Aziende e regioni

Autocritica e proposte: ecco le basi da cui ripartire per rilanciare un Ssn orfano di Piano sanitario nazionale e in sofferenza tra Lep e Lea

di Ettore Jorio

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24 Esclusivo per Sanità24

Nel mentre c’è una sanità che sta cadendo a pezzi, compiendo una vera e propria strage sociale dei ceti più deboli, il confronto anziché accentrarsi sulle proposte di rigenerare un sistema della salute degno di questo nome, si trasforma in disputa politica. E non affatto di alto livello, dal momento che arriva a momenti di quasi rissa con tantissimi a urlare il contrario di quanto legiferato e sostenuto in precedenza.
La fotografia dell’esistente. Dopo oltre quattro anni passati, con i governi Conte e Draghi, nella quasi assenza di politiche sociosanitarie, si è arrivati all’attuale Esecutivo. Tanti i danni registrati, con centinaia di migliaia di morti prodotti anche per inerzia del Ssn nella pandemia, e che continuano a constatare quotidianamente. Le fasi governative post Covid si sono caratterizzate per lo stesso cattivo livello di erogazione della salute, se non peggio di quelli risalenti ai ministri Grillo e Speranza.
I due pezzi mancanti per rimediare ai disastri
Nonostante tutto questo, due le assenze: l’autocritica e la proposta.
Nessuno appiccicato al muro del pianto che hanno prodotto agli utenti più diseredati, ma anche agli altri; nessuno che provi a mettere riparo al gap della messa costante situazione di pericolo per la vita delle persone.
D’altronde, una tale situazione è da tempo che si registra, almeno da vent’anni. Un tempo immemorabile di abbandono delle garanzie costituzionali e del mancato privilegio di sapere godere della concorrenza amministrata.
Il motivo di tutto questo è semplice: la organizzazione sanitaria nel nostro Paese non più da anni quella disegnata sulla ratio del 1978. L’avvento dell’aziendalismo e soprattutto della mentalità mercantile che ha storpiato i canoni fondativi della anzidetta concorrenza amministrata (pubblico e primato, entrambi accreditati, a concorrere per le migliori prestazioni essenziali di assistenza) hanno distrutto, in poco meno di un quarto di secolo, la novità introdotte con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, che era l’esatto antidoto dell’affarismo che caratterizzava l’erogazione della salute in tanti altri Paesi.
Quindi il business che va a gonfie vele con tanti esponenti di rilievo della politica di ieri a passare nell’epoca più contemporanea nella soglia del management privato, specie quello di alto profilo e di incontenibili budget, e tanti attori delle governance regionali a favorire la crescita esponenziale degli accreditati privati.
A fronte di tutto questo si sono venute a creare disfunzioni notevoli con un pubblico che è oramai tutto una lista d’attesa, fatta eccezione per i raccomandati, e un privato accreditato che spesso convince il richiedente - scoraggiandolo anche esso dalla propria fila degli impegni pregressi assunti con ricetta con ticket - a ricorrere a scorciatoie ma a pagamento. Giocando a suo favore anche una temuta diagnosi nefasta così come, per i meno indigenti, la fretta di sapere come vanno le cose nel loro organismo.
Da qui, la gente povera e diseredata che “firma le cambiali” non più come una volta, magari per comprare una utilitaria, bensì per afferrare una diagnosi ovvero una terapia salvavita, così come per cercare un “approdo” presso strutture prevalentemente operanti nel quadrangolo del privilegio della mobilità attiva: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Una situazione che genera oltre quattro miliardi anno di export umano, arricchendo i Ssr anzidetti e impoverendo quello che parte dalle banchine massimamente siti nel Mezzogiorno da sempre diseredato.
