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Intervista/ Elio Borgonovi: «Ecco la mia ricetta di sostenibilità per il Ssn. Ma serve coraggio»

di Barbara Gobbi

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24 Esclusivo per Sanità24

Riorganizzare la catena dell’assistenza. Arruolare in pieno tutti gli attori che "sanitari non sono" ma che la salute contribuiscono a perseguirla e a mantenerla. Applicare le leggi che ci sono, senza continuare a moltiplicarle, nell’ottica del "fare". E smettere di "fare i pittori" per diventare invece "scultori" del Servizio sanitario nazionale: alleggerendolo così di tutti gli orpelli che in 45 anni di vita lo hanno appesantito a cominciare dai carichi burocratici. Elio Borgonovi (SDA Bocconi School of Management), ancora fresco dell’intervento al XVIII Forum Risk Management di Arezzo tratteggia la sua visione della sostenibilità per un Ssn oggettivamente in affanno. Ma rispetto al quale, sottolinea, «abbiamo il dovere di essere ottimisti». Così come nella vita in generale.
Professore, il leitmotiv oggi è che il Ssn lo stiamo perdendo. Qual è la sua ricetta per una sostenibilità possibile?
Per rendere sostenibile il sistema, posto che gli spazi di aumento di spesa sono limitati e sul fronte del recupero di efficienza già si è fatto parecchio, occorre puntare sulla riorganizzazione lungo la catena della continuità assistenziale. Quindi il potenziamento delle cure al di fuori delle condizioni per acuti diventa l’elemento cruciale. Il tema case di comunità e Dm 77, ad esempio, visto da solo rischia di non risolvere nulla: dobbiamo considerarlo come uno degli elementi che consentono di riorganizzare l’intera catena assistenziale. Il secondo concetto è che bisogna andare alla ricerca di nuove forze.
Quali?
Penso alla collaborazione, soprattutto a livello territoriale, con soggetti esterni al Servizio sanitario. Penso all’integrazione con i Comuni, all’attivazione delle comunità locali e di risorse come il non profit e il volontariato, che va inserito in modo sistemico negli interventi. E aggiungo qui un terzo tema importante e cioè la maggiore responsabilizzazione del cittadino-paziente: quel "patient engagement" che non dev’essere semplicemente una parola ma che va realizzato con politiche di informazione, comunicazione e coinvolgimento per farlo sentire parte attiva del sistema.
Questa complessità come si relaziona con le novità introdotte dal Pnrr quanto a riorganizzazione del territorio?
Il Dm 77 nel suo complesso va visto in un'ottica di integrazione, non burocratica. Per fare un esempio, dev’essere applicato coinvolgendo e responsabilizzando a livello decentrato, non in modo formale come si sta facendo adesso. Faccio l’esempio della richiesta da parte di Agenas di ricevere entro il 15 dicembre gli elenchi dettagliati dei nomi delle 4.500 persone da formare nei prossimi anni, come quadri intermedi. Qui si tratta piuttosto di avere fiducia e di responsabilizzare: basta dare criteri e requisiti di responsabilità del sistema. L’idea è di controllare chi abbia o meno diritto ma la burocrazia va alleggerita, non complicata ulteriormente.
Dal suo osservatorio le risulta che questo sia un modus operandi?
In parte sì: il modus operandi è dare gli standard e calare un modello dall’alto come soluzione ottimale. Ma che le Regioni abbiano impiegato male le risorse è vero solo in parte mentre in gran parte non lo è: in ogni caso serve flessibilità in un mondo che cambia continuamente, oppure non ce la si fa. La sostenibilità del sistema si ottiene con più flessibilità ed elasticità: al contrario, se lo si ingessa si rompe.
Quanto al suo stimolo di cercare e arruolare nuove forze, la sensazione è che l’integrazione tra sanitario e sociale sia lontana
Nel complesso è ancora in ritardo e molto a macchia di leopardo ma ci sono buone esperienze e buone pratiche nelle regioni "classiche" come l’Emilia Romagna, la Toscana, il Veneto, in parte in Lombardia, così come in altre come Puglia e Campania. Più in generale, l’integrazione deve diventare un modo di porsi del sistema: non si può più agire come se il Ssn fosse autosufficiente. Poi, il mio cavallo di battaglia è un po’ questo: le tecnologie ci sono, le conoscenze si sviluppano velocemente ma ora bisogna modificare le teste delle persone. La sostenibilità si può cercare di perseguirla applicando concretamente e non solo a parole il passaggio dalla cura e dalle prestazioni alla presa in carico. Solo grazie a quest’ultima possiamo ad esempio - se guardo in particolare al tema multi cronicità - pensare di eliminare le duplicazioni nell’offerta perseguendo la riconciliazione farmaceutica invece di consumare farmaci per avere in definitiva meno salute.
