Medicina e ricerca
Locatelli: dai linfomi ai tumori solidi le Car-T sono la frontiera più promettente dell’oncologia moderna
di Alessandra Ferretti
24 Esclusivo per Sanità24
Vengono definiti “farmaci viventi” e stanno rivoluzionando l’immunoterapia, a sua volta già considerata da un decennio un “breakthrough” nella cura delle neoplasie, come la celebrò nel 2013 la rivista Science. Sono i linfociti T geneticamente modificati attraverso l’introduzione di una sequenza di Dna che codifica per una proteina chiamata “recettore chimerico antigenico”, meglio conosciuti con l’acronimo CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T-cells). E la loro rivoluzione consiste nel fatto di essere cellule proprie del sistema immunitario di un malato, le quali, dopo aver subìto un processo di riprogrammazione genetica attraverso l’introduzione di una sequenza di Dna che codifica per il recettore CAR, vengono poi reinfuse nello stesso malato e indirizzate specificatamente sul suo bersaglio (antigene) tumorale.
A differenza delle molecole semplici e degli anticorpi monoclonali, l’effetto terapeutico di queste cellule è legato alla loro capacità di moltiplicarsi nell’organismo dei pazienti e di persistere, svolgendo così nel tempo la loro azione terapeutica.
Anche la modalità di preparazione e somministrazione si distingue nettamente da quella degli altri farmaci, solitamente già pronti nella farmacia della struttura ospedaliera. In questo caso, invece, per le cellule CAR T prodotte in ambito accademico è la stessa struttura ospedaliera autorizzata in quanto “officina farmaceutica” o “GMP facility” che deve procedere, dapprima, alla raccolta dei linfociti T del paziente e, successivamente, alla loro manipolazione per dare origine alle cellule CAR-T, le quali, una volta validate per l’uso clinico, vengono quindi reinfuse. Ciò può accadere solo dopo che il medesimo paziente è stato sottoposto a una terapia specifica volta a depletare il proprio sistema immunitario degli elementi T linfocitari, per favorire un’espansione di queste cellule. Una delle poche “officine farmaceutiche” autorizzate dall’Agenzia regolatoria nazionale (AIFA) sulla base di requisiti estremamente stringenti è situata all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove il professor Franco Locatelli è Direttore del Dipartimento di Oncoematologia, Terapia Cellulare, Terapie Geniche e Trapianto Emopoietico. A lui abbiamo chiesto a che punto siamo con lo sviluppo delle terapie CAR-T e quali sono i limiti ovvero le sfide che la scienza si sta preparando a superare.
CAR-T, tumori attualmente trattati e nuove frontiere
“Le CAR-T – spiega il professor Locatelli, che riveste anche la carica di presidente del Consiglio Superiore di Sanità - sono state inizialmente sviluppate per trattare le malattie linfoproliferative a differenziazione B-cellulare, quindi per la leucemia linfoblastica acuta (LLA) a immunofenotipo B nel paziente pediatrico e per i linfomi a grandi cellule B nel paziente adulto”.
“Ad oggi - continua – abbiamo, però, un prodotto CAR-T anche per il trattamento del mieloma multiplo, neoplasia tipica dell’adulto anziano, dove il bersaglio non è più il cluster di differenziazione CD19, come nei due contesti menzionati poc’anzi, ma l’antigene di maturazione delle cellule B (B-Cell Maturation Antigen, BCMA). Se è vero che per questa patologia si sono avuti avanzamenti importanti dovuti alla disponibilità di altri farmaci, è anche vero che essa colpisce soggetti che necessitano di terapie che siano il più possibile selettivamente mirate su un bersaglio specifico”.
Al momento, le frontiere per lo sviluppo delle CAR-T in ambito ematologico sono sostanzialmente tre. “Anzitutto – illustra il professor Locatelli -, a beneficiare di queste terapie possono essere anche i pazienti affetti da linfomi che esprimono la molecola CD30, in particolare i linfomi di Hodgkin, quelli a grandi cellule anaplastiche e altri più rari tipi di linfoma T cutaneo. Come secondo futuro ambito applicativo, troviamo le leucemie mieloidi acute che, se in pediatria rappresentano il 20% di tutte le leucemie acute del bambino, nell’adulto ne costituiscono il 75%. Ma l’orizzonte sfidante più stimolante benché più impegnativo è rappresentato dalle leucemie linfoblastiche acute a immunofenotipo T. Se infatti l’85% delle leucemie linfoblastiche ha origine da un precursore dei B-linfociti, esiste, tuttavia, un 15% che origina da un precursore dei T-linfociti. E quando questo tipo di leucemia ricade, si caratterizza per una prognosi particolarmente impegnativa ovvero per una probabilità di recupero significativamente minore rispetto a quella che si registra nei pazienti neo-diagnosticati”.
Gli studi in corso per ampliare l’efficacia delle CAR-T
Per risolvere questo ed altri limiti, nonché per ampliare ulteriormente lo spettro di applicazione delle terapie CAR-T, gli scienziati stanno attualmente esplorando nuove strategie che illustriamo di seguito.