A questa faccia della medaglia corrisponde l’altra, rappresentativa del silenzio dei decisori nazionali e regionali che lasciano fare ai direttori generali i viceré locali, come si confà - del resto - alle nomine squisitamente fiduciarie. A tutto questo aggiungasi, l’assenza di una intellighenzia destinata a programmare la sanità nazionale (l’ultimo Psn è del 2008!), l’ingigantirsi di attività rendicontative, eseguite da enti pubblici non economici, che altrove non sarebbero mai nati ovvero chiusi da tempo. Questo è un modo di agire offensivo della persona, delle sue debolezze e delle malattie ingigantite da una assistenza che non c’è e da una povertà che dilaga.
Al ministro Schillaci e alla premier Meloni vada prodotta, con forza, l’istanza di tutte le forze politiche presenti in Parlamento a che venga riprogrammata nonché riscritta nelle sue regole.
Una disputa per molti versi irragionevole
Il confronto in atto sul regionalismo asimmetrico - intensificatosi a seguito della allora iniziativa di Francesco Boccia di elaborare nel 2019 un Ddl attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione - sottovaluta la ricaduta positiva sulla sanità del federalismo fiscale. Anzi fa emergere tutt’altro, senza però sostenere le tesi pessimistiche con motivazioni credibili. Ciò nel senso che se ne sottolinea genericamente la sua incidenza negativa senza tuttavia scandire le ragioni di siffatte presunte contrarietà.
Con questo, si registra una certa trascuratezza nell’affrontare l’argomento principe degli elementi strutturali che ne imprimerebbero il peggioramento, sia in un’ottica di largo respiro che sul suo funzionamento attuale.
In tal senso, il dibattito - che invero sta da un po’ di tempo concretizzando una accesa disputa tutta politica - è mirato esclusivamente a fare la più generale opposizione verso la ipotesi di consentire alle Regioni di rivendicare e ottenere una maggiore autonomia legislativa, quest’ultima riferita ovviamente all’estensione ai principi fondamentali delle materie concorrenti e ad alcune altre riservate in via esclusiva alla competenza statale.
Relativamente alla tutela della salute, una tale disputa appare per molti versi incomprensibile, atteso che la stessa, quanto all’attività gestoria, è materia regionale sin dalla istituzione del Servizio sanitario nazionale, perfezionata con la legge 833/1978, abrogativa del sistema mutualistico e di riconoscimento alle Regioni del primario ruolo gestorio. Un potere esteso nel 2001 a quello legislativo di dettaglio - e dunque organizzativo ed erogativo delle prestazioni relative - con la revisione del Titolo V, Parte seconda, della Costituzione, che ha sancito alla materia tutela della salute una competenza concorrente. Una contrapposizione politica, questa, che avviene in presenza dello stato comatoso in cui versa l’erogazione dell’assistenza sociosanitaria, tale da fare sembrare quantomeno inopportuna la inverosimile minaccia del decadimento della relativa offerta, atteso che quella odierna è la peggiore di sempre.
Un confronto che non tiene conto dell’attuazione della Costituzione
A un siffatto distorto modo di supporre cosa sia il diritto alla salute e a come esso vada reso esigibile da parte delle Regioni, si perviene a causa di una generale confusione insorta recentemente tra il Ddl Calderoli e gli altri due eventi normativi in progress, consistenti nell’attuazione di alcuni articoli della Costituzione. Più esattamente, dell’art. 117, comma 2, lettera m (ma anche p), e dell’art. 119, introduttivo del cosiddetto federalismo fiscale, produttivo peraltro dell’abrogazione del finanziamento pubblico imperniato sulla spesa storica.
