Aziende e regioni
Appello al nuovo Governo per l’utilizzo dello strumento fiscale in favore della sanità pubblica
di Roberto Caselli
24 Esclusivo per Sanità24
Ricordiamo che l’articolo 32 della nostra Costituzione recita : "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti". Ebbene, a distanza di 76 anni dalla sua entrata in vigore, dobbiamo domandarci ancora una volta quali siano le ragioni per cui gli enti pubblici (Aziende sanitarie locali, Aziende ospedaliere, Irccs) che erogano cure gratuite, non solo agli indigenti, ma a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito, debbano essere gravate da imposte che non trovano riscontro, se non in minima parte, nei soggetti privati che erogano prestazioni sanitarie a pagamento ricavandone, legittimamente, un utile.
La domanda va fatta a tutte le forze politiche, di destra, di sinistra e di centro, che hanno governato il nostro Paese, in particolare a quelle che si sono alternate negli ultimi trent’anni.
Nelle ultime settimane si è parlato molto, sui media, dei problemi che affliggono attualmente la sanità pubblica, sia da parte di esponenti politici che di economisti, mettendo l’accento sulla carenza di medici e infermieri, sulle lacune nell’assistenza territoriale, nella diseguaglianza, nella qualità e quantità delle prestazioni erogate ai cittadini, fra Regioni del nord e del centro, da una parte, e di quelle del sud dall’altra.
Non mi risulta, salvo mie possibili distrazioni, che nessuno, né della nuova maggioranza, né dell’opposizione, abbia indicato, fra i primi interventi da porre in atto, quantomeno un alleggerimento se non l’abolizione, delle imposte che gravano il settore. È sembrato più importante innalzare il limite del contante nelle transazioni, misura che va a favore delle persone che hanno problemi a smaltire il denaro ricavato da attività professionali, artigianali e commerciali non fatturate; è sembrato pure urgente aumentare il limite per usufruire della flat tax per i lavoratori autonomi, ignorando ancora una volta il vincolo costituzionale della progressività delle imposte.
A voler essere benevoli, una spiegazione di questa indifferenza verso lo stato di salute delle aziende pubbliche che gestiscono la sanità (colpite in questi ultimi due anni, prima dalla pandemia ed ora dall’emergenza energia, già da qualche mese con il costo dell’elettricità, e per l’ormai prossimo inverno con quello del gas per il riscaldamento), potrebbe essere dovuta all’ignoranza diffusa del sistema fiscale in atto; sapere che le Asl e gli ospedali pubblici debbono pagare imposte, a cui il settore privato non è soggetto, genera sorpresa e soprattutto incredulità anche da parte di persone mediamente preparate su problematiche finanziarie e fiscali ed addirittura anche da parte di medici che operano in queste strutture.
Il Governo Draghi aveva mosso qualche piccolo passo verso l’abolizione dell’Irap – Imposta regionale sulle attività produttive, imposta entrata in vigore nel 1998, sempre contestata sia da esperti che da politici, ma lasciata in vita dai Governi di qualsiasi colore che si sono avvicendati in questi ultimi 24 anni. Questo piccolo passo è consistito nell’abolizione di tale imposta, senza alcun limite, per i lavoratori autonomi che svolgono la loro attività, professionale o di impresa, coadiuvati da dipendenti o collaboratori. Ricordiamo che ai lavoratori autonomi che svolgono l’attività da soli e con limitati mezzi strumentali, l’imposta era stata tolta non da una legge, ma da numerose sentenze della Cassazione, già da una ventina d’anni. Questo vuol dire che sono stati favoriti, a titolo di esempio, i grossi studi professionali, di avvocati, ingegneri, architetti, ecc, nonché delle grosse imprese individuali.
Ebbene, a parere di chi scrive, questo Governo dovrebbe riprendere il cammino verso una seria riforma dell’imposizione sul reddito, recuperando, ove possibile, anche il lavoro svolto nella legislatura appena conclusa; attraverso lo strumento fiscale si potrebbe finalmente ridurre il fabbisogno finanziario del Servizio sanitario nazionale, riducendo il peso delle imposte che gravano irrazionalmente a suo carico dal 1992, cioè dal momento della cosiddetta “aziendalizzazione” delle unità sanitarie locali, nate nel 1978 con la riforma della sanità.
Nel numero del 9 settembre 2019 nell’articolo "Aziende Ssn/Ricetta per il Conte bis: addio al nodo della "tassa sulla bontà e fisco più leggero" e in quello del 23 settembre 2020 "Fisco/Riforma fiscale, ecco da dove cominciare per gli enti del Ssn" , cioè quando ancora sembravano possibili interventi mirati, erano state messe in evidenza le maggiori incongruenze che toccano la sanità pubblica in materia di imposte dirette e le sperequazioni a suo sfavore, non solo rispetto alla sanità privata, ma anche nei confronti degli enti non commerciali privati.
Nel frattempo niente è stato fatto in questa direzione.
A parere di chi scrive sarebbe necessario, nei tempi più brevi possibili, un sistema fiscale completamente nuovo, a cominciare dal nome delle singole imposte, magari redigendo un nuovo Testo Unico che possa correggere le incongruenze, anomalie e sperequazioni esistenti in quello ora in vigore, con disposizioni di facile interpretazione, senza rinvii a norme precedenti, dopo aver ridefinito i principi basilari basati sulla Costituzione.
Nell’intento di fornire un modesto contributo ai politici e agli esperti che verranno incaricati di studiare meccanismi di tassazione più moderni e di più facile applicazione, cercheremo di fare una carrellata sui maggiori problemi fiscali che affliggono la sanità pubblica.
