Lavoro e professione
Contratto medici, ora scatta il rebus dell'applicazione
di Stefano Simonetti *
24 Esclusivo per Sanità24
Le norme giuridiche possiedono le caratteristiche dell’astrattezza, della generalità e della coattività. Una norma è, in buona sostanza, un enunciato che ha il fine di stabilire un comportamento condiviso secondo le necessità e le convenienze rilevate all'interno di una collettività o di un gruppo sociale. Un corpo normativo – sia esso unilaterale, bilaterale, autoritativo o pattizio - costituisce un insieme di regole che concorrono a disciplinare la vita organizzata di due o più soggetti con lo scopo di regolare il comportamento dei singoli. Inoltre, le norme giuridiche dovrebbero essere diffusamente intellegibili come, ad esempio, avviene nel mondo anglosassone. Invece nel nostro Paese la semplice lettura di un testo legislativo o di un contratto di conto corrente sono a volte un’impresa nella quale trovano difficoltà gli stessi addetti ai lavori. Tra le tipologie di norme giuridiche, in quanto a opacità e difficoltà di lettura, spiccano le clausole dei contratti collettivi di lavoro – la cosiddetta "autonomia collettiva" - che spesso non riescono a definire con chiarezza il perimetro dei reciproci diritti e obblighi del datore di lavoro e dei suoi dipendenti, fattore particolarmente importante nel settore pubblico alla luce dei principi sanciti nell’art. 97, comma 1, della Costituzione. Peraltro, in relazione ai contratti collettivi, una motivazione specifica di tale circostanza è quella di costituire una regolazione di natura pattizia che, giocoforza, è l’esito di mediazioni e compromessi che devono rispondere alla reciproca convenienza delle controparti a stipulare la norma stessa. E, a tale proposito, vorrei ricordare che nell’art. 3 del primo Ccnl del 1996 si leggeva che "in coerenza con il carattere privatistico della contrattazione, essa si svolge in conformità alle convenienze e ai distinti ruoli delle parti e non implica l’obbligo di addivenire a un accordo", da cui deriva il principio fondante che contrattare è un obbligo, concludere no: evidentemente nel pomeriggio di giovedì 28 settembre queste reciproche "convenienze" si sono realizzate e, naturalmente, ciascuno può offrire la propria versione rispetto a cosa ha mosso la parte pubblica e la controparte sindacale a trovare un "accordo". Ed è ovvio che esistono molteplici variabili interne e condizionamenti esterni dello scenario negoziale. Dunque è un compromesso quello che sostanzialmente è avvenuto la settimana scorsa quando è stato firmato il rinnovo dell’Area della dirigenza sanitaria.
Non so se quello stipulato sia un contratto buono o cattivo: è "un" contratto e l’avvenuta stipula dopo 21 mesi dalla sua stessa scadenza è di per sé già un elemento positivo. È impossibile affrontare nel dettaglio l’intero testo del contratto collettivo siglato in Preintesa lo scorso 28 settembre. Per cui cercherò di concentrare l’attenzione e l’analisi sulla tematica più calda della trattativa, quella cioè dell’orario di lavoro o, per dire meglio, delle eccedenze orarie non riconosciute.
È necessario un riassunto delle puntate precedenti. Nel precedente Ccnl del 19.12.2019 l’art. 30 conteneva alcuni aspetti di fondamentale importanza. Innanzitutto veniva per la prima volta richiamato in un contratto collettivo il principio contenuto nell’art. 15, comma 3, del decreto 502 del 1992 – secondo la novella del cosiddetto "decreto Bindi" secondo cui "il dirigente … è responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito". Tali eventuali eccedenze erano regolamentate dall’art. 65, comma 3, del Ccnl del 5.12.1996 – confermato espressamente dall’art. 93, comma 5 del contratto del 2019 – nel senso che "la retribuzione di risultato compensa anche l’eventuale superamento dell’orario di lavoro". È necessario dire subito che quest’ultima norma è stata ora disapplicata (ma fino all’entrata in vigore ufficiale sarà in vigore), per cui il principio di legge rimane senza seguito contrattuale se non quello nuovo di cui si parlerà. Per comprendere le ragioni che hanno portato alla esasperazione della questione delle eccedenze, è giusto ricordare che dal 1999 a oggi sono passati anni luce dal punto di vista organizzativo e del finanziamento del Ssn. La norma del decreto delegato 229/1999 va contestualizzata in un momento storico di grande espansione della Sanità pubblica, mediata attraverso l’aziendalizzazione, nel quale le dotazioni organiche e il finanziamento delle aziende erano incomparabili rispetto alle rispettive situazioni degli ultimi anni. Voglio dire che imporre un criterio di efficienza e recupero di produttività - visto che l’art. 15, comma 3, altro non è – era perfettamente logico e funzionale alle neonate aziende ispirate alle famose tre "E" della riforma e il cui organo di governo era dotato di "autonomia imprenditoriale"s. Ma lo sfacelo che in seguito è progressivamente avvenuto ha reso sempre più incoerente il richiamo fatto nel 1999 a principi aziendalistici di efficienza ormai non più ragionevolmente esigibili dopo anni di mancata copertura del turn over e di sottofinanziamento del sistema pubblico.
