indurre un sorriso - quanto mai opportuno all’interno di un dibattito che spesso è andato sopra le righe - e in ogni caso gli anglicismi non sono affatto invisi al sottoscritto bensì ad un importante esponente della maggioranza, autore del disegno di legge.

Lo scenario descritto si potrebbe replicare nel contratto del comparto Sanità ? Innanzitutto va ricordato che è già successo nel 2018 ma in circostanze oggettivamente diverse. All’epoca, la sigla dissidente era solo una su sette - anche se al momento della Preintesa erano tre i sindacati non firmatari - e il CCNL del 21.5.2018 venne firmato con una maggioranza dell’89,5 % (e una sigla firmò successivamente per adesione). Inoltre, i tre sindacati ricordati sono autonomi mentre i confederali firmarono sia la Preintesa che il contratto definitivo.

La situazione odierna non è molto dissimile, considerato anche quanto il Ddl Bilancio prevede per le risorse extracontrattuali degli infermieri: 11 € lordi mensili di incremento della indennità di specificità infermieristica che, tra l’altro, per come è scritta la norma, difficilmente potranno trovare spazio nel contratto relativo al triennio 2022-2024, visto che nell’art. 63 si precisa “nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale …..per l’anno 2025”.

È difficile fare previsioni in tal senso e forse sarà determinante l’esito dello sciopero indetto per il prossimo 29 novembre, ma anche – come ho più volte segnalato – le scelte strategiche collegate alle elezioni delle RSU della prossima primavera nonché alla rilevazione delle adesioni al 31.12.2024 ai fini del riconoscimento della maggiore rappresentatività per il triennio 2025-2027, unitamente ai dati elettorali.

Tornando al contratto degli statali, può essere interessante ipotizzare gli scenari che si potranno presentare. Da notizie di stampa si è parlato di un referendum e, sul piano strettamente giuridico, qualcosa si può dire. Ovviamente non si tratta di una ipotesi di referendum abrogativo, equivoco che potrebbe plausibilmente sorgere per il fatto che il sindacato proponente è lo stesso che ha lanciato il referendum su una parte del cosiddetto Jobs Act. Si tratta invece dello specifico strumento sancito nello Statuto dei lavoratori come forma di democrazia diretta “su materie inerenti all’attività sindacale”.

I sindacati che non hanno sottoscritto la Preintesa delle Funzioni centrali potrebbero ricorrere al referendum certamente non per annullare il contratto firmato dalle altre sigle ma per consultare tutti i lavoratori - non soltanto, quindi, gli iscritti - sulla opportunità o meno di firmare il testo definitivo ovvero per condizionare anche le altre sigle alla luce dei risultati che si ricaverebbero dalla volontà dei lavoratori. Se si tratta di questo, occorre segnalare alcuni aspetti. L’art. 21 della legge 300/1970 ha imposto al datore di lavoro l’obbligo di consentire lo svolgimento, fuori dell’orario di lavoro, di referendum indetti “da tutte le rappresentanze sindacali aziendali”, rinviando ai contratti collettivi la possibilità di definire ulteriori modalità per lo svolgimento degli stessi. Proprio in relazione a questa eventuale delega, si deve segnalare che, con riguardo al settore pubblico, i contratti quadro non hanno mai introdotto alcuna ulteriore norma sull’istituto in questione, né contengono la disciplina della fattispecie in esame. La conseguenza è che si applica direttamente l’art. 21 ma con una particolarità forse inquietante. Qualora il referendum venga indetto da parte di una sola organizzazione sindacale non è riconducibile all’art. 21 dello Statuto dei lavoratori e, quindi, nessun adempimento è previsto per le amministrazioni. Questa è la posizione assunta dall’ARAN con l’Orientamento applicativo M135 del 25.9.2011 che conclude il parere precisando che “ciascuna amministrazione potrà valutare se il referendum indetto possa essere ricondotto, con l’accordo dell’organizzazione interessata, ad altri istituti contrattuali di consultazione”. Si potrebbero allora configurare delle difficoltà per la (o le) sigle che indiranno l’annunciato referendum. Nondimeno, rispetto agli strumenti previsti nel 1970, si dovrebbe ritenere che attualmente una consultazione di tutti i lavoratori, anche senza la collaborazione delle amministrazioni, sia praticabile comunque grazie alle tecnologie di comunicazione, impensabili cinquanta anni fa.

Solo per completezza vorrei ricordare due precedenti referendum che hanno segnato la storia delle relazioni industriali in Italia, ma che non riguardavano direttamente il pubblico impiego. Il primo, questo si abrogativo, è quello sulla scala mobile del 1984 che vide un 54,32& di NO, cioè di conferma del decreto Craxi. Il secondo, di natura consultiva, risale al gennaio 2011 e vide la FIOM rivolgersi a tutti i lavoratori della FIAT sulla questione della firma del contratto integrativo. Questo secondo evento, che diede il risultato del 54% di SI – cioè a favore dell’accordo – in ogni caso molto meno ampio di quanto le rispettive posizioni sindacali inducessero a pronosticate, somiglia molto alla vicenda odierna del contratto degli statali. Una curiosità, quasi cabalistica, è infine quella dei numeri: sia nella vicenda odierna che nei due referendum ricordati il risultato è stato sempre intorno al 54 %.


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