Medicina e ricerca
Droghe “leggere”: sono davvero così leggere?
di Rita Formisano (Direttore Unità Neuroriabilitazione e Post-ComaFondazione Santa Lucia Irccs)
In Italia il 20 percento dei giovani e giovani adulti, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, fa uso di cannabis (Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze). Principale elemento psicoattivo di hashish e marijuana, la cannabis è la droga leggera più usata dagli adolescenti non solo in Italia, ma in tutti i Paesi del mondo. Sul web, canale di comunicazione dal quale a maggior ragione non si può prescindere quando si parla di giovani, proliferano i siti che presentano gli effetti benefici delle droghe leggere. Ma dal punto di vista strettamente scientifico come funzionano sull'uomo queste sostanze attive e quanto sono davvero “leggere”?
La cannabis agisce sul cervello legandosi ai recettori dei cannabinoidi presenti in diverse aree del sistema nervoso centrale. Su questi recettori agiscono normalmente gli endocannabinoidi, molecole prodotte dal nostro organismo, che consentono il fisiologico funzionamento delle attività cerebrali e delle funzioni cognitive.
L'introduzione degli esocannabinoidi dall'esterno, attraverso appunto l'assunzione di cannabis, interferisce quindi con questo normale processo neurofisiologico, provocando deficit dell'attenzione, dell'apprendimento, della memoria e disturbi del comportamento, come hanno documentato già da tempo diversi studi scientifici. Tra questi, K.L. Bolla e altri autori in un articolo comparso su Neurology nel 2002 (Dose-related neurocognitive effects of marijuana use), M.J. Lyons e altri autori in Psychological Medicine (Neuropsychological consequences of regular marijuana use: a twin study – 2004) e J.G. Ramaekers in uno studio apparso nel 2006 sulla rivista Drug and alcohol dependence.
Questi deficit sono dovuti al fatto che i recettori dei cannabinoidi si concentrano soprattutto in aree cerebrali importanti per funzioni cognitive complesse dell'individuo e per la determinazione dei suoi comportamenti. Sono innanzitutto presenti nella corteccia prefrontale, deputata all'iniziativa e al prendere decisioni, alla fluidità verbale, alla capacità di valutare conseguenze e rischi dei propri comportamenti e ai livelli di motivazione. Sono pure concentrati nell'ippocampo, area del cervello fondamentale per memoria e apprendimento, nel cervelletto, che svolge una funzione essenziale nell'equilibrio e nella coordinazione dei movimenti, e nei nuclei della base, responsabili del controllo del movimento. La presenza di ricettori dei cannabinoidi è inoltre significativa nel sistema limbico e nel nucleo accumbens, che svolgono un ruolo importante per quanto riguarda gratificazione, pulsioni istintive, motivazione e comportamento.
Gli effetti che la cannabis ha su queste funzioni sono particolarmente dannosi durante l'adolescenza, quando il cervello si trova ancora in una fase di maturazione. Le connessioni cerebrali della sostanza bianca del cervello, che è ricca di mielina, avvolge gli assoni dei neuroni e permette la trasmissione degli impulsi nervosi, continua infatti il proprio sviluppo fino ai 20 anni, talvolta fino ai 30. Un altro periodo delicato di maturazione del cervello è nella fase prenatale e per questo è bene che anche le donne in gravidanza siano correttamente informate sugli effetti dell'uso di cannabis (R.K. Lenroot, J.N. Giedd, Brain development in children and adolescents…, in Neuroscience & Biobehavioral Reviews 2006).
Gli effetti della cannabis sull'organismo umano sono sia acuti che cronici. Quelli acuti si manifestano entro pochi minuti dall'assunzione della sostanza. Dagli alveoli polmonari la cannabis passa direttamente nel sangue con un picco entro 30 minuti e una durata degli effetti fino a 12 o 24 ore. I più caratteristici sono euforia e ansia, rallentamento psicomotorio, comportamenti deviati e comportamenti a rischio per la propria stessa persona. L'intensità di questi effetti dipende da diversi fattori, come la quantità e qualità della sostanza assunta, la vulnerabilità del soggetto, l'eventuale associazione con altre sostanze tossiche come l'alcool, che in alcuni casi possono condurre anche al coma o a conseguenze minori come arrossamento degli occhi, secchezza della bocca, tachicardia.