Non si è trattato di una interpretazione estensiva dell’art. 15, comma 3 bensì della sua difesa acritica e a volte impropria fino a produrre veri e propri abusi, con un sostanziale supporto da parte della giurisprudenza della Cassazione. Ma il rapporto tra l’art. 15 e le reali condizioni organizzative degli ospedali ha assunto contorni distopici e la stessa Cassazione è arrivata a sancire gli abusi riconoscendo addirittura il danno biologico. A corollario di tutto ciò va ricordata la costante depauperizzazione del fondo di risultato, con il picco del 2005 quando furono scippati 1.425 euro pro capite, che naturalmente ha reso sempre meno attrattiva la compensazione delle eccedenze con la retribuzione premiante.
Troppi errori sono stati fatti in passato - da entrambe le controparti -, troppi equivoci e riserve mentali si sono messi in atto su cosa è lo "straordinario", troppo contenzioso selvaggio si è generato, troppe inadempienze da parte delle aziende, senz’altro forzate dalle sciagurate normative vigenti. La vera soluzione è solo quella di ricondurre l'orario di lavoro alla sua natura fisiologica e al rispetto pieno e inderogabile della normativa comunitaria. Ma per raggiungere questo obiettivo è indispensabile mettere le mani sulla parallela problematica degli organici dei medici ospedalieri che è una faccenda extracontrattuale sulla quale nessuno - e ripeto nessuno – interviene in modo fattivo e definitivo. Se le aziende sanitarie per garantire la continuità dell’assistenza ricorrono a milioni di ore di "eccedenza"s oraria senza nemmeno garantire la fruizione delle ferie o di quelle obbligatoriamente riservate all’aggiornamento, non può che significare che esiste una evidente notevole carenza di medici; o, meglio, di medici di talune discipline.
Quali erano le soluzioni alternative per sanare la situazione, ormai ingovernabile ? La prima era quella di resistere strenuamente sulle posizioni del passato puntando tutto sulla norma del decreto Bindi e sulla giurisprudenza sostanzialmente favorevole: impossibile da sostenere perché alla fine avrebbe generato rivolte negli ospedali. La seconda era quella di accettare l’impostazione dei sindacati e consentire il pagamento o il recupero di tutti i milioni di ore asserite come "regalate" alle aziende: impossibile anch’essa perché avrebbe causato un default finanziario generale.
Ecco che allora non restava che un mix delle due soluzioni che è quello che si può leggere nell’art. 27 il quale – è bene dirlo subito – è maledettamente complesso da capire prima ancora che da applicare. La lunghissima clausola di cui parliamo (22 commi contenuti in ben quattro pagine) ha la struttura del pregresso art. 24 del Ccnl del 2019 con alcuni interventi novativi, soprattutto nei commi 3 e 8. Ma fin dal comma 1 si rileva una affermazione importante perché parlando della negoziazione di budget per definire gli obiettivi prestazionali si precisa "in coerenza con le risorse umane e strumentali in essere salvaguardando la sicurezza e la qualità delle cure": come dire che gli organici dei medici e le loro diffuse e croniche carenze non possono essere una variabile indipendente in sede di negoziazione ma anche in senso dinamico durante il successivo espletamento del servizio. Nel comma 3 si delinea per la problematica dell’extra orario una soluzione a fasce o moduli successivi che ha la finalità di rendere attrattiva e ragionevole la quota di risultato che funge da stanza di compensazione di una parte di orario eccedente e, per tale ragione, ritengo che il comma 3 non sia applicabile ai medici extramoenisti. Tale format potrebbe così essere schematizzato:
• il debito orario settimanale ordinario è di 38 ore di cui 4 riservate ad attività non assistenziali;
• l’azienda in sede di budget può utilizzare, in forma cumulata, 30 minuti settimanali delle quattro ore;
• il lavoro straordinario resta destinato a "fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali" e alla "chiamata in servizio per pronta disponibilità". Sparisce dalle causali dello straordinario il servizio di guardia notturna e festiva;
• una parte di extra orario "si considera utile al raggiungimento degli obiettivi e programmi di lavoro concordati da realizzare". Queste ore non sono retribuite e restano compensate dalla retribuzione di risultato. La vera grande novità è che per tale tempo lavoro viene fissato un tetto che si calcola in modo molto complicato e di cui diremo dopo;
• l’"eventuale ulteriore impegno orario" può essere recuperato con riposi compensativi da fruire fino a 12 mesi dalla prestazione;
• se tuttavia fosse necessario un impegno aggiuntivo (è il terzo), fermo restando quanto detto nel punto precedente, l’azienda può - attenzione, non è obbligata ! – concordare con l’équipe il ricorso alle prestazioni aggiuntive la cui tariffa viene portata a 80 euro, peraltro incrementabili.
