Lavoro e professione
Proposte di revisione del sistema pensionistico
di Giorgio Cavallero (segretario generale Cosmed)
24 Esclusivo per Sanità24
La Cosmed, principale confederazione della dirigenza pubblica, ritiene di fondamentale importanza riformare il sistema pensionistico, in particolare per un rilancio della pubblica amministrazione che deve urgentemente realizzare un ricambio generazionale.
Ridare credibilità e fiducia al sistema previdenziale pubblico e favorire l'investimento previdenziale. In questi anni i continui cambiamenti delle regole pensionistiche, realizzate più per necessità immediate di cassa che per un effettiva programmazione, hanno creato una sfiducia generalizzata nel sistema che si è tradotta in un ridotto investimento previdenziale.
La stessa recente legge di stabilità rendendo disponibile una parte dell’accantonamento previdenziale obbligatorio (Tfr) ha dato un segnale negativo in tal senso, quasi che si volesse sacrificare sull’altare dei consumi una parte del risparmio previdenziale.
Possiamo ben immaginare che cosa sarebbe successo agli “esodati” privi di stipendio e di pensione se non avessero avuto a disposizione la liquidazione.
Successivamente gli sconti sulle aliquote contributive, portata a termine nella conversione del recente decreto mille proroghe, hanno ridotto le entrate contributive allargando la forbice tra il lavoro dipendente (gravato quasi totalmente da un aliquota pari al 33%) e le restanti categorie.
Nella jungla di aliquote e di trattamenti è innegabile che i dipendenti finiscono con il pagare per i lavoratori autonomi. Nell’ultima legge di stabilità è stata stanziata la somma di 5 miliardi per ripianare i debiti delle gestioni di lavoro autonomo. Scarsa eco ha avuto questo fatto nell’opinione pubblica impegnata ancora in una polemica senza fine nei confronti delle pensioni baby dei dipendenti pubblici, fenomeno deprecabile ma cessato nel 1992 e che ha ormai costi residuali (poco più di 200 milioni annui).
Le entrate sono poi fortemente compromesse dall’evasione fiscale, cui si accompagna invariabilmente l’evasione contributiva, che permane a livelli enormemente maggiori rispetto ai principali Paesi europei con un corollario di lavoro nero che va a costituire una massa di non assistiti per il futuro.
In realtà il calo dei tassi di interessi rende assai conveniente l’investimento previdenziale che andrebbe in ogni modo stimolato e incoraggiato aumentando le entrate dell’Ente previdenziale.
In tal senso andrebbe incentivato il riscatto della laurea e anche dei periodi di apprendistato e di tirocinio con una rateizzazione trentennale dell’onere.
L’istituto del riscatto, divenuto particolarmente oneroso a causa dell’aumento dell’aliquota e di un sistema di calcolo asseverato, viene oggi rateizzato solo per la durata del periodo di studio, in pratica grava sui primi anni di impiego caratterizzati da retribuzioni basse , periodi di precariato e di disoccupazione spesso accompagnati da incremento degli oneri familiari legati alla nascita dei figli.
Una rateizzazione trentennale o comunque da esaurirsi prima del pensionamento, assicurerebbe nuove entrate all’Istituto in un periodo difficile e consentirebbe agli assicurati di sostenerne l'onere. In questi anni i riscatti sono fortemente diminuiti e lo sarebbero ancora di più se non ci fosse la coda di riscatti chiesti molti anni fa e che l’Istituto continua a smaltire con grave ritardo.
Il risparmio previdenziale va incentivato anche per quanto riguarda le ricongiunzioni. Sono soprattutto i giovani che, specie a inizio carriera, hanno lavorato presso diversi datori di lavoro che hanno interesse ad un ampliamento delle ricongiunzioni. Molte contribuzioni non sono infatti ricongiungibili, ne sono esempi la gestione separata Inps, i contributi dei lavori autonomi verso il fondo lavoratori dipendenti, le contribuzioni obbligatorie alle casse dei liberi professionisti per gli iscritti agi albi. Si determina una frantumazione della contribuzione iniqua e penalizzante , cui solo parzialmente pone rimedio la totalizzazione. Infatti La ricongiunzione consente di rimpinguare le modeste contribuzioni e in alcuni casi di passare dal sistema contributivo puro al misto nonché talora di anticipare l’età pensionabile. Anche la ricongiunzione totale di tutti i contributi consente di riaprire l'investimento previdenziale. Infine sono necessari meno vincoli alla contribuzione volontaria con qualche indispensabile incentivo per chi ha perso il lavoro, ampliabile anche in favore di familiari a carico e di figli portatori di disabilità.