Il primo problema da risolvere è il fenomeno della lotta fratricida tra cellule CAR-T nella LLA a immunofenotipo T. Spiega meglio il professor Locatelli: “Poiché non esiste un antigene specifico solo per le cellule leucemiche, le cellule CAR-T sono state sviluppate pensando ad attaccare un antigene che è presente sì sulle cellule leucemiche, ma purtroppo anche sui T linfociti non leucemici. Se nelle forme a differenziazione B cellulare ciò pone non sostanziali problemi, per quelle a immunofenotipo T si genera invece il fenomeno per cui le cellule CAR-T si uccidono tra di loro. Questo fenomeno è noto come lotta fratricida”. Per risolvere il problema, si è messo al lavoro uno staff di scienziati di Singapore con cui il gruppo del professor Locatelli ha aperto una collaborazione sul tema. “La strategia consiste nell’avere un costrutto CAR che aggredisce una molecola chiamata CD7, la quale è espressa su tutte le cellule leucemiche T”, ci spiega il professore. “All’interno di questo costrutto, si inserisce una sequenza che nelle cellule modificate blocca l’espressione di CD7 a livello intracellulare, in particolare a livello dell’apparato di Golgi (dal premio Nobel italiano per la Medicina, ndr) e del reticolo endoplasmatico, due organelli presenti nelle cellule eucariotiche. In tal modo, le cellule CAR-T non esprimono CD7 e di conseguenza non vanno incontro alla guerra fratricida. E questo potrebbe costituire un punto di svolta fondamentale per la cura delle leucemie linfoblastiche acute a immunofenotipo T”.
Esiste poi un altro limite rappresentato dalla possibile contaminazione, da parte di elementi leucemici nel sangue periferico, che conducono al rischio di modificare geneticamente anche cellule leucemiche rendendole invisibili all’azione delle cellule CAR-T. “Tuttavia – precisa il professor Locatelli - in quei pazienti in cui vi è una minima contaminazione nel sangue periferico di elementi leucemici, esse rappresentano una prospettiva di straordinario interesse. Ecco perché, anche grazie alla collaborazione di cui sopra, a breve tratteremo il primo paziente con questo approccio innovativo”.
Non vanno, inoltre, dimenticate le potenziali tossicità che le terapie basate sull’uso di cellule CAR-T possono scatenare, primi tra tutti la sindrome da rilascio citochinico in larga parte sostenuta da specifiche molecole (vedi in particolare l’interleuchina-6) e la neurotossicità, che si osserva soprattutto nei pazienti adulti.
“Non potendosi escludere una reazione infiammatoria eccessiva, è importante poter disporre di un gene suicida che ci permetta, una volta attivato, di distruggere le cellule CAR-T nel caso in cui queste tossicità non siano facilmente controllabili con approcci farmacologici”, specifica il professore. E la strategia funziona, visto che proprio al Bambino Gesù di Roma il gruppo di lavoro ha sviluppato un costrutto che integra proprio questo gene suicida.
Le CAR-T per i tumori solidi celebrali
Altra grande sfida è quella dei tumori solidi. Il Dipartimento del professor Locatelli ha investito su quello extracranico più frequente in età pediatrica ovvero il neuroblastoma (120 casi/anno in Italia), che nelle forme metastatiche registra probabilità di sopravvivenza significativamente minori rispetto allo standard per l’oncologia pediatrica, con una percentuale di guarigione del 40-50%.
“Abbiamo sviluppato – riferisce il professore – un costrutto 'di terza generazione', così chiamato perché contiene due domini co-stimolatori”.
La molecola target in questo caso è GD2, che è un disialoganglioside espresso sulla superficie di cellule di neuroblastoma e in una vasta percentuale di neoplasie cerebrali. “Questo è il nostro ulteriore campo applicativo – precisa il professore -, visto che abbiamo affinato un protocollo e una serie di dati preclinici che sono in attesa di approvazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e che ci consentiranno di attivare lo studio anche nei tumori cerebrali.
“Ad oggi - prosegue il professor Locatelli - abbiamo concluso le fasi I e II sull’uso delle cellule CAR T dirette contro GD2 nei bambini con neuroblastoma con risultati incoraggianti che sono in corso di pubblicazione su una delle principali riviste scientifiche internazionali. Un approccio analogo a quello da noi ideato per i tumori cerebrali è stato sviluppato anche all’Università di Stanford dal gruppo di Crystal Mackall, che si basa su un costrutto lievemente diverso dal nostro, ma con un razionale comparabile”.
Se usciamo dal campo dei tumori cerebrali, l’applicazione delle CAR-T si sta studiando anche su alcuni tumori solidi dell’adulto a elevata frequenza e a prognosi ancora oggi non favorevole. “Stiamo lavorando – continua il professor Locatelli, che coordina il progetto finanziato dal Parlamento per lo sviluppo di progettualità precliniche per l’uso delle CAR-T in altre neoplasie - con altri gruppi che si occupano di oncologia dell’adulto nell’ambito di un progetto finanziato da AIRC “5 per mille”, per sviluppare approcci analoghi nei carcinomi del colon-retto soprattutto metastatici e nei carcinomi del pancreas”.
