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Manovra: il rebus pensioni tra Quota 41 light, stop all’indicizzazione e assegno minimo

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Nell’agone politico, in vista della prossima manovra economica, vi sono tendenze contrapposte anche per le pensioni. Da una parte ogni partito di maggioranza punta a dare risposte al proprio elettorato, ma dall’altra parte le casse vuote impongono un doloroso bagno di realtà.
La Lega spinge per la cosiddetta Quota 41 light. E’ la soluzione di compromesso per aggirare la legge Fornero. Forza Italia chiede, a gran voce, l’aumento delle pensioni minime e Fratelli d’Italia valuta di tirare il freno a mano alle pensioni anticipate e di bloccare l’indicizzazione dell’assegno pensionistico all’inflazione. Ricordiamo che la spesa pensionistica in Italia pesa già per il 16,3% del Pil. Una percentuale enorme che costringe lo Stato a grossi sacrifici per mantenere i pensionati. Quota 41 light si distingue dall’originale ipotesi di una Quota 41 perché viene messa da parte l’idea di puntare unicamente su 41 anni di contribuzione senza tenere in considerazione altri parametri. La versione light prevede, secondo la formulazione leghista, di ricalcolare l’assegno su base totalmente contributiva. Questo però richiederebbe un grosso sacrificio economico al pensionato. Il ricalcolo contributivo totale comporterebbe un taglio del 20% dell’assegno pensionistico per chi sceglie questa alternativa.
Quello di alzare le pensioni minime è un vecchio cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi. La battaglia viene oggi portata avanti dai suoi eredi azzurri. Nell’ultimo biennio gli aumenti delle minime sono stati 579 euro per tutti e 600 euro per gli over 75. Le misure scadono il prossimo 31 dicembre, ma nel frattempo gli assegni sono stati rivalutati all’inflazione. Il costo per l’aumento delle minime è stato pari a quasi 650 milioni di euro.
Il 2025 sarà l’anno in cui la lunga coda di Quota 100 si esaurirà definitivamente. Dopo anni di modifiche e prolungamenti per evitare un improvviso aumento dell’età pensionabile, la norma di flessibilità, che permetteva di smettere di lavorare a 62 anni con 38 di contributi, scomparirà.
In vigore sono rimaste ancora in tutto tre leggi che consentono di andare in pensione in anticipo:
•Ape Sociale (Confermata per il 2025) riservato a chi è impiegato in lavori gravosi, ha un parente disabile che assiste o si ritrova disoccupato e soddisfa i requisiti di 63 anni e 5 mesi di anzianità e 30 anni di contributi versati;
•Opzione Donna (Confermata per il 2025) riservata alle donne con 61 anni di età e 35 di contributi che assistono un familiare disabile, sono state licenziate o hanno subito una forte riduzione della capacità lavorativa;
•Quota 103 (Non confermata per il 2025) riservata a chiunque abbia compiuto almeno 62 anni di età e abbia maturato 41 anni di contributi lavorativi.
E così, mentre a Palazzo Chigi si discute (sempre rigorosamente a porte chiuse) su come si possa ancora sperare di approvare quella “ Quota 41 ” ecco che appare sempre più concreta la possibilità che la contestata legge Fornero torni a essere protagonista a partire dal 1° gennaio 2025.
Qualora non vi fosse spazio per approvare nuove misure in materia previdenziale, le regole introdotte dall’allora governo tecnico di Mario Monti diventerebbero il perno attorno a cui sviluppare tutte le uscite dal mondo del lavoro, anticipate e non, durante il corso del prossimo anno. Altro che abolizione della legge Fornero.
In sostanza, le possibilità per ottenere l’assegno previdenziale tornerebbero a essere due. Per la cosiddetta pensione di vecchiaia ritornerebbe in vigore il limite di 67 anni di età, con almeno 20 anni di contributi. E per la pensione di anzianità, invece, si tornerebbe alla soglia minima di 42 anni di contributi e 10 mesi ( 41 e 10 mesi per le donne ) indipendentemente dall’età del lavoratore e con una finestra d’uscita di tre mesi. L’opzione vagliata e in discussione adesso sarebbe di arrivare addirittura a 6-7 mesi di finestra che intercorre tra la maturazione dei requisiti e la decorrenza della prestazione ovvero l’effettivo trattamento. L’aumento delle finestre porterebbe all’uscita dal lavoro dopo 43 anni e 4 mesi - o addirittura a 43 anni e 5 mesi nel caso entrasse l’opzione di allungamento della decorrenza a sette mesi - per gli uomini e dopo 42 anni e 4 mesi per le donne.
