Lavoro e professione
Contratto del comparto/ Le progressioni economiche, l'inclusione e la controversa questione del "merito"
di Stefano Simonetti
24 Esclusivo per Sanità24
Quello firmato il 2 novembre 2022 è il diciottesimo contratto collettivo del comparto della sanità dell’era della contrattazione collettiva di stampo privatistico post riforma Amato. Dalla sigla della Preintesa del Comparto della Sanità alla chiusura sono passati quasi cinque mesi (140 giorni) e questo lasso di tempo non è stato sostanzialmente maggiore rispetto al precedente contratto del 2018 (quasi quattro mesi). Molte sono le innovazioni introdotte dal Ccnl: alcune reali, altre solo apparenti. Tra le prime rientra sicuramente il sistema indennitario, mentre il ripristino delle progressioni di carriera non costituisce una novità assoluta perché esistevano fino al 2010 e anche il sistema degli incarichi non è nuovo, ma solo estremamente più complesso. Un aspetto innovativo sono le progressioni economiche che cambiano in modo molto controverso ed è questa la tematica che intendo affrontare in questa sede.
In ottemperanza alle direttive regionali contenute nell’Atto di indirizzo del 2 agosto 2021 (paragrafo 4), viene superato il pregresso regime delle progressioni economiche orizzontali (Peo) e, sulla scia del Ccnl delle Funzioni centrali, con l’art. 19 si introducono "differenziali economici di professionalità" (Dep), da intendersi come incrementi stabili del trattamento economico finalizzati a remunerare il maggior grado di competenza professionale progressivamente acquisito dai dipendenti nello svolgimento delle attribuzioni proprie dell’area di classificazione. Questa nuova voce retributiva ha la medesima natura dello stipendio tabellare e costituisce un elemento dinamico collegato alla carriera economica individuale; è irreversibile e prevede la "portabilità" in tutti gli eventi lavorativi del dipendente. Detto questo sulla natura giuridica, mi sembra giusto iniziare dagli aspetti semantici, perché si passa dalle Peo ai Dep in piena omologazione a quanto era già avvenuto nel comparto delle Funzioni centrali. Per l’ennesima volta, importanti scelte negoziali sono state imposte a tutti indistintamente, in contrasto, tra l’altro, con lo stesso Atto di indirizzo del Comitato di settore che non forniva certo tale indicazione, visto che parlava genericamente di "passaggi". E l’innovazione terminologica è passata senza nemmeno tenere conto che la legge stessa le chiama "fasce di merito"; evidentemente la parola "merito" genera una idiosincrasia in tutti gli attori negoziali. Ma si sa che accade molte volte che gli aspetti formali tentano di nascondere o minimizzare gli aspetti sostanziali: è il metodo di "Cambiare il Nome quando insoddisfatti della Cosa", segnalato acutamente da Stefano Bartezzaghi su La Repubblica del 22 ottobre scorso.
Da decenni le progressioni economiche hanno costituito una materia conflittuale nell’ambito della contrattazione integrativa aziendale e numerose sono le sentenze del Giudice ordinario e della Corte dei conti sulle applicazioni distorte dell’istituto contrattuale. L’Atto di indirizzo del 2021, nel paragrafo 4, dava l’indicazione all’Aran di "prevedere la possibilità di introdurre un numero massimo di passaggi nell’arco della vita lavorativa, in un quadro di sostenibilità economico-finanziaria, equilibrio del sistema e sua razionalizzazione". Il contratto ha adempiuto a questa indicazione prevedendone 7 per la quarta Area e 6 per le altre Aree, ma in tal modo un lavoratore potrebbe trovarsi a 50 anni senza alcun ulteriore possibilità di carriera. Inoltre, il Comitato di Settore indicava un altro obiettivo, quello di prevedere "un limitato riequilibrio … che renda il sistema di progressione maggiormente inclusivo". Il nuovo Ccnl con l’art. 19 ha disciplinato queste progressioni all’interno delle aree e ha previsto che una quota non superiore al 10% delle risorse sia destinata a coloro che nelle precedenti progressioni non hanno mai avuto la fascia ovvero non più di due in 20 anni.