Gli anzidetti due percorsi attuativi dei corrispondenti precetti costituzionali sono, in buona sostanza, segnatamente incidenti nel percorso di assoluto miglioramento delle condizioni erogative delle prestazioni essenziali della salute, perché ad essi ispirati e quindi finalizzati a:
- la definizione dei Lep, e dunque di una più appropriata ridefinizione sociosanitaria dei Lea, in quanto tale comprensiva dal 2017 dei già Liveas. Un processo che deve comunque pervenire, francamente, ad un più accurato esito, più attualizzato nello specifico e prodotto nella trasversalità che caratterizza la materia della salute, di come abbia concluso, nell’ottobre 2023, i suoi lavori il «Sottogruppo n. 5: Tutela della salute. Alimentazione. Ordinamento sportivo», essendosi limitato il medesimo, nel concreto, a rinviare il tutto alla loro individuazione esistente sin dal gennaio 2017;
- la determinazione, affidata sempre alla istituita Cabina di regia governativa (legge 197/2022, art. 1, comma 792) dei costi standard per ogni singolo LEP o gruppi di essi, e dunque Lea, riguardante l’assistenza sociosanitaria, implementata dei LEP ad essa connessi trasversalmente, quantomeno di quelli afferenti alla alimentazione, ambiente, agricoltura, istruzione;
- l’individuazione dei criteri per pervenire alla valorizzazione del fabbisogno standard nazionale e regionali/provinciali autonomi;
- la regolazione e costituzione del Fondo di perequazione, garante delle quote annuali solidali necessarie alle Regioni, con un corrispondente gettito fiscale insufficiente, per assicurare i Lea alla propria collettività.
La non consapevolezza di dovere attuare la lettera costituzionale
A fronte di tutto questo si registra un progressivo ingigantirsi di preoccupazioni per lo più immotivate, invero riscontrabili nella comunicazione politica e persino nelle aule parlamentari.
Ciò accade per la eccessiva politicizzazione del tema dell’autonomia differenziata – ma legislativa, altrimenti l’aggettivo qualificativo apparirebbe quantomeno pleonastico, atteso che autonomia è di per sé sinonimo di differenziazione - che ha portato, durante il governo Conte II, ad apprezzare l’anzidetto Ddl Boccia e, nel corso del governo Draghi, a fare ugualmente con il Ddl Gelmini. Entrambi per molti versi affini all’originario DDL Calderoli, poi diversamente impostato a seguito della legge di bilancio per il 2023 - quanto ad individuazione dei Lep e determinazione dei costi/fabbisogni standard - e tradotto nel testo approvato al Senato il 23 gennaio scorso e trasmesso alla Camera dei Deputati per il suo esame.
Nonostante questo non affatto breve tentativo di attuazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione - dopo una completa disattenzione applicativa del federalismo fiscale durata oltre 22 anni - si continua a cimentarsi in diatribe sulla sanità senza tenere conto dei cambiamenti legislativi dettati sin dalla legge delega n. 133/1999, che trovò attuazione nel d.lgs. 56/2000, in materia di riformulazione del finanziamento dell’assistenza sociosanitaria. Un cambiamento, questo, che fu allora concettualmente epocale - si badi bene, due anni prima della revisione costituzionale del 2001 - tale da abolire (senza tuttavia mai realizzarlo) il trasferimento statale in favore delle Regioni in materia sanitaria, per ivi costituire i rispettivi Fondi sanitari regionali. Con questo ebbe, sempre sul piano meramente nominalistico, a cancellare il ricorso alla vecchia metodologia fondata sulla determinazione annuale del sempre redivivo Fondo sanitario nazionale, alimentato dal bilancio statale sul criterio della spesa storica, ripartito alle Regioni sulla base delle quota capitaria pesata per abitanti incrementato sulla base della anzianità delle comunità regionali destinatarie.
Ebbene, a fronte del bisogno nazionale di accelerare la “messa in cantina” del criterio della spesa storica, si continua a discutere, ancora oggi ed esclusivamente, su quanto programmato dal Governo nel triennio attuale senza minimamente accennare alle diverse regole che sono in procinto di essere concretamente cambiate. Lo si fa limitando così il doveroso impegno della politica a misurare i finanziamenti annui solo sulla base di due criteri contrapposti: se maggiore in termini assoluti rispetto all’anno precedente ovvero se minore in percentuale rapportato al Pil.
Un ragionamento per molti verso illogico perché affrontato, da entrambe le parti in conflitto politico, non sulla base della necessaria costruzione in itinere di un sistema della salute più consono alle esigenze della collettività, che peraltro nessuno ha mai rilevato sui territori regionali, e alla necessità di rendere uniforme l’erogazione dei Lea.
