Aziende e regioni
Welfare sempre meno sostenibile: i motivi della crisi e le possibili leve per affrontarla
di Claudio Testuzza
24 Esclusivo per Sanità24
L’Italia sta affrontando un rapido e significativo cambiamento demografico. Secondo i dati Istat la quota di cittadini con età superiore ai 65 anni si aggira intorno al 25% della popolazione. Dato che pone il nostro Paese fra le nazioni più anziane al mondo, e le proiezioni indicano che questa percentuale continuerà a crescere nei prossimi decenni. Questo trend inevitabilmente influenzerà il risparmio, i consumi e la domanda di servizi sanitari e assistenziali a lungo termine. Inoltre l’aumento del rapporto tra pensionati e soggetti in età lavorativa potrà metter in difficoltà i conti pubblici e soprattutto il sistema previdenziale. Secondo l’ultimo rapporto del Think Tank Welfare Italia, presentato in ottobre, il welfare assorbe quasi il 59% della spesa pubblica, oltre 640 miliardi di euro. Quasi la metà di queste risorse va alla voce previdenziale. Con un’incidenza oltre i 16 punti di Pil, siamo primi tra i big-four europei (Germania, Francia, Spagna e appunto Italia). Nonostante la pandemia abbia innescato un ciclo di aumento degli impegni in tutte le componenti della spesa per il welfare, restiamo in valori assoluti 140 miliardi sotto la Francia e e 279 sotto la Germania.
Gli andamenti di finanza pubblica degli ultimi anni, segnalano che il gettito delle imposte dirette italiane va quasi tutto impegnato per finanziare sanità e assistenza. La possibilità di garantire uno stato di benessere complessivo a tutti i cittadini è sempre più limitato e limitante per lo Stato. Il Welfare pubblico, o semplicemente Welfare, si riferisce al sistema di protezione sociale messo in atto da un governo per garantire il benessere e la sicurezza economica dei suoi cittadini. Tale sistema può comprendere una serie di servizi e programmi pubblici, tra cui assistenza sanitaria, sussidi di disoccupazione, pensioni, assistenza sociale, istruzione pubblica e altri programmi di sostegno.
L’obiettivo del Welfare pubblico è quello di ridurre la povertà, promuovere la giustizia sociale e garantire un livello minimo di benessere per tutti i membri della società, specialmente per coloro che sono vulnerabili o in difficoltà economica. In sostanza, il Welfare pubblico è pensato per migliorare progressivamente le condizioni di vita dei cittadini, ossia il loro welfare state, traducibile con “Stato del benessere”. Termine entrato in uso in UK durante la 2° guerra mondiale e oggi tradotto in italiano come stato assistenziale - con sfumatura però negativa - o stato sociale. In molti paesi, il Welfare pubblico è un elemento fondamentale della politica sociale ed economica e spesso riflette le priorità e i valori della società riguardo alla solidarietà e alla protezione dei cittadini più deboli. Tuttavia, ci sono variazioni significative nei sistemi di Welfare tra i diversi paesi, in termini di estensione dei servizi offerti, modalità di finanziamento e approcci alla distribuzione di aiuti.
Spesso quindi il Welfare Pubblico da solo non basta.
Il Welfare Pubblico è gestito e finanziato dal governo o da enti pubblici. I servizi e i benefici sono offerti a tutti i cittadini o a determinate categorie di cittadini in base a criteri definiti dalla legge. Le risorse per finanziare il Welfare pubblico provengono principalmente dalle tasse e possono essere distribuite attraverso programmi governativi centralizzati o decentralizzati. Gli esempi includono assistenza sanitaria pubblica, sussidi di disoccupazione, pensioni statali e assistenza sociale.
Il Welfare Pubblico e il Welfare privato si differenziano principalmente per il soggetto responsabile dell’erogazione dei servizi e dei benefici.
Il Welfare Privato è gestito e finanziato da organizzazioni non governative, come aziende, organizzazioni religiose, fondazioni, o da individui stessi. I servizi e i benefici sono spesso offerti in base all’adesione volontaria o al pagamento di premi o quote associative. Le risorse per finanziare il Welfare Privato provengono da diverse fonti, come contributi dei membri, donazioni, rendite di investimenti o altre forme di finanziamento privato. Gli esempi includono piani pensionistici aziendali, assicurazioni sanitarie private, fondazioni di beneficenza e organizzazioni di volontariato.
