Lavoro e professione

Conflitti d'interesse in sanità: una storia infinita?

di Livio Garattini *, Alessandro Nobili *

S
24 Esclusivo per Sanità24

I conflitti di interesse (CdI) fanno ineluttabilmente parte della vita umana e costituiscono una preoccupazione permanente in ambito legale. La definizione più comune di CdI è quella di una situazione in cui il singolo individuo deve scegliere fra i doveri imposti dal proprio ruolo professionale e i propri interessi privati. Di conseguenza, qualsiasi soggetto è esposto assai spesso a potenziali CdI nell’ambito del proprio lavoro. I CdI sono diventati un concetto aspramente dibattuto nel corso degli ultimi decenni nella letteratura medica. Se ne è occupata anche l’Oms, che ha definito i CdI «un insieme di condizioni nelle quali il giudizio professionale relativo a un interesse primario tende a essere indebitamente influenzato da un interesse secondario». Mentre gli interessi primari si riferiscono agli obiettivi generali della propria professione, quelli secondari possono includere vantaggi finanziari e motivazioni personali. In questa sede vengono innanzitutto riassunte le caratteristiche principali del dibattito attualmente in corso sui CdI, concentrando l’attenzione sulle due tipologie principali (finanziari e non finanziari) e le due narrative antitetiche (critica e difensiva). Vengono infine discussi i limiti del dibattito e presentata la nostra proposta.
Il dibattito in sanità è stato originariamente sollevato dagli interessi finanziari e si è successivamente esteso a quelli non finanziari, due tipologie di CdI molto diverse. In linea di principio, i CdI finanziari sono piuttosto semplici da identificare, quindi facilmente dichiarabili, e possono pregiudicare i risultati di qualsiasi attività di ricerca, anche quando i metodi applicati sono formalmente validi; perciò richiedono molta attenzione e la loro dichiarazione è decisamente importante. Sebbene qualche volta l’importo dei finanziamenti appaia veramente cospicuo, il giudizio sui CdI dipende anche dal tipo di contributo. Ad esempio, pagamenti ingenti effettuati dalle aziende ai medici possono essere giudicati assai diversamente qualora siano erogati per diritti su invenzioni scientifiche piuttosto che per specifiche relazioni a convegni. Ovviamente, i grandi interessi finanziari di organizzazioni e individui dovrebbero essere sempre esplicitamente dichiarati, ma il vero dilemma è dove fissare la soglia in basso. Il buon senso suggerisce che questo limite è molto incerto, dipendendo dal livello di ricchezza di una nazione e variando anche in relazione a storia e cultura.
I CdI non finanziari rappresentano una categoria molto ampia e difficile da definire, misurare e gestire. In teoria, possono riguardare interessi privati di natura professionale, ideologica o religiosa, nonché relazioni familiari, amicali e rivalità personali. Anche la mera dichiarazione di alcuni di essi può sollevare problemi etici o di privacy e la loro valutazione reale è possibile solamente conoscendo i soggetti in questione. Ad esempio, il direttore di una rivista scientifica può volutamente privilegiare certi articoli a scapito di altri in base alle proprie convinzioni. Sebbene ogni esperto debba (ovviamente) sforzarsi di essere il più obiettivo possibile, gli interessi non finanziari influenzano comunque intrinsecamente l’attività di ricerca e non possono essere automaticamente classificati come meri interessi secondari. Infatti molti dissensi influenzati da interessi intellettuali hanno storicamente contribuito al nostro progresso scientifico e i sociologi da tempo immane contestano l’assioma che i ricercatori possano essere completamente imparziali; d’altronde, è assai improbabile che i dati costituiscano i soli driver delle conclusioni ricavate in qualsiasi lavoro scientifico. Nonostante le differenze intrinseche inducano a raccomandare di non mischiare le due tipologie di CdI, la maggior parte delle organizzazioni (agenzie regolatorie, riviste, comitati per linee-guida, ecc.) tendono sempre di più a gestirli in modo analogo.
Il dibattito sui CdI ha condotto a due narrative diametralmente opposte e reciprocamente sprezzanti. Quella critica è dominante in letteratura, sostenuta anche da casistiche individuali e studi condotti da scienziati, politici e giornalisti. Secondo questi analisti, considerati ‘moralisti’ dagli oppositori, i ricercatori e le organizzazioni sanitarie sono inevitabilmente influenzati dalle relazioni finanziarie con l'industria, spesso anche inconsciamente; ciò può facilmente generare corruzione individuale e istituzionale. Poiché l'obiettivo primario delle aziende è per definizione quello di promuovere i propri prodotti, la tattica migliore per i professionisti sanitari dovrebbe essere quella di prevenire sistematicamente l’insorgenza di qualsiasi CdI finanziario, addirittura rifiutando i piccoli regali offerti dall'industria. Sollevare potenziali CdI non rispetta a loro avviso il dovere morale del professionista sanitario di guadagnarsi la fiducia del paziente e onorarla sempre e comunque; quindi, la dichiarazione dei CdI finanziari non è giudicata di per sé sufficiente e prevenirli a priori dovrebbe essere l'approccio di gran lunga preferibile.
