Medicina e ricerca
Bioetica, il Comitato che vorrei
di Giovanni Corrao (Statistica medica ed epidemiologia Clinica università Milano Bicoccaper la “Consulta delle Societàscientifiche per la prevenzionedel rischio cardiovascolare”)
24 Esclusivo per Sanità24
Pochi mesi fa (era il 10 maggio 2015) Luca Pani, direttore generale di Aifa, lanciava dalle pagine de Il Sole-24 Ore la proposta di «concentrare le competenze dei Comitati etici in uno solo nazionale, che rappresenti e deliberi per tutte le sperimentazioni italiane». La sfida di Pani ha motivazioni che non possiamo che condividere. Il nostro Paese, a causa di regole bizantine che richiedono lunghi e imprevedibili tempi di approvazione dei protocolli e tariffe drammaticamente superiori a quelle di altri Paesi europei, è poco attrattivo per la conduzione delle grandi sperimentazioni cliniche. Velocizzare i tempi e aumentare l’efficienza è doveroso per essere competitivi sul piano internazionale. Come spesso accade nel nostro Paese, tuttavia, e come argutamente Pani aveva previsto, la sfida ha generato psicodrammi ideologici con posizioni che nulla hanno a che vedere con un equilibrato tentativo di conciliare le legittime aspettative delle parti interessate al buon funzionamento dei Comitati etici (CE): il paziente, il decisore pubblico, il ricercatore, l’azienda farmaceutica. Gilberto Corbellini e Michele De Luca (24 maggio 2015) si inseriscono nel dibattito affermando che «la bioetica è diventata una specie di moderna inquisizione contro la scienza e i bioeticisti sono... diventati una casta che ostacola la ricerca, aumenta i costi dello sviluppo dei farmaci, e in questo modo danneggia i pazienti». Oltretutto «... i Comitati etici si impicciano di cose scientifiche che non sono di loro competenza...». Sull’altro fronte, Alfredo Anzani e Guido Pozza ricordano che «i Comitati Etici sono presidi a salvaguardia dei diritti del paziente» e che «la pluralità, o per meglio dire la capillarità dei Comitati Etici... è una ricchezza che non va dissipata». Maurizio Mori (19 luglio 2015) infine, afferma che «sparare sui Comitati etici e sulle loro disfunzioni è facile, ma è sbagliare bersaglio perché si colpiscono quelle strutture che sono preposte alla tutela del cittadino e del suo consenso informato...». Secondo Mori quindi «il Comitato Unico è una medicina peggiore del male».
La Consulta delle società scientifiche per la riduzione del rischio cardiovascolare - “www.consulta-cscv.it” - si inserisce nel dibattito, proponendo una posizione “laica”, libera da pregiudizi ideologici, ma fortemente condizionata dal quotidiano impegno alla valorizzazione del metodo scientifico.
I Comitati etici devono impicciarsi di “cose scientifiche”? La ricerca medica si basa su due principi etici, entrambi irrinunciabili in un moderno stato di diritto. Il primo, che potremmo annoverare nell’ambito della cosiddetta etica individuale, si traduce in una serie di norme tese a garantire che il singolo cittadino sia informato, volontariamente offra il proprio consenso e sia tutelato dai rischi conseguenti alla sperimentazione alla quale partecipa. Il secondo, basato sulla cosiddetta etica collettiva, è anch’esso espressione di un sacrosanto diritto, quello dell’avanzamento della conoscenza finalizzata al continuo miglioramento delle cure. La storia ha insegnato che il diritto debba sempre basarsi sull’equilibrio tra questi due principi. La protezione del singolo individuo è da salvaguardare, non c’è dubbio. Ma anche l’etica collettiva è un valore. Io, privato cittadino sono orgoglioso che i dati che mi riguardano vengano utilizzati per migliorare le conoscenze direttamente rivolte a curare in modo sempre più adeguato chi si ammalerà in futuro della mia stessa malattia. Questo è un principio che saremmo tentati di annoverare sul piano dei nostri doveri, piuttosto che dei diritti (ma lo diciamo sottovoce per evitare di essere tacciati di “autoritarismo scientifico”). L’esercizio di questo principio, tuttavia, dovrebbe misurarsi con altre garanzie. La più importante è che i risultati delle sperimentazioni consentano effettivamente di migliorare le nostre conoscenze. Il rischio dal quale ognuno di noi dovrebbe essere tutelato è quello di partecipare a una sperimentazione mal disegnata (ad esempio perché la numerosità campionaria è insufficiente per rispondere al quesito sotteso allo studio) e/o che dietro il vessillo della ricerca si nascondano finalità di promozione di questo o quel farmaco (promozione del mercato piuttosto che protezione della salute). Quindi a nostro avviso i CE devono “impicciarsi” di “cose scientifiche”. Ma devono farlo con competenza.
Cosa ostacola il funzionamento dei Comitati etici in Italia? Nella nostra esperienza abbiamo visto di tutto. Quando, come spesso accade, siamo chiamati a esprimerci su sperimentazioni già approvate dal Comitato etico (CE) del centro promotore (che ha espresso il cosiddetto parere unico) abbiamo visto consensi informati incredibili, procedure invasive, rischiose e non standard in studi classificati come osservazionali, disegni sperimentali lacunosi, analisi statistiche inesistenti o poco credibili. Ci siamo chiesti, il CE del Centro promotore aveva veramente letto questi protocolli o erano prevalse l’autoreferenzialità, il desiderio di non ostacolare la sperimentazione promossa dal collega, o l’oggettiva incompetenza? D’altro canto abbiamo anche visto di tutto sull’atteggiamento ostruzionistico dei Comitati satelliti, quelli cioè che non dovrebbero entrare nel merito e invece lo fanno a volte con aperta ostilità. Un danno immenso, vista anche la ormai comune regola del reclutamento competitivo, che mette fuori gioco i ritardatari. Da qui il grido di dolore di Pani: «i Comitati etici satelliti entrano frequentemente nel merito dopo la formulazione del parere unico, richiedendo nuovi chiarimenti..., anziché accettare o rifiutare il parere come previsto. I tempi allora si allungano e il Paese perde sperimentazioni importanti».