Ogni Paese, nell’Occidente, sviluppa un proprio percorso per garantire una serie di diritti, più o meno estesi, che ritiene fondamentali per l’interesse dei propri cittadini. Nei diversi paesi, però, secondo l’orientamento politico dei rispettivi governi, si affermano diversi modelli di stato sociale:
Modello liberale, definito di welfare “residuale”. Si fonda sulla dimostrazione dello stato di bisogno, quale requisito per l’ottenimento dei diritti sociali, la cui precedenza nell’accesso è riservata ai poveri meritevoli, cosa che rende evidente la scelta di fondo che il modello sottintendeva e favoriva: “ lasciare, per quanto possibile, che le persone se la cavino da sole ”.
Un Modello conservatore definito anche “particolaristico”. In questo modello i diritti derivano dalla professione esercitata. Le prestazioni assistenziali sono condizionate da determinati requisiti, in primo luogo il lavoro. Infatti, in base al lavoro svolto, si stipulano delle assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini
Un Modello socialdemocratico , definito “universalistico”. In questo caso, i diritti vengono fatti discendere dalla cittadinanza. I servizi fondamentali vengono offerti a tutti i cittadini senza nessuna differenza. Promuove un’idea di uguaglianza nello status della persona, passando dal concetto di assicurazione sociale a quello di sicurezza sociale.
Nel nostro Paese, proprio partendo dalla questione della sostenibilità economica del “welfare”, nasce e si sta affermando, nella discussione apertasi sull’argomento, una nuova visione che tende a superare l’esclusiva competenza dello Stato sulla materia. D’altra parte, già nel 2022 la spesa delle famiglie italiane per il welfare privato (dati Cerved) superava i 5mila euro a nucleo, per quasi 140 miliardi complessivi, con le voci della sanità e dell’assistenza agli anziani a pesare più delle altre.
Welfare Italia ha fotografato questa filiera “estesa” su cui gli italiani si appoggiano per le loro esigenze di benessere: 425mila enti pubblici e privati (profit e non) che spaziano dalle Case di cura alle Agenzie per l’impiego, dai fondi integrativi ai servizi educativi come i doposcuola. Un mondo che vede impegnati 4,3 milioni di lavoratori (e altrettanti o più volontari) e che genera un impatto da 206 miliardi in termini di valore della produzione.
Bisogna essere consapevoli che questa situazione complessa è piena di contraddizioni, che subiamo da anni, non può essere ignorata, ma necessita di risposte ragionevoli. In primo luogo è innegabile che il peso del debito pubblico vada ridotto in Italia, come negli altri paesi dell’Ue interessati al fenomeno per contenere il peso degli interessi passivi. Tuttavia è altrettanto innegabile che il taglio indiscriminato della spesa pubblica, imposto dalle politiche di rigore della Ue, riduce in modo più che proporzionale il Pil, aggravando il rapporto debito/Pil, pregiudicando così qualsiasi possibilità di ripresa del nostro e degli altri paesi interessati.
Le politiche sociali, se basate su misure mirate a contenere/ridurre la spesa pubblica, possono diminuire la capacità di protezione, particolarmente dei soggetti deboli, rispetto ai rischi sociali. Se il welfare italiano, uno dei migliori d’Europa viene giudicato ancora insufficiente per sostenerlo la base di contribuenti dovrebbe essere maggiore.
L’Italia è in testa alle classifiche per evasione fiscale. I beneficiari di molti servizi gratuiti, a partire dalla sanità, non sostengono il sistema eludendo le imposte. 42 milioni di italiano fanno una dichiarazione dei redditi (Fonte Mef). Quelli che pagano almeno 1 euro di Irpef sono solo 32 milioni.