Ciononostante, senza tenere conto, oggi, del processo ricognitivo, in stato avanzato, affidato al Clep di individuare i Lep e, con questo, di ridefinizione dei Lea e di determinazione dei costi standard per ciascuno degli anzidetti livelli assistenziali, distinti per macroaree, nonché della definizione dei fabbisogni standard regionali da perfezionarsi con DPCM.
Un richiamo alle regole della Costituzione
Tutto questo, francamente, è generativo del legittimo dubbio se la politica in generale, dopo averla condivisa approvando la legge 42/2009 e condividendo il d.lgs. 68/2011, abbia ben compreso l’importanza di mettere a regime le nuove regole di finanziamento, certamente più garanti di quanto sia stata - ed è ancora - la spesa storica nell’assicurare la tutela del diritto alla salute.
Un dubbio che diventa una certezza assumendo tutte le dichiarazioni ufficializzate in proposito, ove:
-la maggioranza di governo non fa assolutamente menzione di due elementi fondamentali dell’auspicato cambiamento, ma soprattutto non trae motivo dal federalismo fiscale, oramai (si spera) alle porte, per:
a) imporre criteri di ricognizione e determinazione del fabbisogno epidemiologico delle singole Regioni e, da parte di queste, a tutte le aziende sanitarie in sinergia con i sindaci. Ciò al fine di assumere contezza dei presupposti per intervenire con una programmazione degna di questo nome, garante della copertura dei deficit infrastrutturali e assistenziali presenti principalmente nel Mezzogiorno;
b) procedere a ridefinire, quantomeno sul piano nominalistico, in attesa di darsi gli strumenti per fare altrimenti con gli anzidetti Dpcm, il Fondo sanitario nazionale in Fabbisogno standard nazionale e, quindi, ad abituarsi a rideterminare i Fabbisogni standard regionali, tenuto conto delle rilevazioni sulle esigenze epidemiologiche, degli indici di deprivazione socio-economica, della sufficienza o meno dei gettiti fiscali delle Regioni/Province Autonome dalle quali trarre, per differenza, i valori da coprire con la perequazione e garanzia dei Lea;
c) censire i gap infrastrutturali da colmare con ricorso alle risorse di cui al comma dell’art. 119 della Costituzione, per far sì di garantire alle Regioni una eguale partenza del patrimonio produttivo impegnato ad assicurare salute;
- la minoranza non si impone - con maggiore coerenza rispetto a quanto impresso nel 2001 in Costituzione e “approvato”, con larghissima astensione, la legge delega attuativa dell’art. 119 della Costituzione (legge 42/2009) e condiviso i suoi decreti delegati afferenti alla materia – di dare peso e concretezza alle sue idee di pretendere una erogazione assistenziale sociosanitaria uniforme a tutela dell’eguaglianza ovunque e dell’esigibilità dei Lea, incrementati anche di quanto ad oggi non previsto per le fasce più deboli:
-entrambe non esigono decisamente l’abbandono della spesa storica, altamente lesiva di una assistenza per eguali. Non solo. Non ragionano sinergicamente per individuare una modalità di finanziamento, da utilizzare nelle ricorrenti leggi di bilancio annuali, satisfattivo per la erogazione dei Lea, da assicurare attraverso il criterio affidato ai costi standard, ai fabbisogni standard differenziati per ogni Regione/provincia autonoma da garantire attraverso la perequazione verticale, della quale tuttavia sono in pochi a parlarne e a pretenderla. Il riferimento essenziale cui attenersi è quel fabbisogno sanitario regionale standard del quale si fa ampia menzione anche nel d.lgs. 118/2011, senza tuttavia rintracciare nell’ordinamento alcuna sua determinazione sia per quanto riguarda quello nazionale che di quello delle singole Regioni/Province autonome, nei confronti dei quali occorre che entrambe, maggioranza di governo e opposizioni, si impegnino a portarlo a regola applicata e a strumento attuale fondamentale per la governance della salute.


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