Medicina e ricerca
La chimera della continuità assistenziale in Salute mentale
di Fabrizio Starace *
24 Esclusivo per Sanità24
Nei giorni scorsi il Royal College of Psychiatrists inglese ha richiesto azioni urgenti per garantire la continuità assistenziale alle persone dimesse dopo un ricovero per motivi psichiatrici. Il NHS ha fissato nel 2020 un obiettivo ambizioso per i servizi di salute mentale: una visita di follow-up entro 72 ore dalle dimissioni in almeno l'80% dei casi (prima lo standard era a 7 giorni). Secondo gli ultimi dati, tuttavia, solo il 76% dei pazienti riceve una visita entro quel lasso di tempo, considerato quello a maggior rischio di comportamenti suicidari. In altri termini, 38.000 delle 160.430 persone ricoverate tra aprile 2020 e il maggio 2022 non sono state visitate da personale specializzato, a domicilio o presso i servizi territoriali. Adrian James, presidente del Royal College of Psychiatrists, ha affermato con chiarezza che «le risorse attuali – indebolite dalla crisi della forza lavoro – non sono sufficienti per raggiungere questo obiettivo».
La situazione in Italia
Sulla base degli ultimi dati ufficiali resi disponibili dal Ministero della Salute relativi all’anno 2020, la Siep ha calcolato quanti sono i pazienti che in Italia si trovano nella stessa situazione denunciata dai colleghi inglesi. Va specificato che la continuità assistenziale nel nostro Paese viene valutata in un range temporale molto più ampio di quello fissato dal NHS. Pur essendo descritta come una "misura (del)la tempestività con cui i servizi territoriali prendono in carico i pazienti dimessi dalle strutture di ricovero" (ospedaliere o residenziali), essa viene calcolata come % di persone che ricevono una visita psichiatrica entro 14 o 30 giorni dalla dimissione, sul totale dei pazienti dimessi.
Nella tabella allegata sono riportati su base regionale i dati relativi al numero di dimessi di età >18 anni, da reparti ospedalieri di psichiatria (codice 40) e da strutture residenziali psichiatriche. È altresì riportata la frazione di dimessi che ricevono una visita psichiatrica entro i tempi indicati (assegnando di default il valore medio nazionale alle regioni Friuli Venezia Giulia, Calabria e Sardegna, per le quali il dato non è disponibile). Come si rileva, la % di coloro che hanno avuto una visita entro 30 gg dalle dimissioni è moderatamente più elevata che a 14 gg (26% vs. 22%). Ai fini di quest’analisi utilizzeremo solo il primo indicatore.
Nonostante il più ampio lasso di tempo (30 gg Italia vs. 3 gg Inghilterra), è possibile calcolare che in Italia sono oltre 70.000 le persone che a un mese dalla dimissione ospedaliera o residenziale non hanno ricevuto una visita di follow-up sul territorio. Limitando il calcolo ai soli dimessi da ricovero ospedaliero, come fa il NHS inglese, il numero di coloro che non hanno ricevuto una visita di follow-up sul territorio entro 30 giorni è pari a 62.269! Proiettando la stima su base biennale si ottiene un totale di oltre 120.000 episodi di "mancata continuità assistenziale ospedale-territorio" a 30 giorni, che è in numeri assoluti ben tre volte superiore a quella – relativa alle sole 72 ore successive alle dimissioni – che ha allarmato i colleghi del Royal College of Psychiatrists.
Cosa indicano i dati
Quella che viene qui documentata rappresenta una grave carenza del sistema di cura per la Salute mentale nel nostro Paese: la continuità assistenziale ospedale-territorio, invece che costituire regola di riferimento assume caratteristiche di eccezione, riguardando solo una persona su quattro a 30 giorni dalla dimissione. Certo, i dati sono relativi al 2020, primo anno della pandemia da Covid, e risentono delle limitazioni che i servizi hanno adottato in applicazione delle misure di prevenzione del contagio. Tuttavia, se si considerano i dati 2019 (ricoveri ospedalieri cod. 40 = 90.2271; continuità assistenziale a 30 gg = 38,5%2) si ricava un numero di persone "non viste" al follow-up di poco inferiore, pari a 55.490.
Lo stretto rapporto tra servizi territoriali e ospedalieri, peraltro previsto anche sul piano organizzativo (i servizi ospedalieri sono parte integrante del Dipartimento di Salute mentale, unica macrostruttura trans-murale nell’architettura della sanità pubblica italiana) è elemento chiave di un sistema di Salute mentale di comunità. Da essa dipende l’unitarietà dei progetti terapeutico riabilitativi individuali, la condivisa definizione ed applicazione di livelli di intensità assistenziali coerenti con le condizioni cliniche e socio-ambientali della singola persona, il governo dei fenomeni di "porta girevole" e più in generale degli episodi critici. Il quadro che emerge, invece, restituisce un’immagine di lavoro per compartimenti stagni, di interventi segmentari, cui inevitabilmente corrisponde il costituirsi di "sotto-specializzazioni" di fatto, che altrettanto inevitabilmente assegneranno a sé stesse gli esiti positivi e ad altri quelli negativi. Non era questo l’intento della Riforma del ’78, non lo è a maggior ragione oggi, quando si annuncia una riorganizzazione dell’assistenza territoriale che ne riprende e attualizza i princìpi.
P.S. A differenza di quanto accade in Inghilterra, questo indicatore non costituisce in Italia strumento di monitoraggio continuo della qualità dei servizi di salute mentale. Nel Nuovo Sistema di Garanzia dei Lea, gli unici indicatori relativi alla salute mentale riguardano i ricoveri ospedalieri. Sarà il caso di riconsiderarli?
* Direttore DsmDp Ausl di Modena
Presidente Società italiana di Epidemiologia psichiatrica
Presidente Sezione III Consiglio Superiore di Sanità
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