Dal governo

Corte dei conti: quel “detto” e “non detto” sulla gestione delle Regioni che richiama alla cautela nell’attuazione della legge Calderoli

di Ettore Jorio

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24 Esclusivo per Sanità24

Il primo di agosto, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti ha approvato, con la delibera n. 14/SEZAUT/2024/FRG, la “Relazione sulla gestione finanziaria delle Regioni/Province Autonome per gli esercizi 2020-2023 ”. Un tomo di 420 pagine e pieno zeppo di profonde considerazioni sul passato, il presente e, un po’ meno, sul futuro della sanità nazionale, intesa quale somma dei 21 sistemi sanitari regionali/provinciali.
Prescindendo dalla corretta analisi effettuata sull’incremento nel 2023 delle entrate tributarie regionali, ha speso una significativa preoccupazione sulla riattivazione del Patto di Stabilità e Crescita (Psc).
Un contenuto di pregio
Lo ha fatto sulla base di due attente valutazioni:
- la prima ha riguardato la preoccupazione del decremento operato dalla legge di bilancio per il 2024 che ha ridotto il finanziamento per il Fondo sanitario nazionale in termini di percentuale rispetto al Pil;
- la seconda, che è naturalmente conseguente alla prima, ha sottolineato la mancata compensazione dell’aumento dei prezzi, lievitati di molto a seguito della guerra Russia-Ucraina, che ha alimentato un crescita smoderata dei costi afferenti ai prodotti energetici.
Il tutto, ovviamente messo altresì in relazione alla disastrosa situazione del debito pubblico nazionale.
Fattori negativi che hanno inciso negativamente sui bilanci 2020-2022 delle aziende sanitarie e, quindi, delle Regioni, tanto da registrare disavanzi consistenti nei risultati aggregati – ma con equilibrio in termini di competenza - delle Regioni a statuto ordinario e di avanzo per quattro di quelle a statuto speciale, a eccezione della Sicilia.
I rilievi e la esigenza di una corretta programmazione
Questo è quanto appartiene al passato più prossimo con una reiterazione nel presente, produttivo però di preoccupanti timori per il futuro per l’andamento del sistema pubblico della salute, considerato fino a quasi un decennio fa una delle eccellenze italiane da vantare all’estero.
Ed è qui che i magistrati estensori (Cucuzza, Francaviglia, Luberti, Martina e Tomassini) dimostrano un buon esercizio della penna nel descrivere i gap:
- il negativo andamento della gestione della tutela della salute, oramai in crisi strutturale e senza una programmazione degna di questo nome dal 2006;
- i Lea che diventano sempre di più un miraggio, e non solo per le solite ultime in graduatoria (Calabria, Valle d’Aosta e Sardegna, Sicilia, Campania, Molise e Provincia autonomia di Bolzano a pari demerito) ma anche per molte delle tredici teoricamente promosse (Piemonte, Lombardia, Provincia autonoma di Trento, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Puglia e Basilicata).
Gli addebiti vanno tutti dritti al management che spende male, perché lo fa ben lontano dai principi, dalle regole e dalle procedure imprescindibili per una buona governance. Pollice abbondantemente verso per la politica che non mette a disposizione i necessari finanziamenti, anche in conto capitale (art. 20 legge 67/1988).
Verso entrambi pronuncia consistenti critiche per non essere stati in grado di mettere a terra, in più due anni, 1.350 Case della Comunità (CdC), 400 Ospedali di comunità (OdC) e 600 Centrali operative territoriali (Cot), lasciando il territorio completamente nudo delle strutture rese possibili con le risorse del Pnrr, al lordo di una telemedicina ampiamente finanziata ma non affatto realizzata sul piano del servizio reale. Infine, l’accusa di non essere stati capaci di adeguare in nove anni le strutture ospedaliere ai requisiti pretesi dal Dm70 del lontano 2015.
Gli strumenti Ue esprimono preoccupazioni
