In parlamento
Riforma Madia, l’uso dei “furbetti” e i rebus futuri
di Stefano Simonetti
La Corte costituzionale, bocciando la legge Madia, ha ufficializzato ciò che tutti ormai sapevano e avevano evidenziato in numerose occasioni: l’attività legislativa dell’attuale Governo prevarica spesso i principi generali dell’ordinamento giuridico vigente, oltre che essere tecnicamente assai scadente.
Il conflitto istituzionale che si è scatenato ha purtroppo portato ad affermazioni prive di lucidità e di conoscenze giuridiche. A parte la teoria dei complotti della burocrazia, quello che evidentemente il Governo ignora è che lo Stato e le Regioni sono due componenti della Repubblica assolutamente paritarie e a una delle due non può essere consentito di intervenire in modo unilaterale su materie di interesse comune o, peggio, di interesse locale. Questo è quello che afferma chiaramente l’articolo 114 della Costituzione che non è modificato dalla Riforma Boschi. In tal senso è agevole comprendere la enorme differenza tra un parere - non vincolante - e un’intesa che “deve” essere raggiunta all’unanimità e che, solo in ultima analisi, anche in caso di un solo voto contrario, dopo 30 giorni di reiterate trattative ed esperiti tutti gli strumenti di mediazione, può essere abbandonata in favore dell’atto unilaterale statale.
Le reazioni scomposte al dispositivo della sentenza hanno addirittura fatto affermare che «abbiamo reso licenziabile il dirigente che non si comporta bene e per la Consulta la norma è illegittima». Ebbene, i dirigenti incapaci si licenziano con gli strumenti ordinari mentre il buco nero contenuto nello schema di decreto delegato - tra altre decine di orrori - si riferiva ai dirigenti privi di incarico che dopo due anni di disponibilità sarebbero stati licenziati. Il vero problema - evidentemente ignorato dal Governo - è che dal testo del decreto il singolo dirigente direttamente interessato non riesce a capire le circostanze e le condizioni per le quali si potrebbe ritrovare privo di incarico: sicuramente non per valutazione negativa o per fatti disciplinari, forse per aver detto qualche no di troppo.
È plausibile però che il Governo non lo ignori affatto ma che sia pienamente consapevole che quella parte del decreto maschera, neanche tanto velatamente, un micidiale sistema di spoils system che è stato ampiamente censurato dal Consiglio di Stato. La cartina di tornasole sta proprio in quel “non si comporta bene” che è ormai palese che corrisponda a “non si sottomente alla volontà dell’organo politico”.
Resta il fatto che ci aspetta un periodo di caos assoluto. Proviamo a delineare alcuni scenari. Il Governo dovrebbe riportare in Parlamento la legge 124/2015 per due adempimenti indispensabili: sostituire nei quattro articoli cassati lo strumento dell’intesa al semplice parere e determinare i periodi di riapertura delle deleghe. È oggettivamente un passaggio che potrebbe richiedere - a condizioni politiche invariate - pochi giorni per cui il recupero del tempo perso potrebbe essere rapido.
Ovviamente lo schema di decreto sulla dirigenza salta, senza alcun rimpianto. L’altro aspetto è quello dei decreti già in vigore che sono due (116 e 171) ma estremamente delicati. Il primo riguarda il licenziamento degli assenteisti e comporta i maggiori problemi in quanto dalla sua entrata in vigore (13 luglio 2016) sono già parecchie le procedure attivate che devono andare avanti anche perché sui dirigenti incombono a loro volta delle responsabilità personali molto gravi in caso di omissione o inerzia. In teoria dovrebbe essere il singolo dirigente a disapplicare una norma colpita da incostituzionalità derivata - si chiama eterointegrazione - ma dubito che qualcuno sia disposto a prendersi tale bega. Sarebbe senz’altro meglio che il Governo adottasse un provvedimento formale di abrogazione del decreto, in ossequio al principio della certezza del diritto e come forma di “risarcimento” per tutti gli addetti ai lavori. Altrimenti il contenzioso sarà dilagante. Però intendiamoci: qualsiasi giudice di buon senso pronuncerà l’archiviazione mediante una lettura costituzionalmente orientata ma il tempo perso e le spese legali saranno ingenti. Senza contare che nei confronti dei “furbetti” non potrà più essere attivato il procedimento disciplinare “normale”, visto che i termini sono ovviamente scaduti e un bis in idem è vietato. Bel risultato è stato ottenuto: l’impunità di quei galantuomini filmati dalle telecamere con un costo sociale devastante, e dare la colpa al Molise è francamente infantile.
