Lavoro e professione
Lavoro precario: il labirinto sanitario tra urgenze, vincoli di bilancio e selezioni trasparenti
di Stefano Simonetti
24 Esclusivo per Sanità24
Nel mese scorso si è svolta una manifestazione di protesta, cui è seguito uno sciopero, dei lavoratori in somministrazione che lavorano in sanità. I contenuti della vertenza riguardano alcuni aspetti quali il mancato diritto alle "quote di riserva" nei concorsi pubblici, la negata retribuzione di risultato distribuita periodicamente nella sanità pubblica e la denunciata esclusione dalla premialità Covid prevista per gli operatori sanitari dal decreto Rilancio. La questione è molto complessa e dietro la vertenza si celano alcuni aspetti sui quali è forse opportuno fare alcune riflessioni.
Il lavoro in somministrazione è la nuova definizione del lavoro interinale ed è disciplinato da uno dei decreti delegati del cosiddetto Jobs Act. Le norme legislative sono contenute negli articoli 30-40 del d.lgs. 81/2015 e riguardano tutti i lavoratori pubblici e privati. Per i lavoratori pubblici il contratto di somministrazione costituisce una delle quattro tipologie di lavoro flessibile (art. 36, comma 2 del d.lgs. 165/2001) ma può essere attivato solo a tempo determinato (art. 31, comma 4 del citato decreto 81). Sul piano contrattuale il CCNL del Comparto del 21.5.2018 all'art. 59 ha regolamentato – in verità in modo piuttosto scarno - le clausole per i lavoratori della Sanità. In particolare le parti negoziali hanno ritenuto di escludere gli Operatori socio-sanitari dalla somministrazione. Il recente contratto collettivo dell'Area della Dirigenza sanitaria non ha invece toccato l'istituto.
Sempre in tema di aspetti generali, l'Atto di indirizzo del Comitato di Settore imponeva di "individuare, anche in misura non uniforme, limiti quantitativi di utilizzo dell'istituto" ma il contratto ha fatto rientrare tale limite in quello generale riferito al tempo determinato che, ricordiamolo, è il 20% del personale a tempo indeterminato in servizio al 1° gennaio dell'anno di assunzione, cioè una quantità impressionante di personale precario. Un'ultima precisazione va fatta in relazione ai soggetti appaltatori di lavoro in somministrazione che possono essere soltanto le agenzie iscritte nell'apposito elenco tenuto dal ministero del Lavoro, per cui il ricorso a cooperative e simili si pone fuori dal quadro normativo vigente.
Una delle convinzioni comuni è quella che le aziende sanitarie ricorrono alla somministrazione per aggirare i vincoli di bilancio previsti dal patto per la salute.
Una prima considerazione riguarda proprio gli aspetti finanziari. Quanto affermato dai sindacati non è del tutto vero perché le norme di legge che regolano ancor oggi il costo del lavoro nel Ssn prevedono espressamente che per calcolare il limite di spesa "…. si considerano anche le spese per il personale con rapporto di lavoro a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile" (art. 2, comma 71 della legge 191/2009). Inoltre, un'ulteriore considerazione va fatta in termini assoluti di costo perché il lavoro in somministrazione costa di più in quanto al trattamento spettante ai lavoratori si aggiunge il margine di guadagno per l'Agenzia appaltatrice e l'Iva sulle fatture ma anche – grazie al contratto collettivo – per l'addebito sul quadro economico dell'appalto degli oneri per il trattamento accessorio (comma 4 dell'art. 59). Inoltre il rischio di impresa relativo a malattie e altre assenze è ribaltato sulla ditta appaltatrice che, naturalmente, lo valorizza nel costo dell'appalto. E' tanto vera questa rilevazione che nel citato Ccnl del Comparto sono contenute alcune paroline nell'art. 59, comma 3 che la dicono lunga su come i sindacati la pensino sul lavoro somministrato. Che senso ha ricordare che l'azienda può ricorrere a tali contratti "tenendo conto dell'economicità dello strumento" ? La raccomandazione appare estranea ai contenuti di un contratto collettivo e sembra più un monito della Corte dei conti che una clausola contrattuale. Semmai è l'altra raccomandazione contenuta sempre nel comma 3 che assume maggiore rilievo: tenere conto della "programmabilità delle urgenze" costituisce forse la maggiore opportunità organizzativa per il ricorso alla somministrazione. Un coordinatore infermieristico non dispone di alcun altro strumento così veloce e "legittimo" per sostituire malattie improvvise o per far fronte a picchi di assistenza.