Nel leggere la Relazione, risulta molto interessante il focus che caratterizza molte delle sue 420 pagine. La ratio di partenza risulta affascinante perché piena di preoccupazioni per la società civile, per l’eguaglianza erogativa dei Lea. Lo fa a pag. 4 della “Introduzione e Sintesi”, tenuto conto della recente attuazione del regionalismo asimmetrico, ivi rappresentando che “Con la legge 26 giugno 2024, n. 86, è stata prevista l’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, cercando di conciliare l’unità della Repubblica con la differenziazione, la sussidiarietà e l’adeguatezza, subordinando l’attuazione del federalismo alla definizione dei Lep. Un punto critico potrebbe derivare dalla difficoltà di garantire i diritti civili e sociali uniformemente in tutte le Regioni, indipendentemente dall’autonomia richiesta”.
La delibera agostana del Massimo grado del controllo della Corte dei conti ai fini del coordinamento della finanza pubblica assicura un’abbondanza di citazioni degli obblighi statali relativi ai principi di “universalità” e di “uniformità”. In esse sono numerosi ed essenziali i richiami alla giurisprudenza della Corte costituzionale che cristallizza i principi del divieto di limitazione e di condizionamento delle prestazioni essenziali socioassistenziali, richiamandosi alle sentenze nn. 72 e 91 del 2020, nel senso che le stesse devono essere erogate attraverso i Lea in modo egualitario e continuativo su tutto il territorio nazionale. Ciò in considerazione della sentenza della Consulta n. 115/2012 che definisce i Lea gli “standard minimi” - soggetti a miglioramenti quali-quantitativi (sent. 125/2015) - che vanno pertanto assicurati a tutta la Nazione in modo assolutamente uniforme.
Sulla base di tutto questo, la Sezione delle Autonomie esprime un sensato timore rispetto a un verosimile ritorno di influenza della governance economica europea, sul tema del welfare assistenziale, in temini segnatamente restrittivi delle politiche sociali.
L’imposizione all’Italia di ridurre gradatamente il deficit, seppure con traguardo del 3% sul Pil dal 2027, sarà un impegno già difficile da assolvere.
Non solo. Con le nuove regole di bilancio dell’Ue, il Governo dovrà adottare “Piani strutturali di bilancio di medio periodo” (Psb), che integreranno la programmazione di bilancio con le riforme strutturali e gli investimenti.
E ancora. La riattivazione del Patto di stabilità e crescita (Psc) comporterà una manovra restrittiva dal 2025 al 2027 con effetti significativi e pesanti ricadute sul sistema multilivello. Con questo le risorse destinate alla tutela della salute – tenuto conto degli effetti negativi prodotti già assegnate alle Regioni, ancorché maggiori degli altri anni ma insufficienti a compensare gli aumenti dei prezzi – non possono essere affatto suscettibili di alcuna manovra restrittiva. Così facendo si aggraverebbero le attuali criticità venendo meno il principio che il diritto alla salute deve prevalere, senza se e senza ma, sull’equilibrio di bilancio.
Un significativo silenzio
Seguendo l’insegnamento logico di dare una grande importanza alla parola cosiddetta mancante - che è di solito quella che consente la chiave di lettura del vero scopo di un intero ragionamento - va fatto ogni sforzo per rintracciarla nel decisum delle Sezioni delle Autonomie.
In esso non emergono, tra le tante, due importanti sollecitazioni, ma da ritenersi assolutamente sottintese, afferenti:
a) alla individuazione in progress dei Lep, riguardanti tutte le materie statali, concorrenti e residuali, attesa la trasversalità che caratterizza l’erogazione dell’assistenza sociosanitaria. Diventa infatti inconcepibile, disciplinare la salute senza tenere conto della materie riguardanti, per esempio: l’ambiente, l’agricoltura, la sicurezza alimentare, la scuola, l’assistenza sociale, i rifiuti, l’urbanistica, la tutela delle acque e del suolo;
b) all’attuazione del federalismo fiscale, che manderebbe (finalmente) a casa la spesa storica, da considerarsi peraltro una delle Riforme abilitanti del Pnrr.
Un monito per agire con cautela nell’applicazione della legge “Calderoli”, senza fretta per evitare tanti “gattini ciechi”.


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