Aziende e regioni

Liste di attesa in sanità: un problema di tutti

di Gilberto Gentili *

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24 Esclusivo per Sanità24

Le inchieste sulla sanità curate dalla trasmissione di Retequattro “Fuori dal coro”, incentrate per gran parte sulle liste di attesa e sul mancato rispetto delle classi di priorità, stanno provocando una serie di reazioni a catena che incidono considerevolmente sulle analisi che siamo soliti fare sulla sanità italiana. Va doverosamente premesso che l’inchiesta ha riguardato e continua a riguardare sia regioni governate dal centro destra che quelle in capo al centro sinistra. Vanno quindi rigettate le accuse di parzialità o di opportunità politica.
Appare invece messo a fuoco quanto già noto a tutti. In Italia la garanzia della esecuzione delle prestazioni non esiste e il rispetto di norme pur datate ( legge 266 del 2005, articolo 1 , decreto legislativo n. 124/1998) viene disatteso o addirittura occultato per quanto concerne trasparenza e accessibilità alle liste di attesa e ristoro delle spese sostenute dai cittadini, quando il Servizio pubblico non sia in grado di assicurare la prestazione nei tempi compresi nelle classi di priorità.
In questa direzione appaiono francamente inadeguate le strenue difese o la manipolazione del problema sotto forma di soluzioni estemporanee quali le liste di presa in carico o di galleggiamento, o altre fantasiose definizioni che gli addetti ai Cup devono usare evitando accuratamente di parlare di chiusura e che non spostano di un centimetro il problema mantenendo l’ effettuazione della prestazione oltre il limite temporale della richiesta.
Rispetto a questa che pare una “debacle” del Ssn va però, a mio avviso, proposta una lettura più sistemica che focalizzi il ruolo delle direzioni generali, degli erogatori, delle Regioni.
Il top management delle aziende viene costantemente coinvolto dalle analisi e accusato , nella migliore delle ipotesi, di non porre rimedio al problema. I direttori generali e sanitari sono investiti anche “rudemente” dei singoli casi e appare singolare che non ci siano state levate di scudi a favore di una categoria colpevolizzata all’estremo e accusata delle peggiori malefatte, al punto di vedersi contestare il premio economico normativamente previsto ed erogato previa valutazione regionale.
In realtà, le liste di attesa post Covid sono sicuramente la conseguenza del blocco prestazionale avvenuto tra il 2019 e il 2023 cui si è aggiunta la carenza medica e ancor di più infermieristica che ha, di fatto, ostacolato i piani di recupero con una ricaduta negativa in tutte o quasi le regioni. Non si vuole certamente ricorrere alla teoria del “mal comune”, ma evidenziare come il problema sia pressoché ubiquitario e sostanzialmente riproducibile per branca interessata (stesse tipologie in tutta la penisola), con ciò implicitamente dimostrandosi che governarlo risulta difficilissimo.
Va detto con chiarezza che l’aumento prestazionale è spesso una via perversa poiché i sistemi tendono ad adeguare le richieste ai volumi della offerta, producendo molto spesso un incremento della inappropriatezza.
Non dimentichiamoci che le direzioni generali sono vincolate al pareggio di bilancio e al rispetto dei tetti del personale.
Esistono poi contratti normativamente obsoleti che definiscono tetti prestazionali su base oraria (specialistica ambulatoriale), di fatto rendendo difficile anche per gli operatori la effettuazione di una corretta presa in carico.
Quello che appare evidente è che la problematica del rispetto dei tempi di attesa appare un mostro a tre teste: programmazione, prescrizione, produzione.
Le 3P si concatenano a partire dalla programmazione che attraverso una corretta analisi del bisogno dovrebbe determinare le risorse da assegnare alle aziende per essere tradotte in azioni produttive i cui volumi definiscono i confini qualito-quantitativi ove si inserisce la prescrizione.
Chiaro che alle aziende andrà richiesta la ottimizzazione delle risorse assegnate, ma non potrà essere addebitata la inadempienza dovuta alla impossibilità di reclutare professionisti, se adeguatamente dimostrata.
