Medicina e ricerca

Mielofibrosi, l'impatto delle nuove terapie e le risposte biologiche e cliniche

di Francesco Passamonti*

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La mielofibrosi è una neoplasia mieloproliferativa, in cui le cellule ematiche anormali e il tessuto fibroso si accumulano nel midollo osseo, associata a splenomegalia (o aumento della milza), e connotata da un pesante impatto sintomatologico, da fibrosi midollare e una cattiva prognosi.
Non sono tuttora chiare le cause del suo insorgere, ma è stato rilevato che più della metà dei pazienti presenta una mutazione del gene responsabile della sintesi di una particolare proteina (mutazione JAK2V617F). Si tratta comunque di una malattia rara che colpisce 1 persona su 500.000 al mondo, con un’età mediana della diagnosi di 65 anni.
I fattori di rischio sono appunto l’età, una storia di trombocitemia e policitemia vera e l’esposizione ad alcune sostanze chimiche o ad alti livelli di radiazioni. Può non dare sintomi specifici anche per anni, mentre in alcuni casi il peggioramento delle condizioni è molto veloce. I principali sintomi sono legati allo stato di anemia (debolezza e malessere), alla riduzione di piastrine (emorragia), alla riduzione dei globuli bianchi (infezioni) o alla splenomegalia (dolore e ingombro addominale).
La ricerca medico-scientifica sta ora esplorando nuovi approcci, terapie innovative e nuovi meccanismi d’azione per accelerare il raggiungimento di progressi nella cura delle neoplasie ematologiche, come emerso alla terza edizione di “BeCLose2 Hematology, creating new connections”, momento di confronto per indagare le nuove frontiere dell’ematologia e dei tumori del sangue attraverso una condivisione di esperienze e di evidenze scientifiche.
Attualmente sono due le terapie standard impiegate per la gestione della mielofibrosi, che però non coprono tutte le necessità, cioè l’anemia, la fibrosi midollare, la genetica della malattia. Da qui la necessità dei avere più farmaci “operativi", e la necessità di terapie di combinazione, che hanno pertanto target differenti, proprio perché colpire la cellula attraverso bersagli diversi permette di conseguire livelli di risposta maggiore.
Come emerso da uno studio interventistico di fase II l'impiego delle molecole ruxolitinib e navitoclax ha fatto registrare, in pazienti non pre-trattati, la riduzione della milza in circa il 70% dei pazienti trattati, la riduzione del carico mutazionale JAK2 nel 53% e la riduzione di un grado della fibrosi midollare nel 30-35%.
Si tratta di risultati buoni, sia in termini clinici di risposta ematologica sulla milza, sia in termini biologici di riduzione della fibrosi midollare e di riduzione della carica allelica, cioè la quantità di geni che determinano la malattia.
Questi dati sulla fibrosi midollare e sulla riduzione della carica allelica indicano che c'è un'associazione tra la risposta biologica e molecolare e la risposta clinica, e quindi che la combinazione navitoclax-ruxolitinib può avere un effetto anche sulla biologia della malattia.
Non sappiamo ancora cosa questo voglia dire sulle aspettative di vita delle persone colpite dalla malattia, ma sappiamo, in un setting di pazienti già trattati, che, rispetto alle opzioni terapeutiche tradizionali, l'efficacia di questa nuova terapia può impattare positivamente sulla sopravvivenza, con effetti sia biologici sia clinici.

*Professore Ordinario di Ematologia all'Università di Milano e Direttore di Ematologia della Fondazione IRCCS del Policlinico di Milano


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