Vanno infine evitati provvedimenti di ricalcolo retroattivo delle prestazioni previdenziali, come quella che Inps si accinge a fare, a seguito della legge di stabilità per il 2015, nei confronti dei pensionati 2012-2015 con 18 anni di contribuzione al 31.12.1995. A fronte di minimi recuperi si mette pesantemente in discussione la credibilità del sistema, con un operazione sulle pensioni già liquidate che non ha precedenti.
In definitiva vorremmo un inps che si candida ad accogliere il risparmio previdenziale favorendo un investimento che consente di reperire risorse immediate e di limitare in futuro il pagamento di prestazioni assistenziali per i soggetti portatori di contribuzioni insufficienti. Un vero e proprio fondo di investimento chiuso capace di competere con forme alternative di investimento oggi più che mai poco redditizie e rischiose.
Il rilancio possibile della previdenza complementare. A differenza degli altri Paesi europei la previdenza complementare non decolla, l’investimento in previdenza integrativa è pari a meno della metà di quanto gli italiani spendono nel gioco d’azzardo legale. Evidentemente non è solo un problema di risorse ridotte, anche perché altre forme di risparmio gestito hanno subito un incremento e in generale la crisi ha accentuato la propensione al risparmio. Si tratta di uno strumento fondamentale per integrare le pensioni, in particolare per quelle calcolate con il sistema contributivo puro e per prevenire la povertà. Non a caso in Francia la previdenza integrativa è diventata obbligatoria.
Ha giocato negativamente certamente la scarsa informazione, alcune iniziative governative come l’incremento dal 11% al 20% della tassazione sui rendimenti che ha alimentato diffidenze ed incertezze, nel settore pubblico il mancato varo del più volte promesso decreto sulla tassazione ridotta in uscita delle pensioni da previdenza integrativa.
Tuttavia l’elemento decisivo che ha reso poco appetibile la previdenza integrativa consiste nell’obbligo di conferire in parte o completamente il Tfr maturando.
L’abolizione dell’obbligo di conferire il Tfr darebbe immediatamente nuovo slancio al sistema, tale abolizione già possibile nel settore pubblico contrattualmente anche se limitatamente agli assunti prima del 2001, dovrebbe essere estesa a tutti i lavoratori.
In un ottica di espansione della previdenza pubblica, meno esposta di altre forme di previdenza alle oscillazioni e ai rischi dei mercati finanziari, un iniziativa del genere consentirebbe finalmente al nostro Paese di limitare il gap rispetto ai principali Stati europei in materia di previdenza integrativa. L’equiparazione delle norme tra lavoratori del sistema pubblico e privato appare indispensabile, il settore pubblico è già penalizzato dal fatto che l’accantonamento per Il Tfs e in parte per il Tfr è virtuale, ciò impedisce ai gestori di operare sui mercati con la piena disponibilità della liquidità, vanno armonizzate al più presto le norme sul trattamento fiscale.
Correggere le rigidità della legge Fornero con una flessibilità in uscita. La legge Fornero, dettata da cause di forza maggiore, ha creato un prolungamento talora drammatico della permanenza in servizio in soggetti ormai prossimi alla quiescenza.
Facciamo due casi estremi.
Un soggetto di sesso maschile con 36 anni di contribuzione al 31.12.2011 nato il 31 dicembre 1951 è potuto andare in pensione nel marzo 2103 con una finestra di 14 mesi, avendo raggiunto quota 96 entro il 31.12.2011.
Un altro soggetto di sesso maschile con 36 anni di contribuzione al 31.12.2011 ma nato il giorno dopo, il 1 gennaio 1952, dovrà andare in pensione con 42 anni e 10 mesi nel mese di novembre del 2018 o con la pensione di vecchiaia a 66 anni e 7 mesi nel settembre 2018. Tra i due soggetti esiste un giorno solo di differenza alla nascita ma ben 5 anni e 6 mesi di differenza nel raggiungimento del traguardo pensionistico. Sul piano teorico l'interessato raggiungerà la pensione con livello della ex quota abolita pari a 109 anni e 3 mesi, contro i 96 richiesti fino al 2011.
Inoltre se l’interessato aveva provveduto a riscatti o ricongiunzioni onerose tali esborsi non incideranno sull'età pensionabile, tutto questo senza che sia possibile la restituzione dei contributi versati, come previsto dalla normativa in atto.
Per ovviare a questo inconveniente il legislatore con l’articolo 15 bis ha concesso una deroga con pensionamento a 64 anni, ma solo per i dipendenti privati, ne restano esclusi i dipendenti pubblici e i lavoratori autonomi. L’estensione a tutti i lavoratori delle previsioni del 15 bis è un atto di giustizia minimo, da realizzare al più presto e comunque entro il 2015 data oltre la quale si consuma la discriminazione.
Appare ragionevole ripristinare il pensionamento per quote e si concorda che la quota 100 possa essere un ragionevole punto di ricaduta.