All’opposto, la narrativa difensiva è supportata da contro-argomentazioni critiche sollevate da medici, ricercatori e consulenti spesso e volentieri in contatto con l’industria, soprannominati ‘apologi’ dagli oppositori. A detta loro, i CdI sono praticamente privi di significato concreto, essendo onnipresenti per definizione, e sono alimentati da un’ideologia avversa alla scienza. Le insinuazioni morali sui CdI portano a risultati diametralmente opposti rispetto all’obiettivo originario dei ‘moralisti’ di salvaguardare la fiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle scienze mediche. Lo stesso termine ‘conflitto’ viene giudicato peggiorativo e presuntivo di un comportamento inappropriato, motivo per cui andrebbe rimosso a loro avviso. L’unico punto su cui le due narrative implicitamente concordano è il ruolo determinante giocato da business e marketing nella sanità contemporanea, mentre è palese il disaccordo totale sulle conseguenze.
Cercando di tirare le somme, i CdI costituiscono un problema morale estendibile a tutto il genere umano in ambito lavorativo, certamente non limitato alle professioni sanitarie. La maggioranza delle pubblicazioni sui CdI finanziari in sanità proviene dagli Usa, probabilmente non a caso, essendo il sistema sanitario americano caratterizzato da una netta prevalenza di ‘attori’ privati sia a livello di finanziamento che di erogazione dei servizi, con una spesa sanitaria perennemente fuori controllo. Gli apologi addirittura sostengono che, nonostante il comune ‘patrimonio genetico’, i moralisti tendono a osteggiare il concetto di profitto aziendale che caratterizza la cultura americana. Inoltre, diversamente dai servizi ospedalieri, va ricordato che la stragrande maggioranza dei farmaci e dei dispositivi medici viene oramai fornita in tutto il mondo da aziende private, per definizione orientate al profitto. Peraltro, come spesso avviene nella c.d. ‘americanizzazione’ dei dibattiti, il ‘grande assente’ è il concetto fondamentale che la sanità è un classico esempio di ‘fallimento del mercato’ nella teoria economica, essendo la salute un ‘bene meritorio’, e non un comune ‘bene di consumo’. In generale, i CdI finanziari sono molto diffusi in sanità, ma fissare un ‘valore soglia’ sotto il quale un pagamento non deve essere giudicato fonte di CdI è di fatto impossibile. Piuttosto, sembra più importante esigerne le dichiarazioni, senza limitare l’obbligatorietà solamente ai professionisti sanitari come ancora accade in molti Paesi. Dal momento che un’azienda privata assai difficilmente finanzierebbe un esperto per uno studio o una relazione che presenti risultati sfavorevoli ai propri prodotti, la presenza di uno sponsor è molto predittiva di un giudizio positivo a prescindere dai metodi utilizzati. Ad esempio, in base a una nostra revisione di qualche anno fa degli studi di farmacoeconomia impostati su modelli di Markov, era emerso che tali studi quasi sempre concludevano in favore del farmaco sponsorizzato, con un margine di errore <1%; forse anche superfluo sottolineare che la corretta dichiarazione dei CdI finanziari è cruciale per poter condurre siffatte analisi. Infine, va sottolineato che le due narrative si sono concentrate pressoché esclusivamente sui CdI finanziari sollevati dai pagamenti dell'industria farmaceutica ai medici, trascurando totalmente quelli derivanti dalla doppia pratica, cioè dalla combinazione di attività pubblica e privata da parte dei medici. Se fare gli interessi dei pazienti rappresenta veramente il ‘crocevia’ del rapporto di fiducia con i medici e l'etica degli affari non deve essere in alcun modo mischiata con quella medica, la doppia pratica dovrebbe essere quanto meno citata come fonte primaria di CdI finanziari nella stragrande maggioranza delle nazioni.
Venendo ai CdI non finanziari, non c’è motivo di pensare che in sanità siano più frequenti rispetto agli altri settori, dal momento che qualsiasi esperto può legittimamente perseguire proprie aspettative personali, interessi professionali e valori ideali in qualsiasi tipo di attività. Alcuni CdI non finanziari dovrebbero essere più attentamente indagati in organizzazioni culturali quali le società scientifiche e le università, ad esempio le relazioni familiari per scongiurare il nepotismo; altri non dovrebbero essere oggetto di indagine per definizione, ad esempio le fedi religiose per evitare discriminazioni. Tuttavia, questi aspetti non possono essere considerati CdI tout court e la loro gestione dipende dall'etica predominante nelle singole nazioni. In questa sede possiamo soltanto rimarcare ancora che gli interessi intellettuali fanno parte di qualsiasi dibattito scientifico e emergono inevitabilmente nei commenti personali degli autori. Ad esempio, facendo riferimento al nostro studio prima citato sul modeling in farmacoeconomia, leggendo l’articolo era evidente che reputiamo tali modelli di scarsa utilità per la definizione di prezzi e rimborsabilità dei farmaci alla luce dei loro limiti metodologici intrinseci.
Concludendo, siamo convinti che il livello culturale e la capacità critica di una società scientifica siano i deterrenti primari dei CdI e un "obbligo morale" di tutti gli esperti dovrebbe essere quello di non farsi condizionare eccessivamente dai propri interessi, convincimenti intellettuali inclusi. Concretamente, la piena trasparenza sui CdI finanziari (eccezion fatta per i pagamenti irrisori) deve rappresentare una priorità in sanità per porre la massima attenzione sui rischi di potenziali manipolazioni. Sebbene la trasparenza non possa di per sé scongiurare tali distorsioni, rinunciare ad essa in materia di CdI finanziari sarebbe un errore ancora più grave. Diversamente, la dichiarazione obbligatoria dei CdI non finanziari rischia di essere confondente e addirittura censurabile in alcuni casi, paradossalmente distraendo l’attenzione dalle influenze reali indotte da quelli finanziari.

* Istituto Mario Negri Irccs


© RIPRODUZIONE RISERVATA