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Professioni sanitarie, dalle Regioni le linee guida sul lavoro "privato" tra incompatibilità e gestione delle liste d'attesa

di B. Gob.

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24 Esclusivo per Sanità24

Professioni sanitarie: le Regioni dettano le loro indicazioni sui criteri di svolgimento dell'attività consentita dall'articolo 13 del Dl 34/2023 convertito dalla legge 56 del 26 maggio scorso. Lo fanno con un documento approvato all'unanimità in Commissione Salute e di cui chiedono la massima divulgazione locale, che ha la funzione innanzitutto di portare chiarezza "a fronte del carattere piuttosto generico e lacunoso della previsione legislativa". E ferma restando la possibilità per le singole amministrazioni e aziende di scelte diverse sempre in questa cornice.
Innanzitutto, il "dove": l'extra officio potrà avvenire solo "al di fuori dell’azienda o ente di appartenenza, con esclusione di qualsiasi attività professionale intra moenia, per il cui esercizio servirebbe una formale previsione legislativa". Mentre "va ritenuto ammissibile il conferimento di incarichi libero professionali da parte di altre strutture pubbliche, anche del Ssn, e l’instaurazione di rapporti di lavoro autonomo con strutture private anche accreditate". Così come l’esercizio di attività libero professionali a favore di singoli utenti. Non solo: interpretando letteralmente la norma, si deve ritenere "non possa essere esclusa la possibilità di instaurare rapporti di dipendenza con altre strutture pubbliche o private, salvo poi valutarne la compatibilità in sede di rilascio dell’autorizzazione ed in fase di esecuzione della prestazione per le probabili interferenze con l’organizzazione dell’Azienda datore di lavoro".
Poi, il "cosa": secondo le linee d'indirizzo delle Regioni le attività extra possono essere esclusivamente quelle riconducibili alle professioni sanitarie per le quali, indipendentemente dal profilo di inquadramento, gli interessati siano abilitati.
Infine, il capitolo "autorizzazione" - per cui andrà previsti un apposito regolamento aziendale - riferito ai tre vincoli posti dall'articolo 3-quater del Dl 127/2021 per il rilascio del via libera: a) l’attività deve garantire prioritariamente le esigenze organizzative del Servizio sanitario nazionale; b) deve essere verificato il rispetto della normativa sull'orario di lavoro; c) l’organo di vertice dell’amministrazione di appartenenza deve attestare che non sia pregiudicato l'obiettivo aziendale relativo allo smaltimento delle liste di attesa, anche conseguenti alla pandemia. L’ente di appartenenza - chiedono le Regioni - dovrà verificare che l’attività da autorizzare sia compatibile con l’orario di lavoro e l’orario di servizio del dipendente e più in generale con l’organizzazione aziendale e non sia quindi, tra l’altro, di ostacolo alla programmazione e all’effettuazione dei turni di lavoro e a quelli di pronta disponibilità". Mentre quanto al rispetto dell'orario di lavoro di cui al Dlgs 66/2003 e ai Ccnl il dipendente "dovrà, in sede di richiesta di autorizzazione, assumere l’impegno circa il rispetto della predetta normativa" e, con cadenza periodica (ogni due o tre mesi) presentare nel corso dell’attività una dichiarazione sostitutiva (...) comprovante il rispetto dell’impegno assunto". Non si ritiene rilasciabile l’autorizzazione nei confronti dei dipendenti che siano a tempo parziale.
Infine, sul terzo "paletto", il no all’autorizzazione richiesta dal dipendente in rapporto all’obiettivo aziendale relativo allo smaltimento delle liste di attesa, "non può essere giustificato solo dall’esistenza di situazioni di criticità connesse al superamento dei tempi di erogazione delle prestazioni all’utenza rispetto ai termini fissati dalle regioni, ma dalla circostanza che, concretamente, l’esercizio dell’attività extra officio possa pregiudicare i piani aziendali di recupero di tali prestazioni. Pertanto, qualora i piani in parola richiedano, come di norma, la resa di orario aggiuntivo, il dipendente dovrà dichiarare la disponibilità in via preventiva alla sua effettuazione"."In ogni caso - si legge nel documento - il diniego all’autorizzazione deve essere fondato su motivi oggettivi, che devono essere esplicitati in una adeguata motivazione, in modo di dar conto dell’esistenza dei presupposti che consentono il rifiuto e, in generale, del rispetto dei criteri di correttezza e buona fede".


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