Dal governo

Autonomia differenziata: la ricchezza del Nord poggia anche sugli investimenti realizzati nel Sud

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Il divario economico tra Nord e Sud è una delle ragioni per cui le opposizioni criticano la legge sull’autonomia differenziata, recentemente approvata in Parlamento e ne propongono un referendum abrogativo.
Questa norma, che applica, con una legge ordinaria, la riforma costituzionale del Titolo V del 2001, permette alle Regioni di occuparsi in maniera indipendentemente dallo Stato centrale di alcune questioni, che spesso richiedono anche finanziamenti ingenti.
L’autonomia differenziata interroga sia politici che studiosi sulla valutazione che questa iniziativa possa effettivamente realizzarsi in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo del Governo, che se ne è fatto carico su promozione di alcune regioni del Nord, si può sintetizzare nel voler aumentare l’efficienza e ridurre i divari territoriali. Capisaldi essenziali per una corretta azione nei diversi campi del welfare (sanità e assistenza), istruzione, amministrazione. Alla base di queste attività è da verificare l’equilibrio finanziario tra attribuzione di funzioni ed entrate regionali. I sostenitori dell’autonomia sostengono che non mostri alcuna sofferenza l’incremento della compartecipazione regionale ai tributi erariali, in misura corrispondente alle funzioni cedute alle regioni e fino ad ora svolte dall’amministrazione centrale/statale, e possa mettere a rischio la perequazione fra regioni e impedirne la sua realizzazione. In pratica l’obiettivo sarebbe quello di puntare a prestazioni abbinate a costi e fabbisogni standard senza cadere nell’ assistenzialismo, col pretesto, di alcune regioni, che sia lo Stato a sostenerne la spesa.
L’Osservatorio sui Conti pubblici dell’Università Cattolica, su dati Bankitalia, ha rilevato che il gettito fiscale in sette regioni di Nord e Centro supera le spese di 95,9 miliardi. Le restanti, fra cui quelle del Sud, spendono 64,2 miliardi in più del gettito prodotto. L’economia del Centro-Nord vale il 78 % del Pil nazionale mentre quella del Sud solo il 22 %.Vale la pena, però, ricordare che i cittadini del Sud, il 34,2 % degli italiani, portano a casa appena il 27,8 % dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Il Centro-Nord, invece, riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe : il 65,7 % della popolazione accede al 72,1 % delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno.
Per uno del Sud appena 13.144. Sanità, infrastrutture, istruzione, ricerca sono i settori nei quali le disparità sono accentuate e palesi.
Nell’ultimo ventennio, lo Stato ha investito più al Nord che al Sud. I numeri sono evidenti. Il primo, ad esempio, ed è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che solo nel 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale a quella del Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo.
Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti Pubblici Territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico.
Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4 %, in crescita dello 0,4 % rispetto al triennio precedente, fra quanto le regioni meridionali avrebbero dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto hanno avuto in realtà. Ma, comunque, molti affermano che la così detta perequazione strutturale richiesta dal Sud si è basata, in passato soprattutto, su l’utilizzo di risorse fiscali prodotte al Nord e utilizzate, non sempre questo, in verità, in maniera ottimale al Sud. Basti ricordare l’insipienza delle classi dirigenti meridionali con l’ancora presente migrazione sanitaria, siccità, emigrazione giovanile e dei meglio dotati.
Ma se questo appare obbiettivamente rilevabile sullo stato di abbandono di molte strutture e amministrazioni del Sud, spesso coinvolte con la malavita organizzata, poco si dice che l’utilizzo delle fonti statali della perequazione abbiano, in maniera preponderante, favorito proprio il Nord.
Storicamente il miracolo economico italiano, conosciuto anche come “ boom economico ”, identifica un periodo della storia d’Italia compreso tra i primi anni ’50 e gli anni ’60 del ’900. Appartenente dunque al secondo dopoguerra italiano, ovvero ai primi decenni della Prima Repubblica, caratterizzato da una forte crescita economica. Al Nord, oltre al triangolo industriale del nord-ovest ( Genova, Torino, Milano ), nato ai tempi dell’Unità d’Italia con il Regno di Sardegna e caratterizzato per lo più dall’attività siderurgica e metalmeccanica, si affermava anche il triangolo del nord-est ( Padova, Vicenza, Treviso) caratterizzato da attività manifatturiera, diffusa anche in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Marche. In questo periodo della storia d’Italia, fino alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, tra le grandi realtà industriali che hanno trainato il boom economico si ricordano la casa automobilistica Fiat, il gruppo Montedison, l’azienda produttrice di macchine per ufficio Olivetti, il gruppo metalmeccanico Ansaldo e il gruppo siderurgico Ilva.
