Aziende e regioni

Revisione delle cure territoriali: la confusione non giova al (necessario) obiettivo dell'integrazione

di Angelo Barbato *, Alessandro Nobili *, Livio Garattini *

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24 Esclusivo per Sanità24

Il Governo ha compiuto un passo importante inviando alle regioni la bozza del Decreto ministeriale previsto per mettere in moto la riforma dell’assistenza territoriale. Il Dm contiene solo quattro articoli e indica in un allegato gli standard quantitativi, qualitativi, strutturali e tecnologici per la sanità territoriale e i servizi che a essa fanno capo. L’emanazione di questo provvedimento è un passo preliminare per accedere ai finanziamenti del Pnrr, che ammontano a 19,7 miliardi per questo obiettivo specifico.
È stato osservato ripetutamente che la pandemia ha messo in luce come i servizi territoriali siano il tallone di Achille del nostro Ssn. Non si tratta solo di un problema di risorse esistenti, che pure è importante, ma della necessità di un profondo ripensamento dell’assistenza territoriale che si traduca in riforme strutturali. È necessario partire dal presupposto che le riforme devono rispondere alle esigenze sempre crescenti di una ridefinizione e ricomposizione unitaria dei servizi e degli interventi territoriali, di un’integrazione multidisciplinare dei professionisti che vi operano, di una semplificazione delle modalità di accesso al sistema di cure e, più in generale, di un’attenzione specifica ai bisogni reali dei cittadini. Si tratta quindi di valutare in che misura il modello delineato dal ministero della Salute rispecchi queste esigenze.
All’inizio del documento vengono indicati gli strumenti per perseguire la pianificazione, il rafforzamento e la valorizzazione dei servizi territoriali, in particolare:
1. lo sviluppo di strutture di prossimità, come le Case di comunità (CdC), quale punto di riferimento per la risposta ai bisogni di natura socio-sanitaria dei bacini di utenza locali;
2. il potenziamento delle cure domiciliari, affinché l’abitazione possa diventare il luogo privilegiato di assistenza per i pazienti più fragili e isolati;
3. l’integrazione fra assistenza sanitaria e sociale e lo sviluppo di équipe multiprofessionali che prendano in carico la persona in modo olistico, con particolare attenzione alle condizioni di maggiore fragilità;
4. l’attuazione sistematica della medicina di iniziativa, attraverso la stratificazione della popolazione per intensità dei bisogni;
5. lo sviluppo di servizi digitalizzati, utili per l’individuazione delle persone da assistere, per la gestione dei loro percorsi di cura e per l’assistenza a domicilio, sfruttando gli strumenti moderni di telemedicina;
6. la partecipazione attiva di tutti gli attori presenti nella comunità, ivi inclusi quelli delle autorità locali.
Si tratta di principi del tutto condivisibili in linea teorica, ma a un’attenta lettura del documento emergono alcuni limiti di fondo che ne rendono problematica la traduzione concreta in modelli operativi mirati a una riforma sistemica e integrale dell’assistenza territoriale. Questi limiti possono essere così sintetizzati:
1. molti aspetti del modello che si vuole implementare richiedono uniformità di applicazione da parte delle regioni, in contrasto con la ben nota eterogeneità delle attuali normative regionali, e non appaiono comunque sostenuti da indicazioni vincolanti, lasciando alle regioni ampi margini di discrezionalità;
2. l’articolo 4 del Dm introduce una clausola di invarianza finanziaria, per cui il decreto va attuato senza nuovi oneri finanziari nell’ambito del livello di finanziamento del Fondo sanitario nazionale (Fsn), con l’aggiunta delle risorse del Pnrr. Ciò non appare realistico in relazione alla riconosciuta inadeguatezza del Fsn, considerando anche che il Pnrr non prevede investimenti per il personale, con l’eccezione dell’assistenza domiciliare;
3. l’assegnazione delle risorse umane ai servizi che formano la rete assistenziale viene spesso presentata separatamente, con la logica dei compartimenti stagni per singoli servizi, senza considerarne il possibile utilizzo trasversale. In particolare:
a) per una serie di funzioni, seppure correttamente indicate, non vengono indicati i soggetti che dovrebbero metterle in pratica;
b) in alcuni casi le stesse funzioni sono attribuite a diversi soggetti, senza precisare i motivi delle rispettive attribuzioni e nemmeno fornire indicazioni ai cittadini sul canale prioritario di accesso ai servizi che le erogano;
c) l’integrazione fra le componenti del sistema non viene a volte affrontata attraverso un collegamento diretto tra di esse, ma interponendo un'ulteriore componente per gestirne il collegamento.
Senza entrare nel merito di tutti i dettagli dei vari punti del documento, alcuni esempi serviranno a chiarire concretamente questi rilievi.
