Lavoro e professione
Tumori professionali, se il cancro finisce in tribunale
di Rosanna Magnano
In Italia sono decine di migliaia le persone colpite da tumori di origine professionale. Le stime sono molto variabili e vanno da 4mila a oltre 20mila su un totale di 365mila nuovi casi di cancro diagnosticati ogni anno. Su oltre 1.000 mesoteliomi, almeno 700 derivano da un’esposizione professionale ad amianto. Altrettanti i carcinomi polmonari.
Tanti lavoratori che si sono ammalati in fabbrica, nei cantieri, in miniera, a contatto con sostanze cancerogene e genotossiche. E che da Casale Monferrato a Taranto vedono allontanarsi sempre di più la speranza di ottenere giustizia. Perché l’accertamento della verità nelle aule giudiziarie è una corsa a ostacoli talmente lunga che i reati cadono in prescrizione, le persone esposte muoiono troppo presto per vedere una sentenza e i presunti responsabili raggiungono età venerande.
Il nodo del contendere è sempre lo stesso: la complessa dimostrazione del nesso causale tra esposizione e patologia. E la scienza, invocata e usata nelle perizie tecniche che dovrebbero aiutare i giudici a capire e decidere, è troppo spesso resa strumentalmente ambigua sotto il palese effetto di conflitti di interesse.
Per tentare di fissare alcuni punti fermi si è svolta al Senato il 23 settembre scorso una giornata di studi su «I procedimenti penali per i tumori professionali: giustizia o ingiustizia?», promossa da un gruppo di associazioni (Legambiente, Cittadinireattivi, Medicina democratica, Isde, Associazione italiana esposti amianto) e dal senatore Felice Casson (Pd) con la moderazione de «Il Sole 24 Ore Sanità».
L’ex pm del processo contro la Montedison, il petrolchimico di Porto Marghera, spiega: «Abbiamo deciso di concentrarci sui procedimenti penali per tumori professionali con un occhio di riguardo a quelli per amianto, perché ci rendiamo conto che sia nel settore civile che penale ci sono ripetutamente sentenze che contrastano tra loro per motivi diversificati, anche sulla base di relazioni, studi e approfondimenti presentati alla magistratura, che non sempre è in grado di districarsi tra le diverse posizioni». In attesa di giustizia infatti «ci sono centinaia di migliaia di persone, tra morti e malati. Questa è quindi una questione sociale che va risolta», puntualizza.
Le difficoltà che si incontrano nei procedimenti penali sono note da anni agli addetti ai lavori. «Ho incominciato a imbattermi in queste problematiche - continua Casson - a metà degli anni ’90. Il processo sul petrolchimico di Marghera che riguardava il cloruro di vinile monomero, sostanza certamente cancerogena e genotossica, si era concluso in primo grado con una formula di assoluzione. E sulla base degli stessi studi, delle stesse carte e degli stessi approfondimenti e dichiarazioni testimoniali, la Corte d’appello ha ribaltato nel merito quella sentenza, condannando amministratori delegati, dirigenti di Montedison e il responsabile medico sanitario: e la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna». Questo, per l’ex pm «dà il senso plasticamente di una difficoltà, anche all’interno della magistratura, nel recepire le sollecitazioni che arrivano dal mondo scientifico. Il tentativo quindi è quello di venir fuori da queste discordanze interpretative».
In merito alla profanazione della scienza nelle aule giudiziarie è intervenuto l’epidemiologo Benedetto Terracini, citando lo scienziato italiano Lorenzo Tomatis, che fu direttore della Iarc: «Per le malattie infettive e alcune altre, l’identificazione delle cause trova un consenso generale per le prospettive di poterle prevenire. Nel caso del cancro, al contrario, il riconoscimento di una causa viene spesso accolta con perplessità, se non ostilità. L’identificazione di un cancerogeno trova regolarmente una forte opposizione da parte di coloro che dominano il potere finanziario e riescono a incidere sulle decisioni di politica sanitaria». «L’opposizione - continua Terracini - si manifesta attraverso quello che il Collegium Ramazzini ha chiamato la “scienza a favore del prodotto”». In pratica, per i cancerogeni di dimostrazione recente, l’obiettivo è «presentare ai legislatori dei paesi industrializzati l’immagine di una querelle tra professori. Per i cancerogeni noti da tempo, come l’amianto, il bersaglio sono i paesi in via di industrializzazione a basso e medio reddito, dove l’expertise scientifica per la valutazione dei rischi ambientali o lavorativi è più limitata».
Per l’epidemiologo «La scienza a favore del prodotto consiste nell’introduzione sistematica e intenzionale di distorsioni nel disegno degli studi e/o mancanza di imparzialità nella interpretazione delle osservazioni: l’innocuità di una sostanza (o delle circostanze in cui si è verificata esposizione a un cancerogeno) viene sostenuta sollevando dubbi e ingrandendo l’inevitabile incertezza scientifica residua».
Gli esempi di scienza «a gettone» non mancano: «Dai consulenti scientifici dell’industria del tabacco - continua Terracini - che minimizzano la pericolosità del fumo attivo e passivo, alle scorrettezze commesse dalla lobby nordamericana dello zucchero. E analoghe circostanze di asservimento della scienza agli interessi industriali sono documentate negli atti del processo Eternit di Torino». Dunque l’attenzione sui conflitti di interesse deve restare alta. «Nel settore della salute pubblica - conclude Terracini - diventa sempre più evidente che la produzione scientifica è meno imparziale di quanto si vorrebbe e che non sempre gli scienziati sono guidati da una scala di valori guidata dal benessere collettivo e individuale».
Ma il problema non è solo quello della terzietà della scienza. Ci sono ovviamente le responsabilità politiche, tra vuoto di governance e di controlli da parte delle amministrazioni, mancata tutela delle vittime e assenza di una vera sorveglianza sanitaria. Per questo, a colmare la lacuna, molte importanti indagini epidemiologiche sulle popolazioni e sui lavoratori esposti a sostanze killer sono state disposte dalle procure.
Con l’obiettivo di dare una svolta, almeno sul capitolo amianto, Casson e una quarantina di cofirmatari bipartisan hanno presentato al Senato un ddl ad hoc già nel 2006. «Ma nonostante le dichiarazioni di buona volontà di gran parte della classe politica - racconta il senatore - questo ddl resta in stallo».
Ad aggravare il già pesante quadro c’è la prescrizione, che si abbatte inesorabile sia nei processi che riguardano le vittime di violazione delle norme su sicurezza e igiene del lavoro sia sui reati ambientali. E su questi aspetti sono all’esame del Senato tre emendamenti all’art. 7 del ddl di Riforma del processo penale, presentati dallo stesso relatore Casson. Misure che spunterebbero le armi di chi usa la prescrizione come escamotage per evitare condanne e risarcimenti alle vittime. Ma che hanno incontrato finora la forte opposizione del Ncd. Insomma le soluzioni ci sarebbero, manca la voglia di metterle in pratica.
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