Temi di appropriatezza organizzativa molto cari al ministro della Sanità
Il "cosa fare" ormai lo si sa. Si sa un po’ meno il "come" e poi la debolezza del sistema Italia è scaricare a terra le cose: il problema diventa di "formazione all’azione". Non dobbiamo domandarci cosa sarebbe meglio o necessario fare: la variabile su cui agire è quella della qualità delle persone e con ciò intendo professionalità, razionalità, passione ed emozioni. Potremmo dire che oggi tutto rema contro il mantenimento del Ssn, salvo quel po’ di incoscienza di chi continua a operare in un contesto contraddittorio. È pero un’incoscienza legata al coraggio, all’impegno e alla passione di chi ha dei valori e vuol continuare a essere al servizio delle persone. E alla fine della giornata e della vita può dire "io ci ho provato".
A quale livello bisognerebbe agire?
In tutte le organizzazioni pubbliche e private, le imprese che vanno bene sono quelle che investono - in particolare - nella formazione dei quadri intermedi. Perché il problema non è avere la qualità dei vertici ma la qualità delle cinghie di trasmissione che poi sono il cosiddetto "middle management" e lì siamo molto in ritardo. Tra l’altro sarebbero interventi ad elevato rapporto beneficio/costo. L’investimento darebbe un risultato enorme in termini di qualità dell’assistenza e di contenimento della spesa.
In generale quale è la situazione a cui tendere?
Bisogna passare da un modello "obblighi-vincoli-controlli-sanzioni", a un modello "autonomia-responsabilizzazione-valutazione dei risultati". Faccio un esempio: è molto meglio agire su infermieri di famiglia e comunità, cosa che stiamo facendo in Lombardia con dei corsi mirati, che organizzare l’ennesima formazione per direttori generali, sanitari e amministrativi e di struttura complessa. Bisogna dare autonomia e responsabilizzazione, poi verificare i risultati.
Il suo punto di vista rispetto al progetto Calderoli, in particolare sul versante Sanità?
Al di là del giudizio politico e sociopolitico, servirebbe un modello capace di favorire i collegamenti tra le Regioni cosiddette "forti" e quelle "deboli". In Germania dopo la riunificazione, ad esempio, in campo universitario un ateneo dell’ovest doveva gemellarsi con uno dell’est per aumentarne il livello e così era per gli ospedali e in altri settori. Così tra le nostre Regioni andrebbero favorite le collaborazioni attraverso "tavoli" e scambio di conoscenze. Dall’altra parte, il livello centrale invece di chiedere l’accentramento di poteri dovrebbe mettere a disposizione delle task force – come in parte Agenas sta tentando di fare – che intervengano in aiuto delle strutture più fragili. Dove ci sono Regioni a capitale istituzionale più debole e con personale meno preparato per vari motivi, portare "trasfusioni di capacità organizzative".
Questi due aspetti potrebbero in prospettiva andare a sostituire il commissariamento?
Il commissariamento rientra in una prospettiva sanzionatoria mentre questo nuovo approccio rientrerebbe nelle condizioni facilitanti. In parte Agenas lo sta facendo con la raccolta delle buone pratiche e con l’istituzione di alcuni tavoli di confronto. Poi è chiaro che ci sono problemi di difficoltà oggettiva, non solo in Italia: il servizio sanitario inglese è più allo sbando di noi e quello tedesco nonostante gli investimenti più elevati e quasi il doppio di spesa pro capite ha anche lui dei problemi. Va detto: non tutto da noi è negativo solo perché siamo in una situazione di oggettiva difficoltà. Ma non è ancora chiaro dove investire e si procede un po’ per rammendi.
Nel frattempo ci troviamo con un Servizio sanitario nazionale fondato nel lontano 1978...