Le Regioni devono programmare l’offerta, promuovendo in primo luogo la aggregazione della stessa in centri dove si possano ottimizzare la fruizione di tecnologie e l’apertura per almeno otto ore al giorno.
Le future case della comunità hub possono, a mio avviso, essere i luoghi fisici dove si concentrano tecnologie e operatori.
Le Asl a loro volta dovranno garantire livelli produttivi che rispettino i volumi postulati.
I prescrittori vanno coinvolti e, se necessario, controllati su un uso corretto delle classi di priorità. La consapevolezza e la conoscenza dei limiti deve condurre alla sistematizzazione e socializzazione del problema ovvero alla conoscenza della tipologia dell’offerta, ancora più utile se individuata collegialmente, ed alla consapevolezza che la mancata congruità delle richieste, se può risolvere un caso singolo oggi “accontentando” il paziente, ne crea cento domani, rendendo il tutto incontrollabile.
Ciò che voglio affermare, pur se in sintesi, è il fatto che il sistema deve agire globalmente, non tanto per evitare di “sparare solo sul pianista”, quanto per condividere e spalmare le progettualità e le responsabilità su ogni parte del sistema.
La presenza in appositi gruppi di lavoro dei cittadini, ovvero dei loro rappresentanti, appare auspicabile per condividere e affrontare sinergicamente il problema.
Si può pensare di rieditare il vecchio motto “pensare globalmente e agire localmente” usato nei temi della tutela ambientale, che offre una chiave di lettura estremamente suggestiva anche nell’affrontare questi processi decisionali ed allocativi di risorse.
Diventa quindi indispensabile agire sulla implementazione dei sistemi di tele medicina e sulle procedure organizzative della presa in carico, centrali nel trattamento dei pazienti cronici, ivi compresi gli oncologici.
Dobbiamo ridurre il numero di cittadini che si presenta al Cup, definendo percorsi che diano tempi e accessi certi e che, conseguentemente, facilitino il cammino nei tortuosi meandri della offerta sanitaria.
Discorso a parte lo merita il ricorso agli specializzandi.
Lo studio recentissimo dell’Anaao, condotto attraverso una intervista ai medici specializzandi, ha evidenziato un quadro di estremo disagio sia per gli aspetti formativi che per quanto attiene servizio e lavoro svolti .
La quasi totalità degli intervistati ha lamentato un utilizzo che prefigura un vero e proprio sfruttamento. Un congruo utilizzo di questa forza lavoro, affiancando aziende territoriali ed ospedaliere alle Università, può certamente aiutare e concorrere alla soluzione del problema.
Resta da esaminare il ruolo del il privato. Il suo ruolo deve sempre più integrarsi con il pubblico in un piano di offerta unico. Le liste di prenotazione devono essere ugualmente accessibili, ma è vero anche che non si può proporre o imporre la riconversione produttiva di una struttura mutandone il target, ovvero chiedere di riconvertire la produzione con contratti di convenzione annuali.
La ridefinizione del rapporto con il privato va costruita in archi di tempo che consentano e ammortizzino gli investimenti e che si focalizzino in settori ove il pubblico ha maggiori difficoltà.
Bene quindi un convenzionamento che esca dallo storico, ma con regole accessibili a soggetti che per loro natura devono ricavare profitto dai loro investimenti, senza demonizzazioni o visioni populistiche senza senso. Il privato è già e non da pochi anni parte essenziale del sistema pubblico in un rapporto dicotomico che prevede sinergie e non contrapposizione.
Chiaro poi che tutto il processo deve condurre a una profonda riflessione sul finanziamento del Ssn e sulle prestazioni da garantire con capacità di ridurre le sacche di inappropriatezza e fornire una assistenza su setting modulari e flessibili, specie sul versante territoriale ove è auspicabile un rapido e decisivo ricorso alle tecnologie e, laddove possibile, alla intelligenza artificiale per garantire equità ed accesso ai nostri cittadini.

* Coordinatore Nazionale Chronic on


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