Lavoro e professione
Le farmacie private, la riforma del territorio, la salute e il mercato
di Livio Garattini *, Bruno Finazzi *
24 Esclusivo per Sanità24
La farmacia è una disciplina scientifica che sta un po’ a metà strada fra chimica e sanità, essendo legata indissolubilmente al farmaco, dallo sviluppo alla produzione per finire con la sua distribuzione. A partire dagli anni cinquanta del millennio scorso il ruolo del farmacista è radicalmente mutato con l’avvento della produzione di massa da parte dell’industria farmaceutica. Fino ad allora il farmacista era solito produrre i farmaci nel proprio laboratorio, mentre da molto meno di un secolo la sua attività sul farmaco si è sostanzialmente ristretta alla dispensazione anche nelle farmacie territoriali, tuttora il luogo di lavoro di gran lunga prevalente dei laureati in farmacia. Infatti, dopo medici e infermieri, i farmacisti di comunità rappresentano il terzo gruppo più numeroso di professionisti sanitari in Europa.
Come conseguenza, la laurea in farmacia è stata oggetto di dibattito e tentativi di riforma all’inizio del nuovo millennio, con proposte contrastanti anche a livello di UE (ad esempio, dichiarazioni di Bologna e Berlino e successive direttive). A tutt’oggi la durata del corso di laurea varia ancora del doppio in Europa, da tre anni per quella breve (come per tutte le altre lauree, eccezion fatta per medicina e veterinaria) nei Paesi Scandinavi a sei per qualsiasi laureato in Francia e Olanda, con l’Italia che è stato l’unico Paese dell’Europa Occidentale ad averla ulteriormente allungata negli anni novanta (da 4 a 5 anni). In generale, appare legittimo chiedersi se per dispensare farmaci sia tuttora necessario conseguire una laurea di cinque anni con tanti esami in discipline scientifiche (biologia, chimica, fisica ecc.) prima di entrare nel mercato del lavoro delle farmacie, e non ne siano invece più che sufficienti tre come per qualsiasi altra laurea, così limitando in prospettiva anche il senso di frustrazione che molti farmacisti dipendenti hanno nel loro agire quotidiano.
A questa situazione assai eterogenea nella formazione a livello europeo non si può non associare quella altrettanto variegata della regolamentazione delle farmacie territoriali, comunque esercizi commerciali di successo quasi ovunque. Tale regolamentazione è giustificata dal fatto che la dispensazione del farmaco viene considerata un servizio di interesse pubblico, in quanto riferita a un prodotto essenziale per la salute umana. Gli oggetti più importanti di tutte le normative nazionali sono il diritto alla proprietà dell’esercizio e il margine alla distribuzione sui farmaci rimborsabili. A grandi linee, si oscilla fra l’approccio liberale di Olanda e Regno Unito, dove la maggior parte delle farmacie è di proprietà di grandi catene (senza limiti numerici) e i sistemi sanitari riconoscono solamente una (modesta) tariffa fissa per dispensazione, a quello strettamente regolamentato di Francia e Spagna, dove (come da noi) la maggioranza delle farmacie è tuttora di proprietà di singoli farmacisti (nonostante qualche timida liberalizzazione in corso), il loro numero è contingentato sul territorio (c.d. pianta organica) e il margine alla distribuzione è ancora sostanzialmente legato al livello del prezzo (seppure in modo sempre meno progressivo), quindi più alto è il prezzo del farmaco più il farmacista ci guadagna.
Questa premessa istituzionale ci è sembrata necessaria per inquadrare in modo adeguato l’oramai annoso dibattito sul doppio ruolo di operatori sanitari e commerciali contemporaneamente giocato dai farmacisti di comunità, in primis i titolari di farmacia e a seguire (giocoforza) i farmacisti dipendenti in negozio. Questo doppio ruolo solleva inevitabilmente un conflitto di interessi nell’agire quotidiano di tutti i farmacisti quando hanno l’opportunità di influenzare le scelte dei propri clienti, nel caso dei farmaci con riferimento alle scelte su quelli fuori brevetto (c.d. genericabili) e i farmaci da banco (senza obbligo di ricetta medica). Al di là del fatto che qualsiasi farmacista può comunque fornire un valido servizio clinico ai propri pazienti a titolo individuale, la prova più evidente di quanto sia concreto il conflitto di interessi collettivo della categoria professionale è costituita dalla commercializzazione di prodotti che cozzano con la formazione accademica acquisita, tipicamente i prodotti fitoterapici e omeopatici. D’altronde, è proprio il monopolio detenuto sulla distribuzione dei farmaci rimborsabili con ricetta a costituire il vero vantaggio di marketing delle farmacie rispetto a qualsiasi altro tipo di negozio al dettaglio. Infatti tale monopolio permette alle farmacie di poter attrarre in negozio potenziali clienti per convincerli ad acquistare i numerosi prodotti “salutistici” commercializzati (dagli integratori ai dietetici e ai cosmetici tanto per citarne alcuni), con fatturati totali che oramai si avvicinano a quelli dei farmaci su ricetta. E non è forse un caso che qualsiasi tentativo di liberalizzazione sia sempre stato accolto con sospetto dall’associazione di categoria dei titolari di farmacia. Restando sempre qui da noi, siamo l’unico Paese in cui a un farmacista laureato non è concesso dispensare farmaci su ricetta qualora venga assunto in una parafarmacia o in un corner della salute degli ipermercati, ambedue categorie di negozi obbligate per legge ad assumerne almeno uno. Difficile trovare una spiegazione logica a una limitazione professionale così irrazionale, come è altrettanto difficile trovare una giustificazione economica al fatto che il margine alla distribuzione dei farmaci su ricetta sia tuttora collegato ai loro prezzi, visto che, diversamente da qualsiasi altro tipo di negozio, la fornitura alle farmacie da parte dei grossisti è pressoché quotidiana; quindi i loro costi di scorta (gli unici che giustificherebbero tale modalità di remunerazione) sono quasi irrilevanti al dettaglio e i pochi farmaci scaduti sono comunque rimborsati dall’industria farmaceutica in base a specifici accordi.
Tirando le somme, siamo dell’opinione che qualsiasi iniziativa mirata a estendere i servizi sanitari offerti dalle farmacie nell’assistenza territoriale vada guardata con molta circospezione alla luce dell’attuale quadro normativo, pharmaceutical care o farmacia dei servizi che sia, anche in prospettiva della riforma di tutto il settore delle cure primarie (vedi Pnrr). Seppur consapevoli del ruolo chiave che le farmacie di prossimità possono svolgere in questo nuovo scenario, soprattutto per quanto concerne il monitoraggio dei malati cronici, ci sono dei nodi a monte che vanno definitivamente sciolti. Per quanto riguarda la titolarità, sembra oramai quasi superfluo sottolineare come la presenza di un laureato in farmacia per dispensare farmaci non implichi al contempo che il negozio sia di proprietà di un farmacista, come avviene da decenni in Inghilterra, e anche gli storici vincoli della pianta organica si potrebbero finalmente eliminare come già avvenuto in altri Paesi Europei. Inoltre, limitandoci ai farmaci rimborsabili, è legittimo chiedersi perché il Ssn, eccezion fatta per la distribuzione in nome e per conto, continui a pagare una percentuale (elevata) sul prezzo alle farmacie, e non semplicemente una quota fissa (ridotta) per ricetta, non fosse altro che per farsi riconoscere sotto il profilo economico l’indiscutibile vantaggio commerciale che il monopolio del servizio pubblico di dispensazione concede loro.
* Istituto Mario Negri Irccs
© RIPRODUZIONE RISERVATA