Un uso prolungato di cannabis può poi provocare effetti cronici. Il rischio di dipendenza, con gli effetti correlati dell'astinenza, nasce dal fatto che nel nostro sistema nervoso i ricettori dei cannabinoidi sono coinvolti nel rilascio della dopamina, una sostanza del piacere e della gratificazione, che innesca il desiderio impulsivo della cannabis e la tendenza ad aumentarne progressivamente le dosi assunte.
Nel caso di assunzione prolungata si possono quindi verificare effetti cronici come disturbi dell'umore, ansia e insonnia, disturbi psicotici, deliri e allucinazioni, disturbi emotivi e della condotta sociale. A questi si aggiungono i disturbi dell'apprendimento, che incidono negativamente sul rendimento scolastico dei più giovani (I.J. Elkins e altri autori, Personality traits and the development of nicotine, alcohol, and illicit drug disorders..., in Journal of Abnormal Psychology, 2006).
I disturbi provocati dall'uso prolungato di cannabis sono pure documentati dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5) della American Psychiatric Association (APA), che rileva come in particolare i deficit cognitivi e comportamentali finiscano per interferire con la vita familiare, il lavoro e le attività ricreative. La persona manifesta in molti casi apatia, disinteresse, indolenza, improduttività, anedonia, ovvero l'incapacità di provare piacere, fino all'isolamento sociale. I deficit cognitivo-comportamentali sono anche correlati al rischio di incidenti stradali e quindi mortalità o disabilità provocata da trauma cranico e politraumatismi (S.R. Benbadis e altri autori, Medical marijuana in neurology, in Expert review of Neurotherapeutics, 2014). Uno studio pubblicato l'anno scorso dalla rivista della Federazione Mondiale di Neurologia (K. Rumalla e altri autori, Recreational marijuana use and acute ischemic stroke..., in Journal of the Neurological Sciences, 2016) mostra inoltre come l'uso della marijuana a scopo ricreativo comporti un rischio aumentato del 17 percento di ospedalizzazione per ischemia cerebrale, soprattutto nella fascia d'età tra i 25 e i 34 anni. Se è associato al consumo di tabacco, l'aumento del fattore di rischio passa al 31 percento, mentre sale del 42 percento se combinato con l'uso di cocaina.
Altri studi realizzati negli ultimi anni hanno mostrato che l'uso della marijuana è un fattore di rischio non solo cerebrovascolare, ma anche cardiovascolare (S. Jayanthi e altri autori, Heavy marijuana users show increased serum apolipoprotein C-III levels…, in Molecular Psychiatry, 2010), con un ipotizzato meccanismo di azione relativo all'ipotensione arteriosa, alla vasocostrizione, alle aritmie cardiache e alle embolie cerebrali che partono dal cuore (D. Renard e altri autori, Cannabis-related myocardial infarction and cardioembolic stroke, in Journal of Stroke and Cerebrovascular Diseases, 2012). Altri studi, come quello già citato di Selim Benbadis, quello pubblicato nel 2011 da D.L. Wells e C.A. Ott in Annals of Pharmacotherapy, e più recentemente da D.Z. Rose in Journal of the Neurological Sciences (What a downer: The dark side of cannabis, 2016) hanno dimostrato i rischi per il sistema nervoso centrale provocati della nuova marijuana sintetica, come la Spice, reperibile anche via Internet. A questi effetti neurologici sono riconducibili convulsioni, psicosi e perfino il suicidio, che si affiancano ad altri fattori di rischio come ictus emorragico e insufficienza renale. Vista la difficoltà di testare tali nuove droghe con esami di routine, Rose sottolinea nel proprio studio come il rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari possa anche risultare sottostimato.
A prescindere dal dibattito ideologico e politico sulla legalizzazione delle droghe “leggere” e anzi a supporto di un confronto serio sull’argomento, gli studi condotti sull'argomento evidenziano la necessità di campagne d’informazione scientificamente fondate sugli effetti della cannabis. È importante che vengano anche chiarite la differenze, persino chimiche, tra la cannabis utilizzata a scopo terapeutico e quella a uso ricreativo. Diversamente, i termini “legalizzazione” e “cannabis terapeutica” possono indurre l’opinione pubblica e soprattutto i giovani a pensare in modo acritico che le cosiddette “droghe leggere” non solo non siano dannose, ma possano persino portare benefici. Nessuna sostanza chimica o biologica, introdotta dall'esterno nel nostro organismo, che non abbia obiettivi terapeutici necessari e insostituibili, potrà mai avere effetti benefici, soprattutto a lungo termine.
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