La tassa sulla bontà, spada di Damocle per la sanità pubblica
Ricordiamo innanzitutto che è ancora pendente, da oltre tre anni, il problema della cosiddetta "tassa sulla bontà" (come definita dal Presidente Mattarella), introdotta con la manovra di bilancio 2019 dal primo Governo Conte, abolendo le norme agevolative di cui all’art. 6 del Dpr 601/73 , sospesa poi con la Legge 11 Febbraio 2019 n° 12 (decreto semplificazioni).
Con questa manovra , prima era stata abolita la riduzione al 50% delle imposte sul reddito, non solo per il Terzo settore, ma anche per quelli che all’epoca del varo della Legge, nel 1973, si chiamavano "enti ospedalieri" e poi il Governo aveva fatto marcia indietro ed in sede di conversione del decreto semplificazioni era stata confermata l’aliquota Ires ridotta, ma solo in via temporanea, cioè fino all’adozione, attraverso interventi legislativi, di misure specifiche per gli enti che realizzano finalità sociali con modalità non commerciali, e da armonizzare con la riforma del Terzo settore.
Nella norma sospensiva si faceva riferimento esplicito solo agli enti del terzo settore, per cui non erano chiare le intenzioni del Governo nei confronti della sanità pubblica.
Questo problema richiama alla necessità di definire di fronte alla Legge un trattamento analogo fra i diversi enti ai quali è affidata la gestione della sanità pubblica (Aziende sanitarie territoriali, Aziende ospedaliere, Irccs, Arpa, ecc..), dato che un'ottusa interpretazione della Legge da parte dell’Amministrazione finanziaria ha provocato, negli ultimi vent’anni, un enorme taglio nelle risorse a loro disposizione colpendo in particolare proprio gli enti che gestiscono l’assistenza territoriale.
L’Irap
Per unanime convinzione degli esperti e del mondo produttivo sembra proprio che questa imposta , che nel settore pubblico colpisce le retribuzioni del personale, e che fino dal suo esordio ha raccolto molte critiche anche da parte degli studiosi, debba essere abolita, in quanto l’imposta non ha basi teoriche razionali, è poco comprensibile da parte dei contribuenti ed ha ingolfato le commissioni tributarie per le sue difficoltà interpretative; fra l’altro attualmente il gettito è ridotto ai minimi termine e grava soprattutto sugli enti locali (Regioni, Comuni) e sulla aziende pubbliche come quello del settore sanitario, costituendo così una enorme, inutile partita di giro, che comporta anche costi rilevanti per la sua gestione.
Ricordiamo, per i più giovani, che l’imposta (istituita in sostituzione di una miriade di imposte dirette ed indirette, fra le quali la più importante per gettito era l’Ilor – Imposta locale sui redditi) destinata a finanziare la sanità pubblica, non venne messa a punto dalla Commissione Visentini, , ai primi anni ‘70 del secolo scorso, nel quadro di una riforma di sistema, ma fu ideata dal Ministro Visco, ministro delle Finanze nel primo Governo Prodi e introdotta dal 1998.
Nel settore privato, pur essendo legata a una particolare configurazione del reddito (il valore della produzione netto) penalizzava le imprese che avevano il costo del personale più alto, rispetto a quelle che impiegavano più tecnologia; nel corso degli anni il meccanismo è migliorato, l’aliquota si è ridotta ed il costo del personale può essere conteggiato per ridurre la base imponibile, per cui il gettito totale ( società di capitali, società di persone, enti commerciali) non giustifica la sua esistenza.
Nel settore pubblico l’imposta costituisce una vera e propria forzatura , finalizzata ad un' incremento del gettito complessivo a cui corrisponde comunque un onere rilevante proprio per la sanità pubblica, cosa che costituisce una vera e propria assurdità: i suoi enti sono tassati proprio per finanziare se stessi…
C’era stato uno sforzo enorme, nel momento di ideazione dell’imposta, che per i suoi meccanismi rappresentava una novità assoluta, per trovare quale poteva essere, nel settore pubblico, il "valore della produzione", oggetto dell’imposizione; fu ritenuto plausibile far corrispondere questo valore alle retribuzioni complessivamente pagate ai propri dipendenti e collaboratori continuativi e quella che fin dall’inizio venne considerata una enorme partita di giro fra i diversi soggetti dello Stato, venne giustificata come un elemento utile ad evitare discriminazioni di trattamento fra i settori privato e pubblico, nei casi in cui poteva esserci, almeno teoricamente, una concorrenza, proprio come avveniva fra aziende del Ssn da una parte e case di cura private dall’altro.
Ma intanto l’aliquota del settore pubblico era il doppio (8,5%) di quella del settore privato (4,25% all’inizio); con il trascorrere degli anni il peso dell’imposta per il settore privato è andato man mano a diminuire (per le diverse modalità di calcolo dell’imponibile e per la possibilità di dedurre il costo del lavoro); nessun alleggerimento è mai stato disposto per le amministrazioni pubbliche.
Per fare un esempio della discriminazione nella sanità ricordiamo che nelle aziende del SSn le retribuzioni dei medici, degli infermieri, come di tutti gli altri dipendenti, vengono gravate, con il sistema retributivo utilizzato per le attività istituzionali, di un’aliquota dell’8,5%, da pagare con acconti mensili; le retribuzioni di medici, infermieri, ecc…delle strutture private costituiscono invece costi deducibili dalla base imponibile delle strutture stesse.
In estrema sintesi , fatte pari a 100 le retribuzioni dei dipendenti, nel settore pubblico abbiamo un costo Irap di 8,50; nel settore privato invece, dove sono considerati anche i costi previdenziali ed assistenziali, un minor costo di circa il 6/7 %. La sperequazione a carico del settore pubblico è di circa il 15 per cento.
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