Ribadisco per l’ennesima volta che con la procedura ordinaria si aveva la certezza di concludere il procedimento entro 120 giorni perentori - senza peraltro escludere la possibilità di irrogare la sanzione in soli 25 giorni - mentre con il procedimento “speciale” i 30 giorni millantati dal Governo sono virtuali perché decorrono dal ricevimento della contestazione, per cui il termine finale potrebbe tranquillamente essere più lungo del procedimento normale. In termini tecnici in quest’ultima fattispecie il dies a quo è assolutamente certo mentre con il decreto 116 è incerto e si presta ad ogni conosciuto comportamento dilatorio e opportunistico del dipendente.
L’altro decreto concerne l’elenco dei direttori generali ma, in questo caso, le conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità sono molto meno invasive. Non ci sono infatti rapporti giuridici già consolidati e la messa a regime del decreto 171 era abbastanza lontana nel tempo. Va da sé che si dovrà ricominciare tutto da capo - compresi i due decreti ministeriali - salvando gli aspetti positivi del decreto 171 (necessità del possesso “prima” dell’attestato di formazione, blindatura dell’elenco per due anni, limite al numero di incarichi nella stessa azienda) e magari evitando di ripetere il pasticcio di un candidato con 100 punti non prescelto da nessuna regione e uno con 75 punti invece nominato. Ma questo passaggio fu voluto proprio dalle Regioni e c’è da scommettere che sarà il nocciolo duro dello scontro in Conferenza Stato-Regioni. Forse la soluzione migliore e di maggior buon senso sarebbe quella di eliminare il punteggio.
Si diceva che la sentenza 251 ha solo avuto la funzione di evidenziatore finale di una tendenza che dura purtroppo da anni e non è certamente addebitabile solo al Governo in carica. La tecnica legislativa è talmente scaduta che a volte si ha il sospetto che le tecnostrutture commettano volutamente grossolani errori quasi come forma di insider trading. Si passa da reiterati eccessi di delega a leggi che non riescono mai ad andare a regime. Su materie delicatissime le disposizioni legislative si sono rincorse e sovrapposte nel tempo senza mai riuscire risolvere in via definitiva le problematiche. Basti citare la libera professione, la responsabilità civile dei sanitari, le inidoneità temporanee, il sistema di valutazione dei dirigenti, la stabilizzazione del precariato. E poi norme ridondanti, norme di complessa se non impossibile applicazione, addirittura errori e refusi ripetuti (nel box viene riportata una sintesi riguardante la sanità). Infine, caratteristica peculiare dell’attuale esecutivo è quella di rincorrere talvolta l’opinione pubblica normando più con la pancia che con la testa. Ne sono scoraggianti esempi il decreto sugli assenteisti e il passaggio delle visite fiscali all’Inps cioè due emendamenti nell’Atto Senato 1577 (che sarebbe poi diventato la legge Madia) inseriti 20 giorni dopo il vergognoso episodio dei 700 vigili malati a Roma nella notte di capodanno. Come ha puntualmente segnalato il Consiglio di Stato, sembra che al Governo non interessi il reale bene della collettività bensì quello che da quest’ultima è percepito attraverso i mass media.
Se non si inverte tale tendenza la distanza tra il paese reale e quello legale diverrà abissale e i rapporti giuridici che regolano fondamentali aspetti economico-sociali saranno in preda all’anarchia.
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