Tra il 1950 e il 1973 l’industria manifatturiera è cresciuta del 500 % e divenne centrale all’economia nazionale. Si assistette, contemporaneamente, all’ingresso di numerosi beni di consumo durevoli, come le prime lavatrici e frigoriferi, la cui produzione era svolta, esclusivamente, da imprese italiane del Nord . Anche le automobili cominciarono a diffondersi sulle strade italiane con le FIAT 600 e 500, in produzione rispettivamente dal 1955 e dal 1957 e progettate ex novo da Dante Giacosa, che diede grande impulso alla produzione della casa torinese. Lo Stato perseguì massicci investimenti nelle infrastrutture produttive tramite le grandi aziende partecipate : acciaio (Finsider), telefonia (STET), autostrade (IRI), energia (Eni), televisione (RAI), chimica (Montecatini), carburanti (AGIP).
Tutte queste produzioni, realizzate esclusivamente al Nord, furono anche sostenute fortemente d’acquisti prodotti dal Sud, con le pensioni e i redditi, spesso modesti, dei residenti, ma anche con i denari della perequazione interregionale, con parallelo incremento dei fatturati delle aziende del nord. Durante il decennio Cinquanta il tasso annuo di crescita dei redditi pro capite fu pari al 5,3 % nell’Italia centrosettentrionale e al 3,2 % nel Mezzogiorno. Quattro regioni settentrionali, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Lombardia, infatti, assorbivano, nel 1960, un volume di redditi da lavoro (4. 099 miliardi) praticamente doppio rispetto a quello (2. 088 miliardi) riferibile a sette regioni centro-meridionali : Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Lo sviluppo di quegli anni fu accompagnato da un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione sostenuto dalla crescita dei consumi privati che, tra il 1950 e il 1962, avevano registrato un tasso di sviluppo di entità mai sperimentata in precedenza, pari al 4,9 % annuo (6,6 % nell’ultimo triennio). Assumeva, quindi, ulteriore significato la centralità assunta, nell’ambito dello sviluppo di quegli anni, dal settore meccanico dal momento che la diffusione dei beni di consumo durevoli, automobili ed elettrodomestici, ha rappresentato non solo un elemento trainante per l’economia nel suo complesso. Un’importante conseguenza di questo processo fu l’imponente movimento migratorio avutosi negli anni 1960 e 70. La crescita industriale del Nord fu sostenuta dall’abbondanza di manodopera a basso costo, alimentata dall’abbandono dell’agricoltura e dalla migrazione interna. È stato calcolato che nel periodo tra il 1955 e il 1971, circa 9.150.000 persone siano state coinvolte in migrazioni interregionali. Nel quadriennio 1960-1963, il flusso migratorio dal Sud al Nord raggiunse il totale di 800.000 persone all’anno.
Il punto più debole dell’economia italiana era, anche, rappresentato dall’agricoltura. Le aziende, in particolare del Sud caratterizzate da una scarsa produttività o ai margini di un’economia di sussistenza, erano quasi il 60 % del totale e le piccole imprese familiari avevano continuato a sopravvivere la loro presenza senza dar luogo ad adeguate forme associative nella produzione e nel collegamento con i mercati. In pratica, circa l’80 % della superficie coltivata era distribuita fra 2 milioni e mezzo di unità aziendali, di cui 2 milioni con dimensioni inferiori ai 5 ettari. A rendere quanto mai precaria la situazione dell’agricoltura al Sud stava poi il fatto che le terre più fertili riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano prevalentemente concentrate in Val Padana. Quelle povere o mediocri rappresentavano un carico variabile tra il 60% e il 65% della popolazione agricola attiva e si dividevano un reddito equivalente a non più del 33% della popolazione nazionale. Anche in questo settore la produzione di beni alimentari e dei suoi prodotti di trasformazione quali i formaggi ( Certosa, Galbani. Polenghi Lombardo, Invernizzi, ecc.) salumi ed insaccati ( Citterio, Negroni, Soresina, ecc, ) favorivano gli acquisti del Sud, con un incremento del valore dei beni prodotti al Nord rispetto allo scarso rendimento dei prodotti di base, latte e carni, prodotti al Sud.