La soluzione in atto. È in atto un processo di riorganizzazione che, in accordo con il decreto Balduzzi (Dm 8 febbraio 2013), prevede una drastica riduzione del numero di CE (si è passati da più di 200 a circa 90) da rendere operativi in rete. Evitando valutazioni multiple dello stesso protocollo, ciò dovrebbe nelle intenzioni semplificare operativamente l’iter delle sperimentazioni cliniche e ottimizzare la tempistica, in tal modo adeguandosi anche alle previsioni normative del futuro Regolamento europeo sugli studi clinici.
La soluzione in atto, dunque, non è un CE unico per tutta l’Italia bensì il ricorso al parere di un unico Comitato per ogni studio. In altri termini, piuttosto che la frammentazione dei pareri richiesti ai CE di ogni centro che contribuisce alla casistica (e la conseguente lievitazione di costi e tempi), lo sponsor decide di chiedere il parere di un unico Comitato. Questo processo è, a nostro avviso, una strada funzionale per velocizzare i tempi e ottimizzare l’efficienza dei CE e aumentare la nostra capacità di competere con altri Paesi nel settore della sperimentazione clinica dei farmaci.
Questa strada tuttavia, pur necessaria, non è sufficiente. È un preconcetto ideologico immaginare che gli sponsor si rivolgano prevalentemente ai CE che, forse più veloci, sono meno critici sugli aspetti etici sopra richiamati?
Il problema non sufficientemente dibattuto riguarda le competenze che i CE dovrebbero esibire per svolgere adeguatamente il delicato compito loro affidato. È vero che il sopracitato “Decreto Balduzzi” norma attentamente la composizione dei comitati (3 clinici, un medico di medicina generale, un pediatra, un biostatistico, un farmacologo, un farmacista...), ma non la verifica delle competenze. È infatti del tutto evidente, anche in base all’esperienza maturata da molti di noi, che i comitati etici sono “normalmente” costituiti da volontari, che si prestano con entusiasmo a un’attività comunque considerata di prestigio, ma non sempre esibiscono competenze adeguate.
Conclusione. Riassumendo, il CE è chiamato a svolgere una funzione molto complessa e delicata in quanto al tempo stesso strategica (perché il suo cattivo funzionamento compromette la competitività del nostro paese nel campo della sperimentazione clinica), attenta alle esigenze del cittadino (salvaguardandone i diritti fondamentali, prima di tutto quello di poter scegliere con cognizione di causa) e competente sulle regole della ricerca scientifica.
Abbiamo l’impressione che, anche grazie alla spinta in avanti del Direttore Pani, stiamo andando nella direzione di rendere più efficiente il sistema. Piuttosto che un CE nazionale, soluzione che allo stato attuale ci sembra poco realistica, la riduzione del numero di CE e l’attribuzione della responsabilità di ogni studio a un unico Comitato, ha l’indubbio vantaggio di assicurare una maggior efficienza al sistema. Anzi, ridurre ulteriormente il numero di CE (ad esempio 3-5 comitati per ogni macroregione) e rendere più snello l’azione di ogni Comitato (ad esempio con un limitato numero di componenti che possano servirsi di revisori esterni qualificati) renderebbe ancor più efficiente il sistema. Sulla sua efficacia abbiamo qualche riserva.
Forse perché rassegnati a un paese dove la cultura scientifica fatica ad affermarsi e l’improvvisazione prevale sulla professionalità, siamo scettici sulla possibilità che, in assenza di specifici investimenti e robuste iniziative formative, i CE possano garantire il rispetto dei fondamentali diritti dei cittadini e della società.
Eppure poche e specifiche azioni potrebbero essere sufficienti per superare le criticità sopra evidenziate. Noi pensiamo che incompetenze e autoritarismi possano essere limitati se il processo di riorganizzazione in atto prevedesse:
1. che i Presidenti dei CE siano scelti da una lista di personalità selezionate dal ministero della Salute, sulla base di curriculum e manifestazione di interesse;
2. che i CE siano sottoposti a meccanismi di verifica della loro azione non solo in relazione ai tempi entro i quali espletano le pratiche di revisione, ma anche all’adeguatezza dei pareri rispetto alla normativa vigente in tema di buona pratica della ricerca clinica;
3. la promozione di specifiche iniziative formative tese a migliorare le professionalità dei CE.
In un’ottica di economia di scala, ovvero utilizzando il bacino che le società scientifiche possono mettere a disposizione degli organi di governo, la Consulta delle società scientifiche per la riduzione del rischio cardiovascolare offre il proprio contributo costituito da molte competenze specifiche (che riguardano cioè esperti in ogni specifico settore), solide (come documentato dai contributi a studi clinici anche complessi), fortemente orientate al metodo scientifico (come suggerito da elevati punteggi negli indici bibliometrici) e alla formazione (spesso maturata nelle aule universitarie).
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