• Vengono indicate la "stratificazione della popolazione e l’analisi del bisogno di salute" come "condizioni preliminari per differenziare le strategie d’intervento e prendere in carico gli assistiti sulla base del livello di rischio, dei bisogni e del consumo di risorse", nonché l’identificazione della "stesura del Progetto Salute come conseguenza operativa dell’analisi del bisogno individuale". A livello di popolazione si indica di "effettuare la valutazione del profilo epidemiologico, la definizione della priorità d’intervento e del profilo di offerta più appropriata di servizi"; dopodiché, non viene però precisato a chi spettano questi compiti a livello organizzativo.
• Anche se viene confermato il ruolo delle Aggregazioni funzionali territoriali (Aft) e delle Unità complesse di cure primarie (Uccp) per la promozione della sanità d’iniziativa, non viene specificato quali figure professionali ne debbano far parte e solamente in un passaggio si accenna a una "équipe professionale minima composta da medico e infermiere", quindi indiscutibilmente minima; onde evitare confusione, sembrerebbe più logico almeno specificare che le équipe multiprofessionali di cure primarie corrispondono alle Uccp.
• Ruolo e collocazione dei Medici di medicina generale (Mmg) sono indicati in modo piuttosto confuso. Nel capitolo sul Distretto si specifica che al Distretto spetta il coordinamento dei Mmg; dopodiché, quando si descrive la CdC, si precisa che “essa propone un’offerta di servizi fondata su équipe multi professionali, di cui gli Mmg fanno parte”. Peraltro, in un altro punto si aggiunge che "continuano a sussistere gli ambulatori privati dei Mmg". Non è chiaro se ciò riguardi tutti i Mmg o solo alcuni di essi e non è nemmeno chiaro come sia gestita la suddivisione del lavoro tra CdC e ambulatori privati dei Mmg, né è specificato se tutti i Mmg debbano far parte delle Uccp o se questa scelta sia a discrezione del singolo medico. Questa indeterminatezza rischia di indebolire seriamente la realizzazione delle CdC, creando fin dal principio un terreno assai fertile per favorire la prevedibile disomogeneità delle singole scelte regionali.
• Il ruolo centrale delle équipe di cure primarie collocate nelle CdC per l’assistenza territoriale appare indebolito dall’introduzione di una serie di servizi che sembrano entità separate, a cui vengono attribuite funzioni che si sovrappongono a quelle delle CdC, o addirittura le sostituiscono con modalità non specificate. In particolare:
a) alle Centrali operative territoriali (Cot) vengono assegnati "il coordinamento della presa in carico della persona tra servizi e professionisti nei diversi contesti assistenziali, il tracciamento e monitoraggio delle transizioni da un livello assistenziale all’altro, il monitoraggio dei pazienti assistiti a domicilio, il supporto informativo sulle attività e i servizi distrettuali";
b) nonostante si affermi che intervenire a domicilio è un aspetto fondamentale della sanità d’iniziativa, cioè del modello a cui devono ispirarsi le équipe di cure primarie, l’assistenza domiciliare rimane affidata anche all’Assistenza domiciliare integrata (Adi), un servizio a parte erogato da soggetti non meglio specificati, che in molte regioni è oramai assegnato a operatori privati; tutto questo perché, a nostro avviso, è mancato il coraggio di compiere un passo molto semplice, cioè quello di abolire l’Adi nella sua forma attuale e integrarla nell’ambito dell’assistenza domiciliare come compito delle Uccp;
c) rimane altresì separata l’Unità di continuità assistenziale (Uca), garantita esclusivamente da un medico e un infermiere ad essa addetti, che devono svolgere compiti assegnati in gran parte alle équipe delle cure primarie (curiosamente ancora un medico e un infermiere, vedi sopra); vale qui lo stesso discorso fatto per l’Adi, in quanto le funzioni dell’Uca dovrebbero essere inglobate in quelle delle equipe di cure primarie;
d) nella definizione delle funzioni e degli standard organizzativi delle cure primarie si indica che va garantita la massima integrazione delle competenze psicologiche; peraltro, l’assistenza psicologica è assicurata e governata da un altro servizio, l’Area funzionale di psicologia (Afp), di cui non sono specificati ruoli, collocazione e compiti.
Concludendo, ci sembra di poter affermare che il modello proposto dal documento, al netto di indicazioni generali comunque positive, sembra costruito aggiungendo nuove modalità di lavoro a quelle già esistenti, ma senza mai sostituirle, così perpetuando (per non dire aumentando) la frammentazione degli interventi e la separazione dei servizi. Siamo quindi ancora assai distanti da un’organizzazione della sanità territoriale integrata delle risorse umane e logistiche, caratterizzata da un’impostazione unitaria mirata a coprire l’intero percorso diagnostico-terapeutico del paziente nell’ambito delle cure primarie.

* Centro Studi di Politica e Programmazione socio sanitaria - Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs, Milano


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