Oggi ci sarebbe bisogno di fare un tagliando straordinario al Ssn perché dopo 45 anni non bastano i rabberciamenti. La 833 è arrivata dopo 20 anni di confronto e dibatto cultuale: dietro c’era pensiero, che è stato raccolto da Tina Anselmi. Poi le riforme degli anni Novanta, sia quella del "502" sia quella del "517" e poi il "229" della Bindi tutto sommato avevano comunque un dibattito alle spalle; mentre negli ultimi 25 anni ci sono stati solo rattoppi e sottrazioni, inclusa la spending review. Per me la soluzione oggi è quella di smettere di "fare i pittori" e di metterci a "scolpire": dobbiamo togliere tutto quello che è stato messo in questi 45 anni in cui al Ssn disegnato nel 1978 sono stati fatti baffi, aggiunte e ritocchi, per far sì ad esempio che i medici possano tornare a fare i medici almeno all'80%, snellendo le procedure e limitando i loro carichi di scribacchini. L’altra cosa è cominciare a dire basta alle belle leggi: vanno sviluppate le capacità di attuazione perché ancora oggi in Italia c'è un gap enorme tra ciò che scrive e ciò che poi fa. E nel momento del fare restano in pochi. È l’ora di dire solo ciò che poi ci si impegna a fare in collaborazione con altri.
C’è chi oggi chiede 6-7 miliardi l’anno in più: lei concorda?
Il punto è se sia o meno realistico. Le condizioni del Paese e quelle di chi vota dicono che non le avremo mai queste cifre in più. Io sono ragioniere di estrazione e con i numeri mi diverto anche: va benissimo dire che mancano i soldi però il problema è come riesco a migliorare pure in assenza di denari. Perché tanto la presidente Meloni dice che non ci sono mentre le persone di certo non votano perché la sanità sia al top dell’attenzione – fino a quando dovranno pagare tutto –: votano su altri temi e per altri motivi.
Ci siamo abituati a dare la Sanità pubblica per scontato?
La libertà e la salute sono due temi che hanno una caratteristica: si apprezzano quando si perdono e si perdono perché si è abituati ad averli e si pensa che siano dati una volta per tutte. Il che ovviamente non è vero e la storia ce lo insegna. Allora la mia posizione è sempre stata: critichiamo e lottiamo perché migliorino le condizioni in cui operiamo e ci siano più soldi però il vero dovere e la vera responsabilità sociale è di migliorare all’interno di queste condizioni. Bisogna essere realistici: il mondo va altrove. E non c’è scritto da nessuna parte che avendo informazioni e dati sempre più eclatanti migliorano le capacità decisionali. Il problema è fare in modo che il sistema resista di più. Qualcuno parte dai diritti che vanno tutelati mentre io dico: i diritti a contenuto economico si tutelano solo se ci sono risorse prima e, quando le risorse sono scarse, utilizzandole al meglio. In più, si vada a recuperare qualcosa d'altro che sono le risorse di cui ho già detto e cioè il volontariato, gli over 70enni che stanno bene e il terzo settore nel suo complesso.
Potrebbe quindi essere la volta buona per tirarle finalmente in barca, queste realtà che vanno crescendo? O resta un "Piano B"?
Non è affatto un "piano B" ma il piano di una logica diversa. La "Res Publica" non la garantisce solo l’istituzione pubblica ma è qualcosa che ognuno di noi deve garantire. Secondo: l’ultimo secolo e mezzo è andato avanti su una logica "a silos" mentre oggi dobbiamo collegare le responsabilità e lavorare in orizzontale. Non è un piano B: è il piano di una società a democrazia avanzata e compiuta, dove i vari soggetti economici e sociali invece di vedersi separatamente si integrano e si collegano. Cosa che a oggi non ci riesce molto bene perché veniamo da 20 anni di "poco pensiero". C'è una frase: "quando il sole della cultura è basso, i nani sembrano giganti": ebbene, se non alziamo il sole della cultura, difficilmente troveremo soluzioni.
Come farlo risorgere, questo sole?
Abbiamo il dovere di essere positivi e ottimisti. Ognuno di noi deve capire dove sono i segnali positivi e coltivare la speranza che anche le cose che sembrano impossibili possano diventare possibili. Come diceva Einstein, «le cose cambieranno se cambieremo il modo di vedere le cose». Quindi diamoci da fare.


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