Punti oscuri della clausola sembrano da subito la formula per il tetto e la successione delle varie fasi. Partiamo da quest’ultimo aspetto. L’ultima fase disciplinata dal comma 8 è, come già detto, discrezionale per cui c’è da chiedersi cosa accade se l’azienda non è disposta a erogare le prestazioni aggiuntive ma anche se l’equipe o il singolo medico possono rifiutarsi di prestarle. L’ombra dei famigerati ordini di servizio si profila all’orizzonte e forse era il caso di chiarire espressamente che le prestazioni aggiuntive non sono obbligatorie e che rientrano nel limite massimo delle 48 ore settimanali. E veniamo alla definizione delle ore massime da "regalare" all’azienda in forza del budget negoziato. Si tratta di una franchigia o, più tecnicamente, di un contingentamento del principio di efficienza.
L’alternativa al terribile algoritmo che le Regioni avrebbero preferito era un riconoscimento flat di 180 ore annue (4 alla settimana, guarda caso pari a quelle per l’aggiornamento) da rendere gratuitamente ma è prevalsa la scelta di lasciare grande flessibilità in ragione delle situazioni aziendali. Innanzitutto un paio di perplessità di natura tecnica. Nel "numero dei dirigenti in servizio al 1° gennaio dell’anno di riferimento" vanno considerati anche i primari? e i dirigenti non medici? e i dirigenti a rapporto non esclusivo? Riguardo alle prime due domande, penso di sì per l’assenza di esplicite indicazioni contrarie ma per la terza non dovrebbe avere senso conteggiare anche soggetti che non hanno diritto alla retribuzione di risultato. È di tutta evidenza che il fattore del rapporto variabile (il valore 40 del divisore è fisso) è proprio quello del numero dei dirigenti in quanto più questo è alto e meno ore aggiuntive si possono chiedere.
Una altra questione attiene alla "disponibilità" del fondo di risultato. Il Ccnl chiarisce che nell’importo da considerare non sono ricomprese le risorse derivanti dalle certificazioni Inail e quelle che provengono come residui dal fondo della posizione. Bene: ma qual è il momento di fotografare la disponibilità del fondo, prima o dopo l’eventuale traslazione di risorse verso il fondo di posizione (fino al 30%, tuttora praticabile) ovvero per il welfare integrativo? La clausola contrattuale non dice "al 1° gennaio dell’anno di riferimento" perché questa precisazione è dettata solo per il numero dei dirigenti. Minore è la disponibilità del fondo di risultato e minore risulta la media pro-capite, con la conseguenza che è minore anche il numero di ore non retribuite e queste considerazioni inducono a particolari valutazioni strategiche da parte della contrattazione integrativa. Infine, è da ritenere che molte differenziazioni sul campo saranno date dalla consistenza dei fondi, perché è noto a tutti che in moltissime aziende essi sono quasi prosciugati.
La simulazione. Ho provato a fare delle simulazioni sulla scorta dei dati ricavati dai siti istituzionali di tre aziende, una del nord, una del centro e una del sud. La prima azienda conta 1.904 dirigenti e una disponibilità del fondo di risultato di 4.093.000, da cui deriva una quota media di 2.149 euro e, quindi 54 ore annue esigibili (5 alla settimana). La seconda azienda conta 615 dirigenti e una disponibilità del fondo di risultato di 664.000, da cui deriva una quota media di 1.083 euro e, quindi 27 ore annue esigibili (2,5 alla settimana). La terza azienda conta 939 dirigenti e una disponibilità del fondo di risultato di 797.000, da cui deriva una quota media di 849 euro e, quindi 21 ore annue esigibili (meno di 2 alla settimana). Se ci si attestasse su un pacchetto di ipotetiche 4 ore gratis, si potrebbe verificare il seguente schema: 34 + 0,30 + 4 + N (da recuperare) + N (da pagare come prestazioni aggiuntive) + eventuali ore di lavoro straordinario. Immagino cosa potrà essere la gestione del cartellino delle presenze di un medico ospedaliero che contiene almeno cinque diverse configurazioni normo-economiche dell’orario "timbrato"! In conclusione, si permetto di ironizzare affermando che la gestione dovrebbe essere affidata al prof. Giorgio Parisi perché poche situazioni come questa somigliano alla fisica dei sistemi complessi.
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