Lavoro e professione
In Europa viviamo tutti più a lungo ma peggio e con più disabilità
di Cristiana Abbafati (Crea Sanità, membro del Gbd)
Gli italiani si ammalano di più perché vivono più a lungo, come è noto, ma anche per la crescente diffusione di patologie croniche, comprese quelle fortemente disabilitanti. Il fenomeno è tanto più significativo perché s’inserisce in uno scenario globale che, a fronte di un generale miglioramento delle aspettative di vita, presenta un sostanziale peggioramento delle condizioni di salute.
È quanto emerge da uno studio del Global Burden of Disease, il consorzio internazionale che coinvolge oltre mille ricercatori di centoventi Paesi. Quello descritto è un vero e proprio cambiamento epocale, che chiama in causa la sostenibilità dei sistemi sanitari ed esige un ripensamento di politiche ancora troppo schiacciate sulla riduzione della mortalità, obiettivo fondamentale a cui però vanno associati la promozione di corretti stili di vita, la prevenzione e un adeguato accesso alle cure. L’importanza di questi fattori per l’Italia risulta confermata se ai dati del Global Burden of Disease sommiamo quelli dell’ultimo Rapporto Sanità e del recente Osservasalute. Dal complesso dei dati emerge pure che la situazione nel nostro Paese, almeno rispetto a una parte d’Europa, va sensibilmente peggiorando.
Coordinato dall’Institute for Health metrics and evaluation dell’Università di Washington, il Global Burden of Disease raccoglie la più ampia massa di dati al mondo sulla salute. Inoltre, produce stime largamente utilizzate dall’Organizzazione mondiale della Sanità per stabilire priorità di ricerca e d’intervento.
Lo studio in questione, pubblicato su Lancet ad agosto dell’anno scorso ma finora poco discusso nel nostro Paese, rappresenta la più approfondita indagine su livelli e trend dei cosiddetti YLDs, years lived with disability, cioè gli anni vissuti in un cattivo stato di salute o in condizioni di disabilità. Attraverso un modello econometrico che utilizza 35.620 rilevazioni di tipo epidemiologico, demografico e amministrativo, vengono presi in esame, per gli anni tra il 1990 e il 2013, 188 Paesi, 301 malattie croniche e 2.337 sequele, ovvero le conseguenze, acute o croniche, di una singola patologia.
Dallo studio emerge che gli YLDs sono cresciuti globalmente del 42,3 per cento e che il fenomeno riguarda in misura rilevante l’Italia, dove la variazione è pari al 20,2 per cento. Cresce ovunque la comorbilità, cioè la compresenza di diverse patologie, che grava soprattuto sulla popolazione in età avanzata ma coinvolge anche quella più giovane. Al 2013 nei Paesi sviluppati è affetta da 5 o più sequele il 32 per cento della popolazione attiva (tra 20 e 64 anni), ma la percentuale arriva quasi al 40 nei Paesi in via di sviluppo e raggiunge il 61,6 nella sola Africa sub-Sahariana. In 45 dei 50 Paesi sviluppati, tra cui l’Italia, la prima causa di YLDs è il mal di schiena, spesso associato a stili di vita sbagliati.
Guardando in dettaglio al nostro Paese, le cifre più impressionanti riguardano una serie di malattie croniche per le quali si registra una crescita esponenziale degli YLDs sia sul totale della popolazione che sul dato standardizzato, calcolato cioè con una tecnica statistica che equipara le diverse fasce di età. Gli esempi più eclatanti: patologie delle vie urinarie, 187,4 e 112,7 per cento rispettivamente sulla popolazione totale e su quella standardizzata; sclerosi multipla, 102,1 e 67,3; emicrania da abuso di medicinali, 82,1 e 57; patologie intestinali, 74,8 e 35,4. Il dato standardizzato è trascurabile nel caso dell’Alzheimer, che colpisce esclusivamente gli anziani, tuttavia la crescita sulla popolazione totale è pari all’88,5 per cento. L’Alzheimer è ormai tra le principali cause di YLDs in termini assoluti. Tra il 1990 e il 2013 è infatti passato dall’undicesimo all’ottavo posto nella classifica delle prime dieci cause, come riportato in tabella.