Si studiano inoltre incentivi a non pensionarsi, mirati ad alcune professioni.
Consentire una flessibilità in uscita sostenibile per i conti pubblici significa una cosa sola : penalità sulle pensioni anticipate e “premi” a chi resta. L’hanno già fatto l’anno scorso. Rispolverando il bonus Maroni e inventandosi il “ bonus medici ”.
In entrambi i casi, modi per evitare un taglio: quello del ricalcolo contributivo, applicato per la prima volta anche alla nuova Quota 103 (oltre che a Opzione donna), e l’altro taglio piombato su 732 mila dipendenti pubblici, camici bianchi compresi, che ha assicurato già 21 miliardi di risparmi allo Stato entro il 2043. Nel caso dei medici si è arrivati addirittura a “Quota 46”, l’uscita con 46 anni di contributi.
Ma c’è anche un’altra idea, soprattutto, per i giovani, quelli con una prospettiva di pensioni misere a 70 anni e oltre perché precari e intermittenti. Alcuni esponenti governativi vogliono aiutarli istituendo «l’obbligo» a versare il 25% della quota mensile del Tfr ai fondi complementari di categoria o ai fondi aperti. Perché è il momento di incrementare l’obiettivo del secondo pilastro. Se n’era parlato, senza però evocare l’obbligo, anche a metà settembre dell’anno scorso, all’ultimo tavolo sulle pensioni dei sindacati con la ministra del Lavoro Marina Calderone.
La possibilità cioè di sommare la rendita “privata” scaturita dai fondi a quella pubblica maturata in Inps, così da raggiungere più facilmente il traguardo di uscita dei 64 anni con 20 di contributi. Traguardo che poi però la premier Meloni, neanche un mese dopo, aveva reso in manovra ancora più impossibile, portando la condizione di uscita a 64 anni dei Millennials a un livello da “ ricchi ”: 3 volte l’assegno sociale anziché il 2,8. In pratica si esce solo con una pensione da 1.600 euro circa che riesce ad assicurarsi solamente chi ha carriere continue e ben pagate.
Altro che aiuto ai giovani. Vi è, inoltre, che introdurre un obbligo, anche solo parziale, di versare il Tfr ai fondi possa sollevare dubbi di costituzionalità.
Intanto si attende, per settembre, quello che il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) intende proporre per la previdenza futura. Infatti un gruppo di lavoro istituito dal Cnel a febbraio, denominato “ Riforma e prospettive del sistema previdenziale ”, sta lavorando per individuare le criticità del sistema attuale e proporre linee guida per un’eventuale riforma.
Da indiscrezioni appalesate, sino ad ora, si proporrebbe l’idea di una “flessibilità strutturale” con l’uscita possibile tra 64 e 72 anni, a patto di poter contare su una pensione di almeno 800 euro, pari a una volta e mezzo l’assegno sociale, di accettare la penalità del ricalcolo contributivo oppure un taglio del 3-3,5% per ogni anno di anticipo rispetto ai limiti di legge, e di avere almeno 25 anni di contributi versati.
Significa per la pensione di vecchiaia non più 67 anni e 20 di contributi come oggi, ma 67 anni e 25. Cambierebbe anche il requisito per la pensione anticipata. Oggi servono 42 anni e 10 mesi di contributi ( per le donne un anno in meno ), senza vincoli di età. Diventerebbero 44 anni di contributi con 64 di età.
L’obiettivo dichiarato di questa che per ora è solo una delle possibili proposte degli esperti Cnel è di ridurre il numero di pensioni liquidate in ciascun anno e l’attuale durata ultratrentennale della metà delle pensioni anticipate. Gli esperti partono da una considerazione di fondo, derivata dagli ultimi dati della Ragioneria. L’anno scorso l’età media del pensionamento anticipato è stata di 61,6 anni contro 67,2 anni della vecchiaia: troppo bassa. Sul banco degli imputati finisce soprattutto Quota 100 e le altre quote sorelle, in deroga alla legge Fornero. Sono costate 40 miliardi in cinque anni e hanno zavorrato il bilancio pubblico di quattro decimi di punto di Pil ogni anno. Più lavoro, meno pensione. Questa la filosofia.


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