Ed è proprio di alcune settimane fa lo studio uscito sul New England Journal of Medicine che illustra il caso di una paziente 71enne affetta da adenocarcinoma pancreatico metastatico con oncogene KRAS mutato trattata con infusione di cellule T autologhe geneticamente modificate per esprimere un recettore artificiale dei T linfociti mirato al mutante KRAS espresso dal tumore (Rom Leidner, Nelson Sanjuan Silva, Huayu Huang et al., Neoantigen T-Cell Receptor Gene Therapy in Pancreatic Cancer, N Engl J Med 2022; 386:2112-2119, doi:10.1056/NEJMoa2119662).
“Certo viene descritto un solo paziente – commenta il professor Locatelli -, ma non si può nemmeno sottovalutare questo caso che rappresenta una sorta di proof-of-concept, visto che ha ottenuto una regressione della malattia metastatica quantificabile nell’ordine del 72% con una persistenza nel tempo della risposta. E questo è un altro motivo per sostenere come l’immunoterapia con cellule geneticamente modificate, sia attraverso CAR sia attraverso questi TCR artificiali, rappresenti una delle frontiere dell’oncologia moderna tra le più promettenti”.
L’uso delle CAR natural killer
Va parimenti ricordato come nel nostro sistema immunitario esista un altro tipo di popolazione linfocitaria di cellule, chiamate “natural killer”, che hanno almeno la stessa o anche maggiore capacità distruttrice sul bersaglio tumorale di quelle finora descritte e che non provocano aggressione sui tessuti di un ricevente.
Sempre all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù il professor Locatelli e il professor Lorenzo Moretta, Direttore dell'Area di Immunologia, hanno dimostrato come la capacità di controllo delle cellule natural killer (CAR-NK CD19) sia sovrapponibile a quelle delle cellule CAR-T linfocitarie, con il vantaggio che la produzione di citochine proinfiammatorie, in particolare interferon-gamma, è addirittura significativamente inferiore.
L’ultima frontiera affrontata a Roma dal professor Locatelli e dalla professoressa Quintarelli, che opera a fianco del presidente del CSS, è rappresentata dall’uso delle cellule CAR-T allogeniche, cioè ottenute da un donatore sano. “Abbiamo dati molto interessanti su otto pazienti – specifica il professor Locatelli - che dimostrano chiaramente come, impiegando un donatore nei pazienti ricaduti dopo il trapianto (quindi utilizzando lo stesso donatore), si riescano a ottenere dati estremamente promettenti in termini di efficacia. Il timore che queste cellule CAR-T allogeniche potessero determinare malattie del trapianto contro l’ospite perché provenienti da un donatore allogenico si è rivelato finora infondato: in questi otto pazienti non abbiamo mai osservato una tossicità di questo tipo, il che fa pensare che l’effetto mediato dal CAR di gran lunga oscuri e prevenga poi lo sviluppo dei quadri legati alla malattia del trapianto contro l’ospite”.
Se i limiti di una terapia rappresentano sfide di ricerca
Permangono sicuramente una serie di sfide da affrontare che necessiteranno di un contributo fondamentale da parte dei laboratori di ricerca operanti nelle strutture accademiche. Ma che come tali rappresentano anche vere e proprie opportunità. Le spiega ancora il professor Locatelli: “Primo, implementare una maggiore capacità di penetrazione delle cellule CAR T nelle masse tumorali tipiche dei tumori solidi, dove il microambiente è ostile e sfavorevole alla loro azione”.
“Secondo, migliorare il profilo di sicurezza, comprendendo ancor più profondamente le basi fisiopatologiche della neurotossicità legata alle cellule CAR-T, allo scopo di definire l’intera gamma di sintomi neurologici che possono presentarsi, e non solo i segni di encefalopatia (Immune effector cell-associated neurotoxicity syndrome, ICANS, come è stata definita dall’American Society for Transplantation and Cellular Therapy, ndr), che, comunque, resta la manifestazione più frequente”.
“Terzo, traslare gli approcci con le cellule CAR-T anche ad altre patologie ematologiche”. Altre due sfide rilevanti riguardano, infine, la ricerca prettamente scientifica e la sostenibilità. Conclude il professore: “Sarebbe auspicabile impiegare non solo cellule CAR-T, ma anche altre cellule del sistema immunitario, ad esempio le CAR NK che, come già ricordato, rappresentano un’alternativa meno connotata da pericolosità (producono meno citochine infiammatorie) e più immediata disponibilità (sono generabili da un donatore allogenico per l’uso clinico)”.
E poi aggiunge: “Se avessimo evidenza di alta efficacia delle CAR-T in tumori ad elevata diffusione e ci trovassimo a poter/dover trattare più degli attuali 500 pazienti/anno, questo costituirebbe un problema di sostenibilità che un Paese come il nostro che gode di un sistema sanitario solidaristico dovrebbe urgentemente porsi. In tale prospettiva, le istituzioni accademiche potrebbero giocare un ruolo importante, sviluppando modelli manifatturieri decentralizzati su modello dei “point of care” anglosassoni”.
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