Esiste però un ulteriore rischio nel ricorso al lavoro interinale ed è quello della qualità dell'assistenza sanitaria, nel senso che una esagerata, impropria e continua rotazione di personale di assistenza diretta appare negativa per i pazienti ma ha ricadute anche sulla performance organizzativa della struttura in cui operano gli interinali. Ma la maggiore attrattività per i decisori aziendali è senz'altro quella che chiamando lavoratori in somministrazione si elude il vincolo della selezione imposto dall'art. 97, comma 3 della Costituzione perché è pur vero che la richiesta all'Agenzia interinale è sempre numerica ma nulla impedisce di fare i nomi in via del tutto informale. E non è affatto raro che negli ospedali italiani si incontrino i figli dei dipendenti in qualità di lavoratori somministrati.
Per evitare tali situazioni imbarazzanti si dovrebbe imporre nel Capitolato speciale alla ditta appaltatrice il ricorso a procedure selettive pubblicistiche per scongiurare operazioni altamente a rischio di trasparenza. Peraltro, ci sono fondate perplessità sulla praticabilità giuridica di tale imposizione. L'assenza di procedure selettive trasparenti e imparziali è, plausibilmente, il motivo dell'esclusione dei lavoratori somministrati dalle procedure di stabilizzazione introdotte dall'art. 20 del d.lgs. 75/2017 (vedi l'ultimo periodo del comma 9), esclusione altrimenti incomprensibile rispetto al tempo determinato e alle co.co.co. E questa è – guarda caso - una delle richieste avanzate nella manifestazione del 23 luglio scorso.
A proposito delle altre situazioni lamentate si devono puntualizzare due aspetti: il primo è che i somministrati non sono affatto esclusi dalle forme di premialità come si legge nel comma 3 dell'art. 59 dove si afferma chiaramente che "hanno titolo a partecipare all'erogazione dei connessi trattamenti accessori, secondo i criteri definiti in contrattazione integrativa". E addirittura la stessa contrattazione aziendale "definisce le condizioni, i criteri e le modalità per l'utilizzo dei servizi socio/ricreativi eventualmente previsti per il personale". Gli stessi premi stanziati dal decreto Rilancio per compensare chi ha lavorato nell'emergenza non è assolutamente detto che non spettino anche ai lavoratori in somministrazione. In realtà la questione è molto complicata perché nella legge di conversione all'art. 2, comma 6 si fa riferimento alla "remunerazione delle prestazioni di lavoro straordinario del personale sanitario dipendente delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale", formulazione che esclude i somministrati ma subito dopo prevede che lo stanziamento incrementi "per la restante parte, i relativi fondi incentivanti" che, in sede di contrattazione integrativa, possono sicuramente riguardare anche i lavoratori di cui si parla.
Di conseguenza, la parità di trattamento normo-economico è del tutto garantita dalla legge e dal contratto collettivo. Le situazioni di cui si lamenta il sindacato rientrano in comportamenti scorretti, elusivi - se non illegittimi - delle singole aziende; ma legge e contratto la parte loro l'hanno fatta.
Riguardo alle patologie della somministrazione messe in atto da così tante aziende sanitarie, non si può non segnalare una emblematica recente sentenza del Giudice amministrativo che ha annullato l'appalto di una Asl che aveva mascherato il lavoro in somministrazione con un appalto di servizi (circa 170.000 ore annue di lavoro in buona parte amministrativo) e sono interessanti le cinque caratteristiche che vengono individuate dai giudici per definire il perimetro della somministrazione di lavoro (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1571 del 12.3.2018).
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