Lavoro e professione

Vaccino Covid e operatori sanitari "obiettori", il Dl 44 e il ministero non fanno chiarezza

di Stefano Simonetti

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24 Esclusivo per Sanità24

Come volevasi dimostrare. A tre mesi dall’entrata in vigore del decreto legge 44 si può provare a definire un bilancio del provvedimento che sembra essere abbastanza sconfortante. I dati diffusi dalla struttura commissariale dicono che sono più di 45.000, tra medici, infermieri e personale sanitario in generale, i professionisti della sanità non ancora vaccinati in Italia. La circostanza che sia “solo” il 2,36% dei soggetti obbligati – e i medici sono lo 0,2% del totale – non conforta affatto perché sapere che nelle strutture sanitarie operano quasi 50.000 sanitari non vaccinati non contribuisce a rasserenare un clima di polemiche già di suo caldissimo.
Da punto di vista dell’organizzazione e degli interventi previsti dalla legge le cose vanno forse ancora peggio. Il destino di tutti i sanitari che non si sono vaccinati è piuttosto nebuloso e molti sono i punti della normativa che ancora destano dubbi. La Fnmoceo ha rivolto alcuni quesiti al ministero della Salute, soprattutto in merito alla sospensione obbligatoria. In particolare, è stato chiesto se rientri nelle fattispecie di sospensione di cui all’art. 43 del Dpr 221/1950, cioè precise situazioni indicate nel codice penale. La Direzione generale delle Professioni sanitarie ha fornito le risposte con nota n. 32479 del 17.6.2021. È stato chiarito che la normativa del 1950 non c’entra nulla e che non è possibile accedere a “qualsivoglia forma di estensione analogica”; la risposta era piuttosto scontata. Aggiunge poi il Ministero che quello che l’art. 4, comma 7 pone in capo all’Ordine professionale è un “mero onere informativo” dell’accertamento svolto dalla Asl di residenza di cui l’Ordine deve solo prendere atto, si immagina senza motivazione specifica perché la delibera della Commissione d’Albo ha natura dichiarativa e non costitutiva. Le conclusioni sono plausibilmente applicabili anche agli altri Ordini professionali coinvolti.
Sono sorte in questi tre mesi molte questioni che la legge di conversione non ha minimamente contribuito a risolvere, avendo essa corretto solo alcuni passaggi formali. E così si consolidano i dubbi relativi alla natura giuridica della sospensione e alla sua decorrenza, se l’atto sia di competenza della Asl di residenza ovvero dell’Ordine professionale, se il medico sospeso dal servizio possa o meno continuare ad esercitare in privato la libera professione, quando e come termina il regime di sospensione (al momento della eventuale prima dose o al completamento), se la sospensione dal servizio determina anche un vuoto di anzianità e contribuzione. Quello che si è capito è che la sospensione è un istituto del tutto nuovo e autonomo, non assimilabile a qualsiasi altra fattispecie già presente nell’ordinamento e discende direttamente dalla legge che ha preventivamente effettuato la valutazione sui fatti presupposti della sospensione stessa. Un aspetto molto delicato e irrisolto è quello dell’ambito della sospensione, nel senso se essa sia totale per qualsiasi attività professionale ovvero, come sembra letteralmente dalle parole utilizzate dal legislatore, se la sospensione agisce solo sul “diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali”, restando salve le attività prive di tali contatti. Questo scenario è fondamentale per l’eventuale adibizione del lavoratore “ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6“.
Se la sospensione dall’albo – come ritengo – fosse completa, nel caso del medico lo stesso non può che essere sospeso dal servizio perché qualsiasi cosa faccia, anche non a contatto con l’utenza, è pur sempre un atto medico rispetto al quale è imposta la piena iscrizione all’albo e se ciò non dovesse realizzarsi sarebbe sostanzialmente illegittima l’erogazione della retribuzione, quantomeno della indennità di specificità medico-veterinaria che remunera proprio “i compiti assistenziali, di diagnosi e cura e di tutela della salute pubblica”, come precisa chiaramente l’art. 54, comma 1 del Ccnl del 5.12.1996. Se però la sospensione fosse ritenuta parziale, circoscritta e mirata ai contatti diretti – e, nel caso, è quanto mai necessario che venga detto ufficialmente -, le problematiche cambierebbero configurazione perché si tratterebbe di adibire il medico a funzioni non in presenza, magari ricorrendo alla mobilità d’urgenza di cui all’art. 16, comma 4 del Ccnl del 10.2.2004, facendo in tal modo salvo il ruolo dirigenziale e la retribuzione. Nei riguardi del personale medico ritengo assolutamente non praticabile l’ipotesi di un formale demansionamento, incompatibile con il ruolo dirigenziale. Diversa sembra la situazione degli infermieri e delle altre professioni tecnico-sanitarie in quanto per questi lavoratori è più agevole il ricorso ad altre mansioni “anche inferiori”: più agevole sotto l’aspetto meramente giuridico ma molto meno sul piano organizzativo e sindacale.
La comunicazione da parte dell’Ordine – in quanto atto amministrativo - può essere impugnata al Tar da parte del professionista ma – a maggior ragione – può esserlo l’atto di accertamento della Asl. E a tale proposito, ipotizzando che i ricorsi saranno moltissimi, ci si chiede se le aziende sanitarie potranno rivolgersi all’Avvocatura dello Stato per resistere in giudizio, altrimenti gli oneri a loro carico imploderanno e sarà, tra l’altro, violata la prescrizione del comma 12 che prevede un principio irreale e quasi grottesco: “dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Una circostanza abbastanza singolare, quasi paradossale, relativamente al sicuro contenzioso che si genererà, è quella cui si troverà di fronte il medico o l’infermiere che intenda impugnare la sua “sospensione”: ebbene, per come è stata articolata la procedura e per come è consolidata la giurisprudenza, l’interessato dovrà impugnare il provvedimento del datore di lavoro che lo sospende dal servizio (davanti al Giudice del lavoro) ma anche l’atto di “mero onere informativo” dell’Ordine e, soprattutto, l’atto di accertamento della Asl di residenza che costituisce l’atto-madre, passaggio obbligato degli altri due; questi ultimi ricorsi davanti al Tar in quanto atti unilaterali e autoritativi. E, come spesso avviene, non aver impugnato un atto presupposto immediatamente lesivo è una formale motivazione di inammissibilità del ricorso a valle. Insomma, una specie di domino giudiziario che non farà che aumentare le tensioni e, naturalmente, le spese legali.
Tutti qui i chiarimenti intervenuti: le tante altre perplessità rimangono in piedi e, soprattutto, restano del tutto scoperte e misteriose le situazioni degli pperatori socio-sanitari e quelle, ancora più complicate, di chi opera nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali.


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