La prevalente concentrazione industriale e le condizioni di maggiore produttività agricola e terziaria nel Nord del Paese continuava, pertanto, ad alimentare situazioni di forte divario economico territoriale, cariche di implicazioni sociali oltre che economiche.
I redditi da lavoro dipendente erano passati da 4.503 a 8.977 miliardi di lire tra il 1952 e il 1960. Si trattava di una massa imponente di risorse, la cui manovra e le cui modificazioni, derivate essenzialmente dalla politica, influisce piuttosto notevolmente, come del resto la realtà ha mostrato, sull’intero sistema economico.
La diseguaglianza nella distribuzione del reddito e nelle altre basi imponibili tra le regioni italiane era così forte, e sfortunatamente lo è ancora adesso, che sarebbe stato impensabile realizzare un sistema più decentrato e di tipo federale senza accompagnarlo con qualche forma di perequazione sul territorio.
L’entità territoriale rilevante ai fini della perequazione è la regione.
La perequazione deve garantire a tutte le regioni risorse sufficienti per offrire ai propri cittadini i servizi pubblici indispensabili ( quali l’assistenza sanitaria ad esempio ) di propria competenza, in ottemperanza con l’obbligo costituzionale. Occorre quindi verificare che, in seguito alla perequazione, tutte le regioni dispongano delle risorse sufficienti a raggiungere questo obiettivo.
Dati gli ampi divari di basi imponibili esistenti tra le regioni italiane, è stato necessario che il decentramento fiscale fosse accompagnato da un sistema di perequazione a favore delle regioni più povere.
E’ da rilevare che la quantificazione di questo vincolo è in parte arbitraria. Venne, quindi, proposto un modello di perequazione orizzontale basato su una formula automatica, non discrezionale, fondata su trasferimenti generali calcolati da indici di capacità fiscale “corretta”. Le regioni povere ricevono trasferimenti da un fondo perequativo, che a sua volta era ed è alimentato dai versamenti delle regioni ricche. La perequazione non è un meccanismo di finanziamento residuale, bensì un meccanismo redistributivo che compensa le minori risorse tributarie a disposizione delle regioni più povere.
Il sistema dei trasferimenti interregionali gestito dal bilancio pubblico ha lo scopo di ridurre le disparità fiscali tra le varie giurisdizioni territoriali dovute alle loro diverse capacità di produrre gettito e/o ai loro diversi bisogni di spesa pubblica.
Sebbene l’esigenza della perequazione sia comunemente accettata, il come realizzarla resta un problema completamente aperto. In particolare la revisione periodica dei parametri della perequazione, soprattutto se basata su una procedura discrezionale, espone la perequazione al rischio della rinegoziazione e quindi al pericolo di un vincolo di bilancio “soffice” ( Giarda 1995 ), così come del resto è storicamente sempre avvenuto nel contesto italiano. La perequazione dovrebbe essere, invece, realizzata con meccanismi fissati per legge e non facilmente rinegoziabili applicando una formula automatica che tenga conto delle differenze esogene, cioè non manipolabili dai governi regionali, nella dimensione delle basi imponibili pro-capite.
Appare, pertanto, dubbio che il nuovo regionalismo possa, non seguendo questi criteri, ridurre i divari territoriali e diminuire le diseguaglianze in un Paese in cui la economia del Mezzogiorno vale meno di un quarto di quella complessiva.
Potrebbe, anche, intensificare le disparità esistenti, specialmente se alcune Regioni non fossero in grado di compensare adeguatamente la perdita di fondi centrali con risorse proprie sufficienti. Questo potrebbe accentuare le differenze nella qualità dei servizi offerti e nella capacità di erogare servizi essenziali come la sanità, l’istruzione, l’assistenza sociale, con le regioni più ricche, in grado di investire maggiormente nei servizi sociali e infrastrutture rispetto alle regioni più povere.
Di conseguenza, il Mezzogiorno potrebbe trovarsi in una posizione più vulnerabile, con minori margini di manovra per affrontare emergenze. Rischiando quindi di accumulare ritardi nello sviluppo socio-economico.
In un territorio così diseguale, come sarebbero possibili livelli essenziali delle prestazioni ( Lep ) per ridurre le diseguaglianze senza risorse aggiuntive?
Se le regioni più ricche, quelle che producono più tasse di quanto spendono, decidessero di trattenere una piccola parte delle risorse con cui oggi contribuiscono al bilancio nazionale, si potrebbe mettere a repentaglio non solo l’economia complessiva del Paese ma anche la sua unitarietà.


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