C’è da dire che, tutto sommato, la salute degli italiani resta complessivamente buona. Non è però il caso di sedersi sugli allori o lasciarsi andare a facili ottimismi. Certo, l’Italia è ancora uno dei Paesi al mondo nei quali si vive più a lungo. Eppure, persino sotto questo profilo i segnali di allarme non mancano. Sappiamo dall’Osservasalute che negli ultimi due anni l’aspettativa di vita alla nascita è diminuita, e sebbene la flessione sia lieve, da 80,3 anni a 80,1 per gli uomini e da 85 a 84,7 per le donne, per la prima volta negli ultimi quindici anni si evidenzia un’inversione di segno.
I d ati su scala europea del Global Burden of Disease confermano le preoccupazioni. In Germania e Danimarca gli YLDs crescono della metà rispetto all’Italia, e fanno meglio di noi anche Svezia, Finlandia, Belgio e Gran Bretagna. Ulteriori conferme arrivano poi sui fattori di rischio che contribuiscono all’insorgenza di malattie croniche. Sovrappeso e obesità, soprattutto infantile, sono in crescita, ed è alta l’incidenza di ipertensione, glicemia elevata ed eccesso di colesterolo. In un Paese come il nostro, notoriamente tra i più sedentari del continente, gli stili di vita sembrano fare la differenza.
E le preoccupazioni restano quando incrociamo dati epidemiologici ed economici. Consideriamo una volta di più le differenze tra Italia e resto d’Europa. Secondo l’ultimo Rapporto Sanità, complessivamente la spesa italiana è inferiore del 28,7 percento alla media Eu14. Se poi guardiamo a quella pro capite per prevenzione, salta agli occhi il divario con alcuni dei Paesi dove la crescita degli YLDs è più bassa.
Noi spendiamo 66,3 euro, la Germania ne spende 99,5, la Finlandia 104,3, la Danimarca 114,4, il Belgio 115,2, la Svezia addirittura 131. Non solo, sugli indirizzi programmatici non tutti i segnali provenienti dal ministero sono coerenti. Il piano nazionale della prevenzione 2014-2018 elenca una serie di interventi per promuovere stili di vita più salutari ma, sempre secondo il Rapporto Sanità, l’entità degli stanziamenti è ancora ignota.
Si comprende la fatica nel reperire risorse sotto il giogo della crisi, e va da se che finora la politica si sia dovuta necessariamente concentrare su risanamento ed efficienza. Ma va pur detto che tra crisi economica e riorganizzazione del servizio sanitario nazionale, compreso l’aumento delle compartecipazioni, l’accesso alle cure è diventato più arduo e sperequato. Ne ha sofferto in particolare la classe media, che paga il ticket e sempre meno ha mezzi di accesso al privato. I dati del Rapporto Sanità indicano infatti che tra il 2012 e il 2013 la spesa “out of pocket” è cresciuta del 14,5 per cento ma ben tre milioni di italiani vi hanno rinunciato, e per centomila famiglie è stata causa diretta di impoverimento. Se a tutto ciò aggiungiamo poi che la popolazione attiva in Italia è colpita da un numero considerevole di sequele, secondo i dati del Global Burden of Disease già ricordati, si capisce fino a che punto, oltre alla salute, sia in gioco anche la produttività.
Insomma, il grosso della popolazione italiana si sta sempre più ammalando e sempre meno curando, ed è per questo meno produttiva. Rischiamo in altre parole di entrare in un circolo vizioso in cui cause ed effetti della crisi si autoalimentano. A questo punto è lecito chiedersi se e come vada posto un limite ai tagli, e se non sia forse il caso di ripensare lo stesso impianto universalistico del nostro sistema sanitario, che altrimenti potrebbe davvero cominciare a scricchiolare.
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