Medicina e ricerca
Biofilia e pet therapy, la psiche ne beneficia
di Domenico Bergero (professore ordinario dipartimento di Scienze veterinarie, Università di Torino)
Che gli animali abbiano la possibilità di approcciarsi all’uomo è un concetto molto generale. Si parla infatti di “biofilia” per definire la naturale tendenza umana a instaurare contatti interspecifici. Questi contatti, non sempre facili quando si parla di animali più lontani dal punto di vista filogenetico, o meno avvezzi al contatto con l’uomo, diventano invece più agevoli quando si guarda agli animali domestici. La storia della domesticazione è infatti lunga e complessa: molti animali vivono ormai a stretto contatto con l’uomo da più di 10.000 anni, e il loro ruolo è più volte cambiato: da una fase più utilitaristica e immediata si è passati a forme di vera e propria collaborazione, e in seguito di condivisione di spazi e di attività anche ludiche.
L’esempio del cane è paradigmatico: compagno nella caccia, aiuto nel traino, guardiano di altri animali o del focolare domestico, poi compagno di giochi, sfruttandone anche la “adolescenza prolungata” (neotenia), caratteristica proprio connessa alla domesticazione.
Questa evoluzione ha portato con sé una nuova consapevolezza: quella di avere a disposizione non solo un compagno di giochi, ma un vero e proprio supporto, anche psicologico, utile nei passaggi più complicati della nostra vita. Un’osservazione basilare da questo punto di vista è stata fatta da G. Pethes: il suicidio tra coloro che vivono a stretto contatto con un animale familiare è praticamente assente. Sotto questo profilo - che si collega a un buon equilibrio psichico - l’amicizia di un cane o di un gatto è importante quanto un buon rapporto con i familiari.
Gli animali familiari sono, inoltre, degli ottimi stimolatori di sorrisi e non raramente di risate. Per questo è evidente la grande utilità della loro presenza per persone con depressioni, stati di solitudine o di isolamento, infelicità e bassa auto-considerazione.
In questi casi l’animale permette all’uomo chiuso in sé di aprirsi al mondo esterno, senza un impegno a volte stressante che deriva da un rapporto con un suo simile. Il cane o il gatto, infatti, come molti altri animali che si giovano di un rapporto “ancestrale” con l’uomo, e in particolare il cavallo e l’asino, offrono un amore gratuito e soprattutto non sono mai critici!
Molto importante è il ruolo che gli animali hanno nel gioco spontaneo nei bambini - e che ritorna negli adulti e negli anziani - per un buon equilibrio psichico e, soprattutto, per l’espressione della parte emotiva della psiche umana. È facile intuire quindi come sia importante la presenza di un animale espressivo ed emozionante, come appunto un cane o un gatto, ma anche, in determinate condizioni, di un cavallo o di un delfino, nella vita di persone con disturbi psichici, a patto che non abbiano avversione per gli animali o eccessiva paura delle malattie.
L’uso terapeutico degli animali familiari, per quanto sia relativamente nuovo dal punto di vista scientifico, ha una storia antica. Nelle medicine dei popoli primitivi gli animali hanno sempre avuto un importante ruolo curativo. Anche nell’Egitto dei Faraoni il cane era sacro al dio Anubis, protettore della medicina. Differenti animali d’affezione hanno accompagnato le divinità dei popoli Sumeri, Caldei e Greci, come alcuni santi cristiani invocati per la cura di differenti malattie: dal gallo d’Esculapio al cane di San Rocco.
Nell’era della medicina scientifica, a partire dall’illuminismo, gli animali non hanno visto riconosciuto immediatamente questo loro potere terapeutico. Da alcuni anni però, come detto, si sta rivalutando il ruolo degli animali familiari nella cura e nella prevenzione delle malattie umane, con interventi dolci e che si basano principalmente sul rapporto uomo-animale soprattutto a livello emozionale. L’emozione è infatti un importante elemento che interviene nei rapporti uomo-animale e che può influare la salute.
Anche l’impiego del cavallo e dell’equitazione come strumento terapeutico ha origini antichissime. Già nel 3000 a.C. gli Ittiti impiegavano la disciplina equestre in pedagogia. Ippocrate di Kos (458-370 a.C.) nel suo “Libro delle diete” indicava l’attività equestre come buon rimedio per l’insonnia. Infine, Asclepiade di Prusa (124-40 a.C.) ne “Il moto a cavallo” consigliava l’impiego del cavallo per curare l’epilessia e le paralisi. Circa l’impiego più specifico del cavallo come strumento terapeutico, nel 1758 venne evidenziato il movimento tridimensionale del dorso e nel 1772 Giuseppe Benvenuti scrisse: “Riflessioni sopra gli effetti del moto a cavallo”. Nel 1782, J.C. Tissot identificò, per primo, le tre forme di movimento: attiva, passiva e attiva-passiva e, nel suo “Ginnastica medica o chirurgica” illustrò alcuni esperimenti relativi ai benefici ricavabili dal movimento. Da questi primi tentativi si parte per arrivare agli interventi assistiti con gli animali.
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