Questo recupero di coloro che non hanno in passato beneficiato delle Peo risponde, come detto, alla richiesta delle Regioni di una maggiore inclusività – è ben strano, in ogni caso, che sia stata chiesta dagli stessi datori di lavoro – e l’obiettivo di pace sociale e perequazione salariale è evidente. Tuttavia, la scelta appare in contrasto con la stessa nuova formulazione del comma 1-bis dell’art. 52 del TUPI, novellato dalla legge 113/2021, ma anche con tutto l’impianto del Titolo III del d.lgs. 150/2009 che tratta di “merito e premi” e individua sette strumenti – tra i quali le progressioni economiche dell’art. 23 – per premiare il merito e la professionalità.
Il contratto, dunque, introduce una fase preventiva di inclusività per coloro che da più tempo non hanno beneficiato di progressioni economiche, riservando a tal fine una quota non superiore al 10% delle risorse destinate alle progressioni economiche dell’anno di riferimento. Nessuno viene lasciato indietro e si recuperano tutti i dipendenti che per anni – fino a 10 ! – non hanno mai beneficiato delle progressioni economiche. Se si dà per scontato, fino a prova contraria, che le procedure aziendali siano state gestite in modo corretto e imparziale, per quale motivo devono essere per forza premiati coloro che in passato non lo sono stati ? Ci sarà pur stato un motivo e la legge vigente impone meritocrazia e selettività perché i lavoratori non sono tutti uguali. Non sembra coerente abbandonare la ricerca e la valorizzazione del merito proprio in un momento storico in cui questo concetto entra addirittura nella denominazione ufficiale di un ministero. Ma tutto ciò è la conseguenza dell’accezione quasi totemica che è stata assegnata al concetto di "maggiormente inclusivo".
È di tutta evidenza che una delle chiavi di volta di questa parte del contratto è la individuazione della una "quota delle risorse così destinate così non superiore al 10%", perché è un passaggio propedeutico per quello generale, ma anche perché le parti potrebbero anche decidere di riservare un 1 % all’inclusività. Una considerazione finale sulla questione del “merito” e delle diverse e contrastanti accezioni che vengono attribuite a questa parola. Sembra che per molti il merito sia un "demerito", se mi si passa l’ossimoro, e forse lo stesso ricorso al termine "inclusivo" è lo specchio di questa tendenza ma in un contesto di contrattazione collettiva lo trovo fuori luogo.
L’inclusione è un termine che in ambito sociologico nasce per ben altre situazioni e contesti e riferirlo a lavoratori con il posto sicuro e uno stipendio fisso non mi sembra il massimo dell’obiettività. Nella sfera del sociale, inclusione significa appartenere a qualcosa, sia esso un gruppo di persone o un’istituzione, e sentirsi accolti. Si può comprendere allora da cosa derivi la necessità dell’inclusione sociale, perché tra gli individui possono esserci delle differenze a causa delle quali una persona o un gruppo sono “esclusi” dalla società. I motivi che possono portare all’esclusione sociale sono diversi: razza, sesso, cultura, religione, malattie, disabilità, povertà. Queste sono tutte caratteristiche che con la progressione economica di cui stiamo parlando non hanno francamente nulla a che fare. Se l’inclusione sociale ha l’obiettivo di eliminare qualunque forma di discriminazione all’interno di un contesto sociale, la sua applicazione in ambito lavorativo è quantomeno forzata.
Tornando al merito, sono recentissime varie dichiarazioni sulla tematica, indotte senz’altro da talune scelte semantiche del nuovo Governo. Il neo ministro della Pubblica amministrazione Zangrillo, nella sua prima intervista, ha dichiarato «io non penso che il sindacato sia contrario al pensiero di premiare il merito perché ne va a vantaggio dei dipendenti». La seconda è di Pietro Ichino che sul Corriere della sera del 28 ottobre ha scritto un articolo dal significativo titolo "Perché la sinistra deve credere nel merito". E, infine, segnalo l’illuminante articolo di Massimo Recalcati su La Repubblica del 31 ottobre dal titolo "Merito al merito". Il concetto di "merito" non solo è esplicitamente presente nelle leggi fondamentali sul pubblico impiego ma è anche citato nella stessa Costituzione. Deve, allora, ritrovare la sua dignità e accezione positiva perché ha un'indiscutibile forza democratica e deve riuscire a rappresentare il contrasto più efficace a diffusi fenomeni che esistono nel mondo del lavoro come in quello dell’istruzione, quali le raccomandazioni, il nepotismo, i privilegi ereditati, le rendite di posizione, e in definitiva, l’appiattimento delle aspirazioni professionali fino alla loro mortificazione.
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