Eliminare le discriminazione del settore pubblico nei confronti del sistema privato. I provvedimenti legislativi di questi ultimi anni hanno penalizzato i dipendenti pubblici rispetto a quelli privati. Si è già accennato alle differenze sul sistema della previdenza complementare e all’esclusione dei dipendenti pubblici dalle previsioni del 15 bis. Inoltre solo i dipendenti pubblici hanno subito il differimento della liquidazione fino a 48 mesi senza interessi e rivalutazione monetaria.
Infine le donne del servizio pubblico accedono alla pensione di vecchiaia con notevole ritardo : nel 2015 la pensione di vecchiaia è di 63 anni e 9 mesi per le donne del settore privato contro i 66 anni e 3 mesi nel settore pubblico, tale discriminazione persisterà fino a tutto il 2018.
E' prevalso il pregiudizio ideologico secondo il quale nel privato il lavoro sia più usurante che nel servizio pubblico, in tal modo una dottoressa o un infermiera che opera nell’emergenza è discriminata nei confronti di una lavoratrice del settore bancario o assicurativo.
Attivare strumenti innovativi per consentire la permanenza in servizio. Nella stragrande maggioranza dei Paesi europei la permanenza in servizio viene incentivata con adeguati provvedimenti al raggiungimento di una determinata soglia di età:
-incremento del numero di ferie e riduzione dell’orario di lavoro;
- esclusione del lavoro festivo e notturno;
- valorizzazione del lavoro usurante;
- valorizzazione delle percentuali di invalidità ai fini della prestazione lavorativa;
-staffetta generazionale con affiancamento di personale giovane in formazione;
-valorizzazione effettiva del part-time oggi fortemente penalizzato in particolare negli ultimi anni di lavoro dal sistema di calcolo della liquidazione e della pensione ancorate in tutto e in buona parte sull’ultimo stipendio.
L’elevazione dell’età lavorativa deve necessariamente essere accompagnata da provvedimenti incentivanti incentrati sulle condizioni di lavoro ottenendo una permanenza volontaria. L’unico reale elemento di flessibilità, ancorché fortemente penalizzante, la cosiddetta “opzione donna”, ovvero la possibilità di pensionamento a 57 anni e 35 di contributi con il calcolo contributivo per tutto il periodo di contribuzione è in scadenza al 31.12.2015 dopo che l’interpretazione dell’Inps ne ha ridotto la portata originaria conglobando il periodo finestra. In tal modo i requisiti sono stati anticipati al dicembre 2014 e di fatto tale opzione non è più disponibile, nonostante il legislatore avesse previsto una possibile proroga dopo il periodo di definito “sperimentale” di applicazione.
E' urgente una proroga legislativa dell’opzione donna.
Parimenti la possibilità di pensionamento anticipato optando per il sistema contributivo puro per tutto il periodo contributivo deve essere estesa alla generalità dei lavoratori, scambiando il risparmio pensionistico determinato dal minore assegno con una riduzione dell'età pensionistica, di fatto senza maggiori oneri.
Il sistema pensionistico come fattore di sviluppo. Il rilancio dell’occupazione e della contribuzione all'Ente passa anche attraverso il ricambio generazionale con una sostituzione degli attuali occupati. Non vi è dubbio che la riforma Fornero abbia contribuito alla disoccupazione giovanile riducendo il turnover.
Infine occorre maggiore chiarezza va fatta sulle cosiddette “pensioni d'oro” non è stato adeguatamente soppesato il fatto che tutti i lavoratori con il sistema misto o retributivo pre Fornero non hanno un tetto alla contribuzione, a differenza dei contributivi puri, in pratica sono sottoposti a una contribuzione del 33% illimitata. L'incremento pensionistico è comunque legato in gran parte ad una maggiorazione della contribuzione oltre che ad una tassazione massima degli assegni.
Si ricorda che mediamente un dirigente pubblico versa circa un milione di euro durante il periodo di contribuzione è impensabile che a tale esborso (che ha precluso investimenti alternativi) non corrisponda una pensione adeguata.
Quanto ai coefficienti di rivalutazione legati al PIL, che nel 2015 producono un rendimento negativo che solo l'intervento dell'Inps non ha portato ad una decurtazione, sono improponibili e determinano un risparmio improprio anche nei confronti degli interessi che lo Stato versa sui titoli di Stato. Tutto questo richiede l'ammissione da parte della politica che i contributi previdenziali sono un risorsa dei lavoratori e non un capitale a disposizione delle politiche di bilancio.
Concludendo se si vuole valutare il sistema pensionistico nel suo insieme senza ricorrere ad analisi superficiali è possibile trovare numerose ed adeguate soluzioni, anche senza oneri per la finanza pubblica, che superino le iniquità e le rigidità di un sistema che non concorre adeguatamente allo sviluppo del Paese.
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