Metà degli italiani vive “a carico” di qualche altro
Circa 17 milioni di contribuenti (oltre il 40 per cento sul totale) dichiarano meno di 15 mila euro all’anno, con un reddito medio di circa 7.100 euro. Circa 12,3 milioni di contribuenti (il 29 per cento) dichiara invece tra i 15 mila e i 26 mila euro, con un reddito medio di 19.800 euro. Tra i 26 mila e i 35 mila ci sono 6,4 milioni di contribuenti (il 15 per cento), che dichiarano in media 28.700 euro. Il 70% dei contribuenti paga meno del 20% del totale dell’Irpef. Circa il 25% dei contribuenti ha un reddito lordo inferiore agli 8.400 euro, pari a circa 630 euro netti al mese, mentre meno del 15 per cento degli italiani supera i 33mila euro lordi, che corrispondono a circa 2.000 euro netti al mese. I contribuenti che dichiarano fino a 15mila euro pagano il 3,2% dell’Irpef totale, con un contributo medio di 367 euro. I contribuenti tra i 15 e i 26 mila euro versano il 15,7 per cento di tutta l’Irpef, con un importo medio di 2.200 euro. Quasi il 70 per cento dei contribuenti si fa quindi carico del 18,9% dell’Irpef. La fascia tra i 26 e i 35 mila euro paga il 17,8% dell’Irpef, con un contributo medio di 4.880 euro, e quella tra i 35 e i 55 mila euro, il 21,4 per cento, con un’imposta media di 9.040 euro per contribuente. Dunque, il 40% delle imposte è a carico del 26 per cento di contribuenti, ossia quelli che dichiarano tra i 26 mila e i 55 mila euro. Il reddito mediano è pari a 17 mila euro, una cifra che su tredici mensilità corrisponde a circa 1.180 euro al mese. Il reddito mediano è il valore del reddito centrale che si otterrebbe mettendo in fila tutti i redditi dichiarati, dal più basso al più alto.
Sono da rilevare solo piccoli smottamenti rispetto gli anni passati, che non cambiano la sostanza della questione: il 45,16% degli italiani non ha redditi (o non li dichiara), e di conseguenza vive a carico di qualcun altro. E quel qualcuno è rappresentato dal 15,26% dei contribuenti (circa 6,4 milioni), che dichiarando redditi superiori a 35mila euro pagano il 63,39% dell’Irpef italiana, mentre quelli che dichiarano meno di 15mila sono poco meno di 17 milioni (il 40,35% del totale) e pagano l’1,29% dell’Irpef complessiva.
Con questi numeri è chiaro che il sistema non può reggere a lungo. Ora si discute di “ceto medio”, e della possibilità di limare un po’ l’aliquota delle fasce centrali di reddito se il concordato preventivo offrirà risorse un poco più generose rispetto alle previsioni che dominano la vigilia. Ma, se andrà bene, si tratterà comunque di un palliativo, in un Paese di “poveri ufficiali”, che dal 2008 al 2022 ha visto crescere solo del 25% il gettito dell’Irpef mentre la spesa per il welfare è più che raddoppiata.
Nel 2022 l’Italia ha complessivamente destinato alla spesa per protezione sociale – pensioni, sanità e assistenza – 559,513 miliardi di euro, vale a dire oltre la metà di quella pubblica totale (il 51,65%). Rispetto al 2012, la spesa per il welfare è aumentata di 127,5 miliardi strutturali (+29,4%). Nel complesso, se per Inps e Inail si può parlare di un equilibrio a limite del precario, in quanto, almeno attualmente, il sistema pensionistico e assicurativo appare in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per assistenza (circa 157 miliardi di euro), sanità (intorno ai 131 miliardi l’importo della spesa) e welfare degli enti locali (circa 13 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono essere sostenuti attingendo alla fiscalità generale.
Un totale di oltre 300 miliardi di euro per il quale sono occorse pressoché tutte le imposte dirette Irpef, addizionali, Ires, Irap e anche 23,77 miliardi di imposte indirette, in primis l’Iva.
Fra le azioni per fronteggiare questo scenario è possibile intervenire su alcune direttive:
• attivare una spesa pubblica più selettiva;
• incrementare gli strumenti assistenziali e di investimento in un piano di politiche attive del lavoro;
• definire il rilancio della previdenza complementare (per evitare un futuro di anziani poveri) con una tassazione agevolata sui rendimenti accumulati;
• prevedere un investimento serio sul settore dell’assistenza per la terza età e creare d un sistema nazionale di Long Term Care a contribuzione privata (LTC);
• investire nei servizi sanitari di prossimità e rendere omogenei i database pubblici e privati, per garantire anche i benefici attivabili grazie al Fascicolo sanitario elettronico;•fare più prevenzione;
• puntare sulle partenership pubblico private pensando a un welfare innovativo a fronte dell’invecchiamento della popolazione. Il welfare sociale è una grande opportunità per le imprese e le istituzioni ma anche soprattutto un ammortizzatore necessario per le famiglie.
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